”Dopo il successo dell’Allieva, la fortunata serie che ha per protagonista Alice Allevi e che ha ispirato anche una fiction in onda su Rai Uno, ecco un nuovo personaggio che la Gazzola ci fa conoscere Costanza Macallé, che si preannuncia il primo di una trilogia.
Alessia Gazzola, la «Patricia Cornwell italiana», a differenza però della collega statunitense creatrice del personaggio di Kay Scarpetta, un medico legale lo è davvero.
In Costanza è facile ravvisare molte analogie: come l’autrice, anche lei emigra da Messina a Verona, nonostante la laurea in medicina, per un assegno di ricerca in Paleopatologia mentre serba la segreta speranza di andare a lavorare a Londra. E per stessa ammissione di Alessia, «il 90 per cento delle sparate di Flora» le ha rubate alla figlia Bianca.
Accompagnata dalla figlia Flora, frutto di una fugace relazione con un ragazzo, Marco, conosciuto in aeroporto a Roma alla vigilia di un viaggio a Malta, Costanza si trasferisce quindi a vivere nella città scaligera con la sorella Antonietta. L’impatto con il clima del «Grande Nord» non è dei migliori, l’integrazione nella nuova città non facile e il nuovo lavoro non l’entusiasma affatto.
Ma l’istituto in cui ha preso servizio a Verona, almeno apparentemente, non riesce a infiammarla, a farle sentire quel brivido della scoperta, l’eccitazione di nuove tracce individuate. Semplicemente non è il lavoro che lei sognava. Scoprire malattie nuove, salvare delle vite, questo è ciò che si immagina in un futuro prossimo.
La dottoressa Maccalè, come vorrebbe sentirsi chiamare in un ospedale londinese magari, è molto disponibile e anzi, ha bisogno di sentirsi attorniata da gente che le vuole bene e nonostante sia una mamma fiera, sente comunque il bisogno di realizzare i suoi sogni. Necessita di trovare un Suo posto nella società e vuole essere riconosciuta professionalmente.
Il tema centrale di questo nuovo filone è sicuramente quello incentrato sulla difficoltà di essere una donna con una solida laurea in medicina con una specializzazione in anatomia patologica in mano e una madre single, che nulla chiede di più se non quello di potersi ritagliare uno spazio tutto suo nella professione come coronamento di tanto studio e altrettanta fatica. Invece al momento, l’unica possibilità è un anno a Verona all’istituto di paleopatologia. Ma lei di storia, per sua stessa ammissione, non ne sa nulla e non l’ha mai studiata con particolare interesse.
Proprio davanti ad un cambiamento così drastico come un trasloco dalla Sicilia al Veneto, Costanza potrebbe finire per capire che quello che sognava forse non è ciò che potrebbe rivelarsi meglio per lei, chi lo sa!
Una scrittura scorrevole, allegra, simpatica e delicata, ma anche molto profonda che ha portato in superfice l’anima dolce e sensibile di Costanza, una ragazza che affascina non tanto per lo stile, ma per le parole, per la schiettezza e soprattutto per la dolcezza, che davanti alla sua bambina non manca mai.
Il finale, in realtà, NON è un finale anzi, si presenterà ai vostri occhi come una tela dove le uniche tracce, saranno gli abbozzi a matita di un progetto molto più grande e complesso ma dove, ancora nulla ha iniziato a prendere colore, dove ancora nulla si presenterà in modo definito, dove prima di completare l’opera sarà ancora una volta questione di Costanza.
“Nessuno può mettere Baby in un angolo.”
A presto Costanza!
La trama del romanzo.
Verona non è la mia città. E la paleopatologia non è il mio mestiere. Eppure, eccomi qua. Com’è potuto succedere, proprio a me?
Mi chiamo Costanza Macallè e sull’aereo che mi sta portando dalla Sicilia alla città del Veneto dove già abita mia sorella, Antonietta, non viaggio da sola.Con me c’è l’essere cui tengo di più al mondo, sedici chili di delizia e tormento che rispondono al nome di Flora. Mia figlia è tutto il mio mondo, anche perché siamo soltanto io e lei… Lo so, lo so, ma è una storia complicata.
Comunque, ce la posso fare: in fondo, devo resistere soltanto un anno. È questa la durata del contratto con l’istituto di Paleopatologia di Verona, e io – che mi sono specializzata in Anatomia patologica e tutto volevo fare tranne che dissotterrare vecchie ossa, spidocchiare antiche trecce e analizzare resti centenari – mi devo adattare, in attesa di trovare il lavoro dei sogni in Inghilterra.
Ma, come sempre, la vita ha altri programmi per me. Così, mentre cerco di ambientarmi in questo nebbioso e gelido inverno veronese, devo anche rassegnarmi al fatto che ci sono delle scelte che ho rimandato per troppo tempo. Ed è giunto il momento di farle.
In fondo, che ci vuole? È questione di coraggio, è questione di intraprendenza… E, me lo dico sempre, è questione di Costanza.
Come inizia.
«Ieri, oggi e domani non
sono momenti che si susseguono,
sono uniti in un circolo senza fine.»
