Un uomo al di sopra di ogni sospetto, un magistrato integerrimo tradito dal cuore e dalle medicine che avrebbero dovuto salvargli la vita. Chi ha sostituito le pillole per l’angina del dottor Fidenziano Calabrò con un placebo? Per scoprirlo, il maresciallo maggiore dei carabinieri, Delma Pugliese, dovrà risolvere dei veri e propri enigmi, scavando appena sotto la patina di perbenismo, tra vizi e gelosie, della Lecco che conta.
Dopo “Un delitto al dente” e “Un delitto lacustre”, non perdetevi il nuovo e intricato caso dell’affascinante Delma Pugliese.
[…] Deodato le osservò il profilo sottile, la fronte spaziosa, i capelli neri come le ciglia lunghe, gli occhi grandi, profondi, vividi, che quando ti davano un ordine lo eseguivi in un lampo. Aveva abbassato l’aletta parasole e, osservandosi nel piccolo specchio, si era passata un filo di rossetto sulle labbra. Quell’operazione tanto femminile, riscosse in Deodato un che di voluttuoso, era come se la divisa fosse sparita.
«Guarda che ti vedo Deodato. È meglio che tieni d’occhio la strada».
Un racconto di
Riccardo Alberto Quattrini
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“L’ipocrita lo riconosci subito. Ha una maschera sull’anima.”
(Vinkweb, Twitter)
L’Alfa 155 era ferma sul piazzale antistante la procura. L’appuntato Luca Cigolani era alla guida e faceva scivolare le mani sul volante, quando li vide scendere gli ampi gradini smise. Avevano i volti tirati di chi ha ricevuto qualche brutta notizia. Il maresciallo maggiore Delma Pugliese era qualche gradino avanti al sostituto dottor Bruno Canepa. Cigolani scese dall’auto e aprì la portiera posteriore al sostituto facendo seguire un saluto alla visiera.
«Cigolani andiamo dal patologo», disse il maresciallo sedendoglisi accanto.
L’Alfa partì con una sgommata. Durante il viaggio non si scambiarono nessuna parola. Dapprincipio la giornata pareva essere positiva per il maresciallo Pugliese, visto l’esito del caso “odontoiatra”, che lei aveva battezzato un delitto al dente, indirizzando immediatamente le indagini verso la pista sentimentale. Mentre il sostituto aveva propugnato che si trattasse di un semplice infarto. Il dottor Bruno Canepa aveva da qualche giorno sostituito il dottor Fidenziano Calabrò, morto nello studio di casa sua per un infarto. Una bravissima e degna persona, con la quale il maresciallo si era trovata sempre in perfetta armonia. Diversamente con il dottor Canepa, giudicato senza indugio come presuntuoso, arrogante e borioso quando puntualizzò, muovendo a scatti la mano, come un direttore d’orchestra, che amava l’osservanza delle leggi, non disgiunte, qualora ce ne fosse la necessità, da una tempestiva repressione dei reati nel rispetto delle misure di sicurezza… E poi quei capelli lunghi e quel perenne ciuffo che gli scendeva sulla fronte butterata, come il viso, che ricordava un poco Fabrizio De André, anche lui genovese come il cantautore.
La distanza dalla procura all’Istituto di Medicina legale era assai breve. L’edificio, ricavato nel lato nord dell’ospedale Luini Confalonieri, era bigio e cupo, come ciò che quel luogo rappresentava. La facciata ospitava, su un lato ad angolo retto, tre finestre dotate di telai di ferro e vetri smerigliati, che davano una fievole luce interna alle scale. Cigolani entrò nel piccolo cortile, dove vi era parcheggiato un furgone nero, da cui due necrofori tirarono fuori un sacco, nero, di plastica che adagiarono su una lettiga. Ritto, accanto alla porta, stava Georg Brandhauer, l’assistente del dottor Bonafè. Con ampi gesti collaudati Brandhauer fece scattare i ferma-porte ed aprì i battenti. I due uomini spinsero il carrello all’interno del corridoio.
«Siamo attesi dal dottor Bonafè», disse Pugliese.
