” L’uomo veramente libero è colui che rifiuta un invito a pranzo senza sentire il bisogno di inventare una scusa.
(Jules Renard)
La cassiera sposta la testa verso sinistra per controllare fino a dove si estende la fila. Il suo è uno sguardo, oltre che stanco, inutile, perché non importa quante persone ingrossino il serpentone diretto alla cassa: il suo turno di otto ore sarà inevitabilmente composto dagli stessi gesti, le stesse battute, gli stessi sorrisi stentati. Neanche la tregua di una risata spontanea lenisce il taglio triste dei suoi occhi.
È un viso semplice, il suo, privo di trucco: forse per sciatteria, per protesta o, chissà, per rassegnazione. Il sentimento di irritazione che le opprime il petto in questo momento ha un’origine meno nobile di quanto potremmo immaginare: il piede sinistro le fa male, costretto in quella scarpaccia nera da lavoratrice, il nylon dei collant le tortura la pelle, la caviglia pulsa dolorante.
«Crema solare Bronzein offerta treperdue. Affrettatevi al reparto cosmetici» gracchia dall’altoparlante la voce nasale del suo supervisore.
Gli schiamazzi dei bambini che giocano a palla riecheggiano nelle sue orecchie, l’acqua del mare è piacevolmente fredda e lei osserva i suoi piedi nudi muovercisi attraverso. L’odore di zucchero filato della sabbia arroventata dal sole insieme all’aria ricca di salsedine e di olio di lino riportano ricordi di mille anni fa.
«Mi scusi, allora me lo dà questo resto?»
Oggi è il suo compleanno, l’ultimo che passerà scartando il regalo di sua madre. Le piacerebbe passarlo al mare, ma il suo conto in banca e i turni del mese non lo permettono. Fosse accaduto qualche anno fa, appena assunta, si sarebbe prodigata in mille scuse, la faccia le sarebbe scottata e le mani si sarebbero ingannate. Ma l’indifferenza generalizzata le fa alzare lo sguardo verso la faccia da struzzo del cliente a cui allunga muta gli undicieuroediciassettecentesimi di resto.
Quando finisce di lavorare non ha cuore di aspettare i colleghi per scambiare le solite chiacchiere lamentose su tutto: si cambia frettolosamente nello stanzino con gli armadietti di ferro sgangherati, il pavimento sporco, le sedie rotte ed esce spingendo la porta antipanico. Solleva la testa verso il cielo striato di nuvole nere e respira l’aria di ghiaccio. Pioviggina. Si tira il cappuccio in testa fino a coprirsi gli occhi e percorre l’acciottolato viscido e lucente. Superato l’arco illuminato della cattedrale gotica oltrepassa la pasticceria Renoire si immobilizza. Controlla l’orologio: otto minuti alle sette. Porta la mano destra a tastare la tasca del giubbotto. Si ricorda di non avere prelevato. Forse la faranno pagare con la carta. No, è un segno del destino questo, non lo capisci? Devi filare dritto a casa.
E tra pochi minuti la pasticceria chiude. La cassiera prosegue per altri due passi. Poi si ferma, torna indietro e fissa la porta a vetri del negozio. Infine entra.
«Buonasera.»
«Buonasera.»
«Volevo quei due bignè al pistacchio.»
«Questi?»
«Sì, quelli al pistacchio.»
«Gliel’incarto?»
«Sì, grazie. Senta… posso pagare con la carta?»
La commessa guarda l’orologio appeso alla parete: le 18 e 53 minuti. A volte il tempo non vuole proprio saperne di scorrere via. Poi indica il logo delle carte di credito e la scritta spesa minima 10 euro.
«Mi spiace», aggiunge, allungando la e con tono di accondiscendenza.
«È che…».
La commessa alza gli occhi per guardare da sopra le mezzelune degli occhiali, le mani immobili sull’involto. Il dlindlon risuona dalla porta spalancata.
«Buonasera! Mi scusi l’orario, lo so che sta chiudendo.»
La commessa guarda ancora l’orologio appeso alla parete – cinque minuti alle sette – poi porta lo sguardo sul ragazzo che è appena entrato. Il casco sotto braccio, i capelli asciutti, il giubbotto di pelle bagnato.
«Mi scusi sa», dice sorridendo «è che mi è venuta un’improvvisa voglia di bignè al pistacchio.»
«Questi che sta prendendo la signorina sono gli ultimi due.»
«Già, ma non ho i soldi per pagare. Ho dimenticato di prelevare e non accettano pagamenti con la carta.»
«Signorina, solo sotto i dieci euro.»
«Sì, capisco, non si preoccupi.»