Dark
1
L’aereo si immerge gradualmente in una densa coltre grigia e sembra immobile, sospeso nel nulla. L’atterraggio è brusco e improvviso e io sobbalzo sul sedile, le orecchie tappate, i capelli elettrizzati. Non vedo l’ora di scendere: io odio viaggiare in aereo. Se posso lo evito, ma stavolta non avevo alternative.
Flora si arrampica al mio braccio, poggiando la testolina sulla mia spalla. Compirà tre anni a marzo, cresce da sempre all’ottantesimo percentile, ha una passione per l’altalena, il latte e il turpiloquio, e morbidi e sgargianti capelli rossi, come me quando ero piccola, ma poi i miei sono cambiati e adesso, per ottenere lo stesso effetto, devo usare l’henné.
Il comandante annuncia che siamo atterrati a Verona con quindici minuti di ritardo, il tempo a terra è nuvoloso e la temperatura è di dieci gradi centigradi. Stamattina, quando siamo partite, a Messina ce n’erano ventidue. È ufficiale: sono un’emigrata in piena regola. Con una laurea in medicina non te lo aspetti, ma la vita è sempre bravissima a impacchettarti nuove sorprese.
«Siamo arrivati?» mi chiede Flora, distraendomi dai miei pensieri. Che lo si voglia o no, un figlio limita e anche di molto la possibilità di rimanere da soli con se stessi. In certi casi, è un bene.
«Sì, Florabella.» La chiamo così da quando era una neonatina itterica che passava le sue giornate coricata su di me.
«Mamma, ho un gattino nella pancia.»
«Ah sì? E come si chiama?»
«Martino.»
Da poco ha capito che, prima di nascere, il bambino vive nella pancia della mamma. Questa cosa ha colpito la sua immaginazione e da allora nel suo pancino si danno il cambio le più disparate creature. Mi hanno detto che è una fantasia molto frequente e che non devo preoccuparmi.
Estrae da sotto la felpa un pupazzetto con gli occhi a palla che le ho comprato in aeroporto.
«È nasciuto.»
«Congratulazioni!»
«Ora gli do il ciuccilatte.»
«Buona idea.»
«E lo facciamo vedere anche alla zia.»
Flora è molto emozionata. Ha un debole per mia sorella, che è minore di età eppure molto più saggia di me. Antonietta vive a Verona da due anni, è psicologa e assistente sociale. È stata lei a trovarmi questa opportunità professionale, che a tutti gli effetti credo fosse l’unica in circolazione. Cinque mesi fa ho concluso la specializzazione in anatomia patologica e sono rimasta a Messina ad aspettare il bando per un assegno di ricerca che non è mai uscito. A quel punto, mi sono presentata ai direttori sanitari di alcune cliniche private e di laboratori: sono stati tutti molto calorosi e gioviali, ma nessuna proposta di lavoro è mai arrivata. Un po’, va detto, me l’aspettavo che non sarebbe stato facile trovare subito un impiego. Per questo, già due anni fa, ho iniziato un corso avanzato di inglese e mi sono iscritta all’ordine dei medici a Londra, sperando di poter cercare fortuna in Inghilterra. Poi però ci si è messa di mezzo la questione della Brexit e gli italiani hanno iniziato a tornare indietro. Io continuo a inviare il mio curriculum e ho contatti con Carrie, una broker che mi rassicura che troverà l’occasione giusta per me e che l’uscita dell’UE non deve spaventarmi né fermarmi. Non ancora, almeno! – ha aggiunto con una risatina. Ma mantenere una figlia costa, e non soltanto soldi: anche ansia. I risparmi si stavano prosciugando al pari delle energie emotive e per fortuna Antonietta è giunta in mio soccorso, più o meno come sempre.
«Non mi aspetto che tu lo sappia, ma a Verona c’è uno dei pochi centri italiani di Paleopatologia e l’altro giorno un’amica mi ha detto che è stato bandito un assegno di ricerca per un anno.»
Per prima cosa ho dovuto capire cos’è la paleopatologia. È un po’ come la medicina applicata all’archeologia, si studiano le malattie del passato a partire dai resti umani. Mummie, roba così.
«Non penso che tu sia nella posizione di andare tanto per il sottile» ha commentato Antonietta quando ho osato dire che non era la mia massima aspirazione. Anzi, in tutta onestà, la mia è una vera e propria repulsione, ma me la devo far passare.
Il concorso si basava su una selezione per titoli, non ho nemmeno dovuto studiare o presentarmi per un colloquio. Una pacchia insomma, e infatti non l’ho vinto io. C’era un solo posto a disposizione e io sono arrivata seconda in graduatoria. Su quanti? Su due, naturalmente.
Stando ai risultati ufficiali, la vincitrice era una ragazza di nome Diana, che però poi ha rifiutato – buon per lei, si vede che aveva di meglio da fare – ed è stato così che, con un balzo, da ultima sono diventata prima.
Ma ho appena ventinove anni, per i tempi della Medicina sono una bambina. L’assegno ha la durata di un solo anno, perché è legato all’intenzione di portare a termine un importante progetto di ricerca. Lo ammetto: non sono carica di entusiasmo, anzi. Con in tasca una specializzazione in anatomia patologica mi proponevo qualcosa di molto diverso, immaginavo di rendermi utile alla società facendo diagnosi e non certo di avere a che fare quotidianamente con ossa deteriorate per appurare che i nobili del Rinascimento avevano la gotta.
Continuo a sperare che Carrie mi contatti e mi dia una buona notizia, ma nel frattempo è meglio che metta a tacere questa acidissima vocina interiore così maldisposta verso un incarico che mi darà da vivere per il prossimo anno. Da lunedì in avanti, scheletri, mummie e resti umani saranno i miei compagni quotidiani e, che mi faccia schifo o no, avrò un vero lavoro. Pecunia non olet. Se manca la passione sopperirò con qualcos’altro.
Estraggo il bagaglio a mano dalla cappelliera e mi rassegno ad aspettare con pazienza il valigione con l’indispensabile che ho portato per noi. Il resto arriverà tra un paio di giorni tramite una ditta traslochi di Messina.
Mi sento ancora appiccicata addosso la malinconia del giorno prima della partenza, aggravata dalla consapevolezza che non so se e quando tornerò. Forse sì, forse mai. L’ultima sera l’ho trascorsa prendendo un aperitivo con un paio di amiche storiche con cui ormai però non ho più molto in comune. La maternità fa da grande spartiacque: quando le altre parlano di ultime tendenze della moda o di appuntamenti, io me ne esco con lo spannolinamento. Quando si è fatta l’ora di salutarci non ho provato struggimento: non cambierà davvero molto, negli ultimi tre anni le ho viste tre volte pur condividendo lo stesso suolo cittadino. Rincasata, ho trovato Flora addormentata sul divano mentre guardava L’Eredità con mio padre. L’ho spostata nel suo letto, mi sono fatta una tisana e non mi sembrava vero quando ho intercettato Harry, ti presento Sally iniziato da dieci minuti scarsi, che mi ha fatto compagnia fino a quando sono andata a letto. Ma la notte è trascorsa inquieta, ho dormito solo a tratti e senza ristoro.
«Non lasciare la mia mano» raccomando a Flora, che scuote il capo e tiene stretto nell’altra mano il suo nuovo gattino made in China.
Siamo soltanto io e lei. A Messina vivevamo in un bilocale in via Jaci, preso in affitto perché al piano di sopra ci vivono mio padre e mio fratello. Mia madre è morta sedici anni fa, quando io ne avevo tredici, Antonietta undici e Michele nove. Ma Michele non è solo il figlio minore, lui è un bambino per sempre, perché ha un significativo ritardo mentale e vive in una dolce e perenne infanzia. È la creatura più buona del mondo e, a modo suo, aiuta mio padre in officina. Papà è un lattoniere, e la sua bottega in via Fata Morgana ha il nome più bello di sempre: «Rinomata Officina Macallè e Figlio».
Era comodo vivere vicino a loro e mi faceva stare bene. Finivamo con il cenare insieme tutte le sere e Michele è un perfetto compagno di giochi per Flora. Antonietta ha lasciato Messina due anni fa per una buona opportunità di lavoro, ma forse era stanca della Sicilia e aveva voglia di vivere un’esperienza da sola.
Papà mi diceva: «Risparmia sull’affitto, stai in casa con noi, il posto c’è». Ma io ritenevo indispensabile che Flora percepisse lo stacco. Volevo le fosse chiaro che lei non è un’appendice a un nucleo familiare composto da papà e noi tre figli, bensì lei stessa parte integrante di un nucleo indipendente. A due, ma pur sempre una famiglia. Tuttavia finivamo con il cenare sempre insieme, Michele era perfetto con Flora e, malgrado i limiti concettuali che avevo provato a delineare, adesso papà e Michele mi mancano visceralmente. Ma non c’è tempo di incupirsi. Il clima lo è già a sufficienza.
Antonietta mi ha avvisata: a Verona il sole si spegne a novembre e non torna prima di marzo. Addio alla luce calda e languida della mia Sicilia, alle cor renti dello Stretto, alla modestia di una città di passaggio, in cui molti non vogliono restare e la cui bellezza è talmente segreta che nemmeno chi ci vive sa che c’è davvero. La mia Messina sbiadirà un po’ nei miei ricordi, o magari no, magari diventerà più splendente perché ammantata di nostalgia.
Ma nel frattempo il portellone si è aperto e la nebbia è tale che non si vede a un palmo, l’aria odora di stallatico, è gelida e impregna le narici. Quel refolo di malinconia che già mi fa orlare gli occhi di lacrime è presto soppiantato dalla pragmatica constatazione di aver sbagliato a non tirare fuori dalla valigia i guantini di Flora.