Il ragazzo si avvicina alla vetrina, scandaglia rapidamente i dolci rimasti.
«Facciamo così: prendo questa fetta di torta, è al pistacchio no? Tu prendi i pasticcini. Pago io per tutti e due.»
La commessa e la cassiera si bloccano come in un plastico, roteando solo gli occhi.
«No, no, grazie, non posso accettare.»
«Ma tu devi accettare!»
La cassiera rimane imbambolata, forse sono gli occhi blu del ragazzo, forse il suo tono perentorio, o forse solo la fame e la tristezza che l’attanagliano nello stesso punto dello stomaco.
«Grazie.»
La commessa si allunga verso la fetta di torta, riprende a incartare, guarda l’orologio alla parete e appoggia i rispettivi pacchettini sul pianale di vetro.
***
«Che tempo eh…»
«Io lo trovo affascinante.»
«Dici?»
Alzano entrambi la testa verso la luce ambrata del lampione che illumina il pulviscolo di pioggia.
«Questa è la mia moto.»
«Senti, non dovevi.»
«Ma dai, non scherzare. So cosa vuol dire l’astinenza da pistacchio», sorride il ragazzo, e sorridendo contagia la cassiera.
«Abiti lontano?»
«Un quarto d’ora a piedi, sempre dritto lungo questa strada.»
«Se vuoi ti accompagno, ho due caschi.»
«No grazie, ho paura della moto.»
«Ok, allora… è stato un piacere.»
«Piacere mio.»
Il ragazzo guarda la cassiera negli occhi; la cassiera sente una corrente fredda entrarle nell’unico angolino scoperto di pelle sotto il giubbotto antivento.
«Senti, devo farti una confessione.»
Il ragazzo alza un sopracciglio sorpreso, il casco sostenuto a mezz’aria. La cassiera si avvicina e bisbiglia: «a casa ho una bottiglia di liquore al pistacchio».
«Noo».
***
La cassiera e il ragazzo entrano da un portoncino di legno che sembra adatto a un elfo, infilano la rampa di scale di pietra umida e si lasciano alle spalle l’odore metallico della notte. Da lontano si sente un singolo rintocco di campana che segna la mezz’ora.
«Allora, cosa fai nella vita quando non vai per pasticcerie?»
«Niente di speciale. Forse è per questo che vado per pasticcerie.»
«Beh, anche io sono pazzo per i dolci. Intendo: lavoro, tempo libero?»
«Non molto. Dipingevo, ma non lo faccio più.»
«Come mai?»
«Perché vuoi saperlo?»
«Okay, scusa… Ricominciamo?»
«Ma che diavolo», risponde lei stizzita. Si sfila gli occhiali, li asciuga con la manica del maglione di lana ma finisce per sporcare sempre di più le lenti. Li rinfila, infine li getta sul divano, si avvicina al ragazzo, allarga le braccia, appoggia la testa sul suo petto e scoppia a piangere.
Il ragazzo non si muove, non respira quasi, si guarda attorno alla ricerca di indizi per capire se la donna sia appena scappata da un manicomio o da una galera. Nella penombra vede uno scaffale con tanti libri, una targhetta con la scritta «L’ispirazione esiste, ma ci deve trovare già all’opera. Picasso», due fotografie, una bottiglia verde, una bacchetta di incenso e un pacchetto rilucente; per il resto nella stanza ci sono solo un vecchio divano e un pallet che funge da tavolinetto da caffè. Lui allarga a sua volta le braccia e la tiene stretta per un tempo indefinito.
«È il mio compleanno oggi.»
La cassiera si scioglie dall’abbraccio e va verso lo scaffale. Si allunga sulla punta dei piedi e afferra la bottiglia, la porge al ragazzo.
«La apri?»
Poi si sfila le scarpe da lavoro e si siede sul divano a gambe incrociate, senza invitare il ragazzo.
«I bicchieri?»
La cassiera allunga il braccio e indica un mobiletto a vetri oltre un arco in mattoni rossi.
«Compio venticinque anni.»
«Auguri», dice lui, versando il liquore nei due bicchieri tenuti in equilibrio con la sinistra.
«Un traguardo importante.»
«Avrei preferito non raggiungerlo.»
«Cavolo, non dire così.»
«Ma che ne sai.»
«Raccontami allora.»
La cassiera assaggia il liquore, prova a infilarsi gli occhiali ma li sfila nuovamente, si lega i capelli con un elastico viola.
«Mia madre è morta ventiquattro anni fa.»
«Mi dispiace.»
Lei fa un gesto come a voler scacciare una mosca.