Antonietta e io abbiamo pensato di andare a convivere. In effetti non se n’è neppure discusso, era semplicemente la scelta più ovvia. Lei ha lasciato casa sua, che era troppo piccola per tre persone. Fidandomi del suo buonsenso le ho dato carta bianca e lei ha affittato un appartamento in una palazzina situata in una traversa vicino a viale Galliano. Sembra la villa della Miss Havisham di Dickens e parcheggiare è un inferno, ma tanto noi non abbiamo un’auto, quindi al momento il problema non ci riguarda. E ancora, non ha balconi se non un piccolo poggiolo sul cortile interno dove si può stendere la biancheria. Tuttavia, garantisce Antonietta, la casa è in una buona posizione, vicina un po’ a tutto – al centro, alla stazione, alla tangenziale e anche a varie piscine, cosa che non guasta affatto dal momento che quando mi sento sotto pressione e infelice l’unico rimedio è nuotare e lo stress è una situazione che ormai da qualche tempo mi è diventata molto familiare.
Il taxi ci lascia di fronte alla nostra nuova casa, che è anche un po’ peggio di come sembrava nelle foto di Antonietta.
Gli alberi sono quasi del tutto spogli, permane solo qualche foglia come quei radi capelli sulla testa di un uomo che non si è deciso a rasarli a zero. Le foglie cadute si sono ammonticchiate, secche e fragranti, sul ciglio della strada e Flora ci salta sopra come fossero un tappetino. La devo tirare per mano per convincerla a salire sull’ascensore.
«Costinz!» esclama mia sorella, quando la porta si apre a fatica, mentre cerco di spingere fuori il valigione e Flora a sua volta cerca di scavalcare me e la valigia. Mi ha sempre chiamata così, mentre a lei dà fastidio che io la chiami Tony, io però lo faccio lo stesso. Le vado incontro per abbracciarla ma le attenzioni di Antonietta si spostano presto sulla mia creaturina, che abbraccia dicendole di volerla strizzare così forte per ottenere il succo di Flora. Che gioia rivedere mia sorella, l’adorata metà del mio cuore, la grande fortuna che mi ha lasciato mia madre, perché papà lo dice sempre che era stata lei a desiderarla tanto – e meno male che la spuntò.
Mentre zia e nipote intessono un’impossibile conversazione sulle circostanze della nascita del gatto Martino, io faccio un giro della casa. Io e mia sorella ci siamo riservate una stanza a testa, e accanto alla mia c’è un’altra cameretta più piccola ma più luminosa, che sarà la stanza di Flora. Poi c’è un salottino comune, piccolo se raffrontato alle sale di rappresentanza siciliane ma in linea con le dimensioni in voga nel Nord Italia, e una cucina abitabile un po’ triste: foggia anni Settanta, luce insalubre, piastrelle color crema e un tavolino finto noce cui manca solo il centrino all’uncinetto per fare disperazione.
«Sì, lo so, è squallidissima. Però apri la dispensa e guarda cosa ti ha fatto trovare la tua sorellona!» mi incoraggia Antonietta, tenendo in braccio Flora. «Come fanno i bambini a profumare così? Perché da adulti diventiamo puzzoni?»
«Parla per te» rispondo, controllando frigo e dispensa, pieni di tutti i nostri prodotti preferiti di sempre, incluso quell’abominio che è il latte condensato. È stupefacente che ancora non sia stato bandito da qualche campagna salutista. «Questo però a Flora non lo facciamo assaggiare» le dico, ma non appena volta le spalle per portare Flora in bagno a fare pipì me ne riempio un cucchiaio. Viva la coerenza, ma d’altra parte qui siamo in emergenza.
Che malessere. Niente ha un effetto così devastante sul cervello umano quanto un improvviso cambiamento. La permuta tra lo scenario siciliano e quello veronese ha un impatto che si preannuncia faticoso, a partire dall’inserimento di Flora alla scuola materna e dal mio in una vita tutta nuova.
Poggio la valigia sul letto e la apro. Una delle prime cose che si palesa alla mia vista è il librone sull’archeologia dei resti umani. Non è il momento di pensarci. Lo ficco in un cassetto, chiudendocelo dentro insieme ai brutti pensieri.
2
L’accoglienza del Grande Nord è spietata: pioggia fissa e sei gradi di massima per tutta la settimana. L’inserimento all’asilo di Flora è un tormento, le classi erano già state costituite a settembre e la mia bebè è stata infilata in corner a partire dal tre novembre. La maestra si chiama Laura ed è la nemesi divina per tutte le volte in cui, per risolvere i momenti di crisi di Flora, le ho comprato all’edicola una bustina di ciarpame da 2.99 euro. La maestra Laura mi sciorina Steiner e il rischio di un avvio al materialismo e mi interroga implacabile sulle abitudini domestiche, arricciando le labbra in maniera molto enigmatica dopo ogni mia risposta. Quando non fa smorfie che a stento nascondono la disapprovazione, si lascia apertamente andare alla condiscendenza.
Inutile aspettarsi solidarietà dalle altre mamme. In genere quando le incrocio all’uscita sono lì che parlano di iniziative che «migliorino le condizioni psicoambientali dei nostri figli», o che contestano il menu o che puntualizzano la regola per cui non si portano all’asilo giocattoli da casa. Mi sento morire, perché Flora non esce mai di casa senza Unicorn, il peluche dei Minions con la criniera rosa, la lingua storta e l’espressione ebete. La maestra, bontà sua, in deroga alle regole chiude un occhio perché, mi dice sibillinamente, «La bambina ha già affrontato tante prove». A parte il trasloco e il cambio città, quali sarebbero le altre? «Che ne sai tu?» mi piacerebbe tanto chiederle, ma non voglio apparire polemica.
Avevo organizzato le cose in maniera tale da iniziare il mio nuovo lavoro quando l’ambientamento di Flora fosse stato completo, ma di questo passo il giorno perfetto in cui lei sarà serena a scuola e io serena al lavoro non arriverà mai. È tempo di essere risolutivi e di andare incontro al proprio destino, che sia il grembiulino dell’asilo, nei confronti del quale Flora nutre un’avversione incontenibile, o che siano le mummie.
Ho scelto con cura cosa indossare. Credo che l’apparenza inganni e pur tuttavia che sia ancora usata come unità di misura del prossimo.
Vesto prevalentemente di nero. Non è stata una scelta ragionata, per lo meno all’inizio, quando avevo la tendenza a comprare abiti neri perché nei mesi dopo il parto speravo mi assottigliassero. Poi è diventata un’abitudine e come tale si è consolidata. D’estate ho qualche problema, perché il nero è lugubre e attira il calore e quindi di tanto in tanto tiro fuori qualche T-shirt bianca, ma con l’arrivo del freddo sono a posto. Quindi per il primo giorno di lavoro non faccio eccezione: nero a tutto spiano. Raccolgo la chioma in una coda e metto il cappotto cammello modello accappatoio, che non passa mai di moda. Mi sento ordinata e professionale.
Inforco la bici, per cui non ho badato a spese, dovendoci trasportare anche la bebè. Lei trova l’esperienza molto divertente e io rassodo i glutei. È la migliore idea che abbia mai avuto.
Lascio Flora alla maestra dopo un lungo abbraccio stretto stretto e un saluto commovente come se stessi per partire per sei mesi al largo della Groenlandia e poi pedalo fino all’Università, percorrendo corso Porta Nuova, raggiungendo un vecchio brefotrofio caduto in disuso dove sono alloggiati la Divisione e il Laboratorio di Paleopatologia. Non ci sono altri medici, tranne Edoardo Melchiorre, l’anatomopatologo che ha fondato questo Istituto, che è a tutti gli effetti un centro universitario. L’assistente del professore è un archeologo a metà tra il nerd dall’aria spiritata e il barbone, che sembra avere la mia stessa età.
«Lei è Costanza Macallè?» mi chiede, frugandosi con le dita la barba che gli arriva fino al collo, in continuità con i peli del petto.
«Sì.»
«Benarrivata. Ci diamo del tu? Ti hanno già fatto vedere la tua stanza?»
«Non ancora» rispondo con un sorriso cordiale che lo esorta a contraccambiare con altrettanta gentilezza. L’archeologo, che nel frattempo si presenta con il nome di Anselmo Gualandris, mi accompagna fino a una piccola stanza surriscaldata. C’è una scrivania di formica grigina, un armadietto vuoto, appesa a una delle pareti una stampa raffigurante un’antica illustrazione di uno scheletro umano. La lampadina emette un ronzio che a lungo andare potrebbe far impazzire. Anselmo biasima a lungo la manutenzione e mi promette di chiamare subito i tecnici per farla sostituire con una nuova.
«Il professor Melchiorre è già nella sua stanza. Mi ha detto che ha da fare fino alle dieci e ti aspetta per incontrarti alle dieci e un quarto. Ci tiene molto alla puntualità. E poi penso che voglia inquadrare il lavoro da fare: domani partirà l’allestimento nella chiesetta medievale del castello di Montorio, che è il motivo per cui tu sei qui.»
Mi sento un po’ confusa, perché confesso di non aver ben approfondito gli aspetti legati alla ricerca cui io in teoria dovrei dare un prezioso contributo anatomopatologico. Ci si aspetta da me che io diventi una paleopatologa, in soldoni.
«Certo, certo» dico rassicurante, ma se Anselmo riuscisse a leggermi nel cuore e nella mente troverebbe tanta, tanta, tanta voraginosa ignoranza. Appendo il cappotto all’attaccapanni ed estraggo dalla borsa un atlante di Anatomia e un libro di Paleopatologia in lingua inglese che ho fatto arrivare dalla Gran Bretagna, che ripongo dentro l’armadietto con aria afflitta per tirarlo fuori subito dopo e poggiarlo sulla scrivania accanto a una foto incorniciata di Flora: forse, guardando lei, mi convincerò che sto facendo la cosa giusta.
Nel frattempo anche una ragazza si è affacciata alla stanza. «Costanza, ti presento Sarah Foley. È una dottoranda in Antropologia e Bioarcheologia» dice Anselmo.
Sarah si avvicina e porge la mano. Ha le fossette e un sorriso molto deciso e fiero, un pullover a righe, una gonna di jeans, polpacci da calciatore e lunghi capelli color miele.