«Lo vedi quel pacco lì, sopra il primo ripiano in basso dello scaffale?»
«Sì.»
«È un regalo. È l’ultimo regalo di mia madre che aprirò», dice afferrando il bicchierino. «Prima di morire di cancro aveva preparato venticinque regali, uno per ciascun compleanno.»
La cassiera butta giù il liquore in un sorso. «Questo è l’ultimo.»
Il ragazzo si siede sul divano, lasciando un cuscino nel mezzo.
«Capisco. Anzi no. Non so cosa vuol dire, anche se mia madre ha avuto la stessa malattia.»
La cassiera gira la testa verso di lui, sgranando gli occhi nocciola. Raccoglie maggiormente le gambe, si massaggia i piedi e si accorge solo ora di avere ancora addosso i collant neri da tortura e i pantaloni da lavoro. Scatta su come una molla: «aspettami qui un secondo»; si precipita in camera da letto e torna subito dopo con tuta e calzettoni di lana.
«E com’è andata?»
«È sopravvissuta.»
La cassiera poggia per un istante la mano su quella del ragazzo, un luccicore le attraversa gli occhi. Poi la ritrae e riafferra il bicchiere.
«Ma io non ero con lei.»
Lei socchiude gli occhi con aria interrogativa e muove leggermente la testa.
«Ero sempre via per lavoro. Quella era la libertà che volevo raggiungere: l’indipendenza finanziaria. Ma forse non siamo mai veramente liberi del tutto, semplicemente scegliamo a cosa siamo disposti a rinunciare.»
«Forse… forse è come dici tu. Mi versi un altro po’?»
«Certo.»
«Io per avere la libertà di dipingere nel tempo libero non ho mai voluto impegnarmi in un lavoro serio. Pensavo che la carriera fosse il male, pensavo che impiegato fosse sinonimo di meschino e che io, con la mia arte, fossi superiore. Credevo che intraprendere un lavoro più importante mi avrebbe contaminato. Mi sono detta trovati un lavoro del cavolo, giusto per pagarti le bollette, la trementina, le tele, i colori. Vedrai che con l’impegno prima o poi riuscirai a vivere con le tue creazioni, o magari insegnando pittura o organizzando eventi artistici. Ci credevo veramente. La realtà è che la mia arte si è arenata e da quattro anni faccio la cassiera in un discount.»
Quando finisce di parlare riprende fiato, guarda l’aforisma di Picasso appeso alla parete e respinge indietro le lacrime.
«Onestamente: non ci vedo niente di male.»
«Ma certo, mica ammazzo nessuno. Ma è libertà quella di arrivare a malapena a fine mese, facendo turni e non poter neanche permettersi di vedere un paesaggio nuovo? Uno scenario che possa spronarti a riprendere pennelli e colori in mano? Non era meglio cercare di entrare in un ufficio, e poi godersi il mare, le albe, i tramonti senza preoccupazioni?»
«E chi ti ha detto che non sia più possibile? Che puoi cercare un buon lavoro, e nel tempo libero viaggiare e dedicarti alla pittura?»
La cassiera guarda il ragazzo in fondo agli occhi, mentre da fuori giungono undici lunghissimi e lugubri rintocchi di campana; osserva per un minuto intero gli scuri socchiusi.
«Mi sento fuori tempo massimo. In ritardo su tutto, sempre a inseguire un ritmo troppo veloce. Persino la pasticceria stava chiudendo se non…»
«Sì, ma poi ce l’hai fatta.»
«E se non ci fossi stato tu coi contanti.»
«Sì, ma guarda caso ero lì. La persona giusta al momento giusto.»
La cassiera sorseggia il liquore, le labbra leggermente a cuore. Trattiene per qualche istante il liquido in bocca assaporando le sfumature morbide del pistacchio e le punture leggere dell’alcol sulla lingua. Le sembra di essere sul ballatoio di un faro, a guardare l’orizzonte con il calore alle spalle e la brezza che le fa accapponare la pelle del collo.
«Quello, lo vuoi aprire?»
«Ho paura.»
«Paura di quello che potresti trovare?»
«Di cosa potrei non trovare. O della fine di qualcosa, di un rapporto.»
«Vai avanti.»
«Ogni anno, aprendo il regalo, sentivo la presenza di mia madre. Mi riunivo con lei. E iniziava il conto alla rovescia per quello successivo. Trecentosessantacinque giorni di attesa, di speranza, di eccitazione. E questo è l’ultimo. Aprendo questo regalo divento irrimediabilmente adulta. Svanisce per sempre l’ombra della sua protezione.»