«Molto piacere» dice, con quella erre lievemente arrotondata tipica dei madrelingua inglesi. «Così, tu sei la nostra anatomopatologa nuova di zecca, bene!»
Mi ispira immediata simpatia, sarà per lo sgargiante rossetto dello stesso color geranio dello smalto. Una ragazza che si presenta così in un luogo in cui si studiano mummie non si prende troppo sul serio.
«Vuoi fare un giro del laboratorio e della biblioteca?» mi domanda Anselmo.
«Dopo, magari?»
«Quando vuoi, io sono nella stanza accanto» risponde, e si allontana insieme a Sarah. Rimango da sola ad aspettare il momento dell’incontro con Melchiorre, ma sono sufficienti dieci minuti di attesa lì dentro per farmi sentire come una sardina in scatola, così metto il naso fuori dalla stanza e busso alla porta di Anselmo. Lui picchietta febbrilmente i tasti del suo computer ascoltando musica corale antica del genere Hilliard Ensemble e sembra molto concentrato. Appena mi vede affacciata alla porta abbassa lo schermo del portatile come per tenere nascosta la sua attività.
«Che fai?» gli chiedo.
«Niente di importante. Hai cambiato idea? Vuoi visitare il laboratorio e la nostra biblioteca?»
«Vorrei, sì… Ma non è che ti ho disturbato?»
«Ma figurati» risponde lui, con molta enfasi. Mi metto alle sue calcagna non potendo fare a meno di notare che, tra il bordo del maglione giallino e l’orlo dei suoi jeans un po’ sformati, fa la sua tremenda apparizione una fin troppo generosa vista del suo peloso didietro. Grazie a quella meravigliosa cosa che si chiama propriocezione, Anselmo se ne accorge e si tira su i pantaloni agevolando l’operazione con un goffo movimento del bacino. Nel frattempo attraversiamo un lungo corridoio, un po’ cupo, le graniglie a composizione geometrica ben conservate, le pareti piene di poster di pubblicazioni degli studi già compiuti dal professore su resti di martiri e principi di ogni epoca e di tutto il territorio nazionale. Anselmo dischiude la porta del laboratorio e lì, a sorpresa, troviamo proprio Melchiorre.
L’ho sentito soltanto per telefono, dopo essere stata contattata dalla segreteria del Dipartimento, e mi ha colpita per il tono di voce aristocratico. Adesso che lo vedo, riconosco che la sua voce dalla sfumata cadenza veneta si adatta perfettamente all’individuo che ho davanti.
Ha passato da poco i cinquanta, lo so perché l’ho cercato su Google, e non è molto alto. I capelli sono scuri con un taglio regolare e la riga di lato, ma ha la barba già ingrigita, che porta corta e molto ordinata. Indossa occhiali con una montatura di corno e lenti grigio-azzurre che coprono sopracciglia nette, scure, e occhi orlati da ciglia scure che sembrano sottolineare il suo sguardo come un kajal.
«Ah. Siete voi» esordisce. «Benvenuta, dottoressa Macallè» dice, porgendomi la mano. Le dita sono un po’ tozze, le unghie molto corte. Indossa il camice, sotto al quale c’è una camicia bianca e una cravatta grigia con disegni jacquard un po’ kitsch. «Anselmo le ha già detto che la aspetto alle dieci e un quarto?»
Faccio cenno di sì con il capo, lui mormora: «Bene, bene» e lascia il laboratorio.
Anselmo è uno storico, eppure a furia di lavorare al fianco di Melchiorre ha imparato l’uso dei macchinari e la loro finalità e dimostra di capirne più di me, che sono medico anatomopatologo. È un tipo curioso per natura, mi dice.
«Del resto, in un lavoro come questo, la curiosità è tutto» aggiunge. «Vedrai, è come un appetito insaziabile. Con la storia è così, più vai a fondo, più non ti basta, più vuoi saperne. E pensare di poterci arrivare con le tecniche scientifiche è una goduria incredibile!»
Resto in silenzio, perché non saprei davvero cosa dire se non che mi sento sempre più fuori posto, che forse era meglio perdere il concorso anziché ritrovarsi in questa situazione. Sono una ragazza madre con aspirazioni di carriera lontana da qui, ignorante come una capra per tutto quel che concerne il Sacro Romano Impero, le Signorie e le mummie precolombiane – sì, Anselmo mi sta parlando di questo mentre la mia mente vaga altrove –, e la verità è che sono interessata a questa borsa di studio né più né meno come a un bancomat.
Poi Anselmo mi porta in biblioteca e mi dice: «Adesso ti lascio il tempo di bearti da sola di queste meraviglie. So bene che effetto possono fare».
Se allude a una sorta di Sindrome di Stendhal da accumulo di libri storici, è fin troppo ovvio che io ne sono costituzionalmente immune. Quando infine arriva l’ora convenuta, busso alla stanza di Melchiorre. Ma lui non c’è.
Inspiegabilmente, la cosa mi fa sentire molto sollevata.
3
«Ma scusa, ti ha bidonato?»
«Sì. Secondo Anselmo la cosa non ha precedenti.»
«Chi è Anselmo? Un bell’archeologo alla Indiana Jones?» chiede allusiva Antonietta, inarcando un sopracciglio, mentre mi versa nel piatto una non meglio specificata sbobba. Piatto unico per tutte e tre, Flora sul seggiolino brandisce il cucchiaio ed è pronta a combinare una delle sue abituali stragi di felpe e tovaglie.
«Guarda, lasciamo stare» rispondo.
«E quindi poi questo fantomatico professore è sparito?»
«Già, senza avvisare e senza spiegazioni.»
«Forse ti dirà domani.»
«Domani iniziano gli studi delle deposizioni nella chiesa medievale dentro il castello di Montorio. Ho studiato tutto il giorno tafonomia. Sono depressa.»
Flora prova a ripetere «tafonomia» e sono contenta che non mi chieda cos’è, perché non saprei proprio come spiegarle che è la scienza che studia ciò che avviene a un organismo dal momento della morte a quello in cui viene ritrovato. Per mia figlia tutto genera un «cos’è?» o un «perché?» e troppo spesso, in ambasce per i suoi quesiti sui massimi sistemi, le rispondo: «Te lo spiego quando compi sei anni». Mia madre faceva lo stesso con me, ma lei rinviava sempre ai fantomatici quattordici anni. Quando li ho compiuti lei non c’era già più e tante cose non me le ha mai dette.
Al termine della cena si è consumato il previsto sterminio ai danni di tutti i tessili limitrofi a Flora.
«Serve l’additivo per la lavatrice» commenta mia sorella.
«Già finito?»
«Eh, sì» replica lei, un’eloquente occhiata alle mani paffute sporche di passato di verdura che mia figlia si sta asciugando sulla maglietta come fosse un tovagliolo. Ovvio che sia già finito, dato il ritmo con cui Flora devasta tovaglie e indumenti.
Mi alzo dal tavolo per rassettare, essendo tacito accordo da sempre tra noi la spartizione dei compiti per cui, se lei ha cucinato, tocca a me sparecchiare e lavare i piatti. Nel frattempo Flora guarda imbambolata Peppa Pig. Reso lustro il lavello, inizia l’impervia routine serale, una sequela di piccoli atti che appropinquano Flora al mondo dei sogni cui lei si oppone strenuamente. Ha da ridire su tutto: sul pigiama, perché quello che le metto non le va mai bene e vorrebbe invece proprio quello che guarda caso è a lavare, sulle calze che le fanno il solletico, sul pannolino che non vuole più, ma se non glielo metto bagna ancora il letto a orario fisso, sulla coperta che le tiene troppo caldo ma senza la quale ha troppo freddo, sulla scelta del pupazzo che avrà l’onore di accompagnarla per la notte, sulla storia da leggere e che non mi lascia finire perché inizia a urlare che vuole il latte, che poi è troppo bollente, ma se lo allungo diventa troppo freddo, e solo alla fine, dopo i grattini che ora vuole sulla schiena, poi sul tallone, poi sul collo, poi sulla coscia, poi sul palmo della manina, solo alla fine, come improvvisamente annientata dal dardo avvelenato di una cerbottana, da un momento all’altro crolla addormentata.
Anselmo passa a prendermi alla guida di un furgoncino marrone che olezza di fiatella stantia. Sulla guancia ha ancora l’impronta della cucitura del cuscino. Il termometro interno segna nove gradi ma lui non ci pensa nemmeno ad accendere il riscaldamento. Anzi, per disappannare il vetro fa partire l’aria fredda e io mi stringo nel cappotto pensando che probabilmente si gela di più qua dentro che all’aperto. Il cielo è una vastissima distesa uniforme color grigio tenue, denso al punto da togliere qualunque speranza che in un’altra parte del mondo sia estate e il sole riesca a splendere. Anselmo accende la radio per fare atmosfera e parte l’apocalittico riff di The Power of Love mentre imbocca la strada per Montorio, dove il castello sorge appollaiato su una modesta altura fitta di verde.
«Da un punto di vista tecnico è tutto già pronto, ho coordinato personalmente una squadra di archeologi.»
«E quindi io e te che dobbiamo fare?» chiedo perplessa.
«Come, che dobbiamo fare?» ripete lui, sottilmente irritato. Fa finta di non aver capito quanto profonde siano le mie lacune in quella che sarà la nostra attività e dice: «Dobbiamo recuperare i resti scheletrici».
«Ah, sì, certo, chiaro» farfuglio, sentendomi una completa inetta.
Lui sospira e alza il volume. Mi ha sgamata, non ho speranza di riscatto, a meno che non mi dimostri una maga con il trowel – cosa su cui sono abbastanza perplessa, dato che non ho mai maneggiato una cazzuola in vita mia.
Quel che resta del castello di Montorio è avvolto dalla nebbia. La luce è fredda e pallida. Anselmo si inerpica con l’auto fino all’ingresso, possibile attraverso una bastia che risale al periodo asburgico. Scesi dal furgoncino, lui attacca a parlare mentre ci facciamo strada in mezzo alla vegetazione infestante.