«Capisco. Mi domando se ci sia un’età spartiacque, un momento in cui avviene il passaggio di consegne tra genitori e figli della responsabilità per cui sei quello che sei.»
Entrambi fissano la scatola quadrata: la carta lucida dorata, il nastro rosso col fiocco centrale. Sembra impossibile che sia stata confezionata venticinque anni prima.
«Ma rimarresti tutta la vita con la curiosità. E forse anche con il rimorso di non aver accettato qualcosa che lei aveva pensato per te.»
Lei stira la schiena e allunga il braccio destro fino a raggiungere la bottiglia appoggiata sul tavolo da caffè. Svuota il contenuto nei due bicchieri e abbandona la bottiglia rovesciandola sul pallet.
«Adesso brindiamo prima che arrivi domani», dice il ragazzo dando uno sguardo all’orologio.
«Che ore sono?»
«Le undici e cinquantasette.»
«Caspita, quasi mezzanotte. Il mio corre sempre avanti.»
«Buon compleanno», aggiunge il ragazzo.
«Grazie.»
La cassiera si alza e lentamente si avvicina allo scaffale. Prende la scatola. Sembra vuota, senza peso. La fissa.
«Aprila tu.»
«Ma no dai.»
«E invece sì, per favore.»
«Ok.»
Il ragazzo si alza e prende la scatola. Guarda la ragazza negli occhi, come a voler chiedere un’ulteriore autorizzazione. Tira i due lembi del nastro rosso, scosta i pezzi di scotch ormai secco e scarta l’involto.
«Allora? Cos’è?»
Il ragazzo sorride.
«Allora, cos’è dai…»
«Cosa dicevi a proposito del tuo orologio che corre sempre avanti?»
Lui apre la scatola, e ne sfila un orologio da polso. È di plastica azzurra, con le lancette bianche, di una marca degli anni ottanta, sparita dalla circolazione. Segna cinque minuti alle sette. Chissà da quanto tempo.
«Guarda: l’ora in cui ci siamo incontrati.»
erica
2 Maggio 2020 a 16:25
Complimenti. Mi hai trascinato nel racconto. Aspettavo di sapere cosa sarebbe successo dopo. il racconto in generale risulta molto dolce.
Michele Renzullo
2 Maggio 2020 a 20:22
Grazie Erica, mi fa molo piacere
In effetti ne è nato un romanzo. Sto completando proprio in questi giorni l’ultima revisione.
Michele Renzullo
3 Dicembre 2022 a 15:30
Ciao
Il racconto “L’undicesia ora” è stato inserito nella raccolta di racconti “Farfalle a sonagli” edito da Golem Edizioni. Se volete leggere altri miei racconti:
shorturl.at/wGNO6
Riccardo Alberto Quattrini
3 Dicembre 2022 a 16:37
Non ci può fare che piacere la dimostrazione che sia piaciuto lo dicono le 4958 letture che ha ricevuto. Se lo desidera può inviarci altri racconti che con grande piacere li pubblicheremo.
Elisabetta Sciabordi
27 Novembre 2019 a 23:47
Bello! Letto in fretta e poi riletto con calma che anche senza la sorpresa del finale è stato gustoso…piacevolissimo. Faccio sempre così.
Mi son sentita dentro ogni passaggio respirando ogni momento. Originale il finale. Complimenti. Bravo!
Silvia
11 Novembre 2019 a 21:53
Meraviglioso! Ti tiene incollato fino alla fine e come conclusione, l effetto sorpresa! Veramente un bel racconto, complimenti!
Giorgia
15 Aprile 2019 a 10:28
Bellissimo questo racconto, la prima parte, quella in cui lei è a lavoro rispecchia la realtà in modo così fedele, le calze che grattano la pelle e il cliente indisponente, tutto così vero!
Mi piace come hai caratterizzato il personaggio, la cassiera, non le dai un nome e continui a definirla cassiera come se lei fosse solo quello, come se il lavoro che fai ti descriva completamente; invece non è così e sempre definendola “la cassiera” riesci a far capire le mille sfumature che si nascondono nella ragazza!
Complimenti!
Michele
16 Aprile 2019 a 9:52
Ti ringrazio molto Giorgia. Tu pensa che ne è nato un Romanzo di Racconti, con protagonista sempre la stessa ragazza.
Paolo
15 Giugno 2018 a 10:09
Mentre lo leggi continui a chiederti come si evolverà la storia… E adesso cosa accadrà? Mi sono immaginato di tutto… Tranne Un finale così semplice ma nel contempo molto bello e sorprendente!
La lettura è stata molto piacevole!
Michele Renzullo
15 Giugno 2018 a 10:23
Grazie Paolo, apprezzo molto