«Quello che vedi risale al XII secolo» esordisce, senza poter fare a meno della sua sindrome da divulgatore accademico. «Delle otto torri originarie ne restano soltanto quattro. Il castello è stato devastato all’inizio del quattordicesimo secolo dai Carraresi, poi quando è tornato agli Scaligeri è stato rimesso a nuovo e ampliato come simbolo del nuovo potere ma dopo il 1600 ha avuto un declino graduale fino a quando non è stato trasformato in una caserma degli artiglieri austriaci. Delle abitazioni per le guarnigioni non resta più niente, e nemmeno il pozzo usato in eventualità di assedio. Resta qualcosa della chiesa, il paramento è intatto, e poi c’è quello che interessa a noi» dice, lasciando la frase sospesa e allargando le braccia di fronte a noi. Davanti a una distesa di scheletri, lui ha lo stesso sguardo sognante che io ho di fronte a una piscina. Non c’è bisogno di immergermi, a volte mi basta anche solo vederla per sentirmi meglio, quell’acqua turchese, l’odore del cloro, la geometria perfetta. A un certo momento della vita ti accorgi che piccoli piaceri e piccole ambizioni sono la compagnia più rassicurante verso cui ci si possa protendere.
«Eccoli, i nostri amici» prosegue. «Tutti rivolti a est, verso Gerusalemme e la valle di Giosafat, sede del Giudizio, in linea con il simbolismo medievale. A ridosso della facciata, ai lati del sagrato, in modo che siano irrorati dall’acqua piovana che bagna la chiesa diventando così acqua santa. Ricordati, Costanza: nel Medioevo, tutto ciò che riguarda la morte è strutturato in funzione della resurrezione eterna.»
In quel momento ci viene incontro Melchiorre.
«Oh, eccovi qui. Macallè, mi scuso per aver disertato l’appuntamento di ieri. Non è mia abitudine farlo, ma ho dovuto incontrare con urgenza il preside» dice, stringendomi la mano.
«Non si preoccupi.»
«Problemi in ateneo, capo?»
Noto che Melchiorre si irrigidisce. «I soliti. Ma è tutto risolto. Allora, Macallè, Anselmo le sta facendo da Virgilio?»
«Il migliore possibile.»
«Bene. Adesso però la seguirò io personalmente. Cominciamo dalle tecniche di scavo delle sepolture. Nei miei progetti, lei dovrà essere autonoma entro la fine del mese.»
E così sia, dunque!
Quelle che io chiamerei fosse comuni – ma non mi azzardo, perché è ovvio che sarei imprecisa – sono coperte da gazebi impermeabili, nel caso dovesse piovere.
«Faccia attenzione, Macallè, si rischia di scivolare» mi mette in guardia Melchiorre, che infatti si poggia a un bastone che lo fa apparire distinto ma ancor più eccentrico. È un vecchio bastone di legno, con il manico di corno di cervo e d’argento, e lui lo usa non solo per mantenere l’equilibrio ma anche per indicarmi ciò che sta spiegando.
«Questa si chiama tomba a cassa litica, in altri termini, una fossa rivestita da elementi in pietra. Una tomba murata, diciamo. I nostri antenati appartenenti all’élite aristocratica, oppure i laici eminenti, venivano deposti in un sudario e coperti con una lastra di pietra.»
«Il sudario non si conserva?» gli domando.
Melchiorre sorride, quasi intenerito. «No, Macallè. Seta e cotone si dissolvono. Resiste parzialmente il broccato, sa perché?»
Scuoto il capo.
«Non si preoccupi. È comprensibile che le sfugga. Perché è composto da fili d’oro. Ma va da sé che per essere sepolti nel broccato bisognava essere molto, molto ricchi. Le ho preparato degli specilli. Li usiamo per non scalfire le ossa.»
Continua a leggere…
L’autrice

Alessia Gazzola (Messina, 1982) è laureata in Medicina e Chirurgia ed è specialista in Medicina Legale. Ha esordito nella narrativa con L’allieva nel 2011, cui sono seguiti Un segreto non è per sempre (2012), Sindrome da cuore in sospeso (2012), Le ossa della principessa (2014), Una lunga estate crudele (2015), Non è la fine del mondo (2016), Un po’ di follia in primavera (2016), Arabesque (2017), Il ladro gentiluomo (2018), vincitore del premio Bancarella 2019 e Lena e la tempesta (2019). Dai romanzi della serie L’allieva, tradotti in numerose lingue, è tratta la serie tv di successo in onda su RaiUno con Alessandra Mastronardi nei panni di Alice Allevi e Lino Guanciale nel ruolo di Claudio Conforti. Collabora con i supplementi culturali de La Stampa e del Corriere della sera. Vive a Verona con il marito e le due figlie.
- Questione di Costanza
- Alessia Gazzola
- Editore: Longanesi
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 861,03 KB
- Pagine della versione a stampa: 352 p.
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