L’assistente fece un mezzo inchino, «Il dottore vi aspetta in laboratorio», disse e fece seguire la frase da un gesto con il braccio, ad indicare la via.
I due necrofori spinsero la lettiga, che cigolava per via di una ruota sgrassata, nel lungo corridoio di linoleum blu. Li seguivano Brandhauer, Pugliese e Canepa. L’odore nel locale sapeva di muffa e disinfettante, mosso da un enorme ventola che girava lenta sul soffitto ingiallito. Tutte le pareti erano piastrellate di un colore indefinito, sulla parete di destra alloggiavano le celle frigorifere mortuarie lucide, in acciaio cromato. Poco discosta una scrivania in metallo con due sedie bianche da ospedale. Dal soffitto pendevano due grosse lampade al neon che diffondevano, oltre al tipico ronzio dei condensatori, una luce innaturale. Il tavolo di dissezione rettangolare, con lavandino, in acciaio, dominava il centro della stanza.
«Dottor Canepa», disse il dottor Bonafè, fasciato in un camice di due taglie più grandi, che metteva in risalto ancora di più la sua magrezza. «Mi dispiace fare la sua conoscenza in una simile circostanza», seguitò porgendogli la piccola mano. Il sostituto alzò le spalle.
«Fa parte del nostro lavoro», disse e gliela strinse.
«Maresciallo», si rivolse a Pugliese stringendo anche a lei la mano. «Voi due potete andare. Anche tu», disse ai portantini e al suo aiutante, che mestamente si incamminò dietro di loro per poi richiudere alle sue spalle la porta di metallo.
«Chi è?», domandò curiosa Pugliese.
«Un incidente automobilistico. Sapete come sono le assicurazioni», proseguì: «Vi ho convocati con urgenza, in quanto devo riferirvi di un importante e drammatico fatto». Il sostituto fece correre lo sguardo per il locale, come a domandarsi se non ci fosse stato altro posto per parlare. «Capisco dal suo sguardo che vi state chiedendo perché vi abbia fatti convocare qua, anziché nel mio studio di sopra», disse come se gli avesse letto nel pensiero. «Ma prego, accomodiamoci», disse e indicò le due sedie di metallo. Si sedettero, il dottor Bonafè su uno sgabello che fece scivolare da sotto la scrivania. «Quando vi avrò messo al corrente , capirete perché ho ritenuto necessario tutto questo riserbo».
«Siamo tutto orecchie», disse Canepa.
«Si tratta del dottor Fidenziano».
«Il dottor Calabrò?», chiese il maresciallo levandosi il cappello e mostrando i capelli neri raccolti dietro la nuca da un paio di pettinini.
«Sì. Siamo molto amici, per questo l’ho chiamato con il suo nome di battesimo. Ma intendevo proprio lui, il dottor Calabrò».
«Ebbene», soggiunse Canepa accavallando le lunghe gambe.
«Ebbene, non è morto come si credeva per un infarto».
«No?», chiese Pugliese.
«No… È stato ucciso».
«Ucciso?», chiese il sostituto scavallando le gambe e raddrizzando la schiena.
«Ma è sicuro?», chiese Pugliese allungandosi sulla scrivania.
«Ascoltate, vi prego», disse Bonafè rivelando un moto di afflizione. «È stato per puro caso che sono giunto ad una simile scoperta. Quando Fidenziano, quella sera cominciò a stare male, sua moglie mi chiamò. Io accorsi subito, cioè non prima di averle consigliato di fargli assumere della trinitrina. Fidenziano, come anch’io del resto, soffriva di angina. Così, quando arrivai a casa sua e dovetti salire i tre piani di scale, vuoi per l’agitazione, vuoi per lo sforzo, anch’io sentii quei dolori caratteristici che accompagnano chi ne soffre. Ma come sempre, di portarmi la trinitrina non me lo ricordavo mai…».
«E dunque?» chiese impaziente Canepa. Il dottor Bonafè si soffiò il naso prima di proseguire: «Quando Eleonora mi accompagnò nello studio, trovai Fidenziano disteso a terra e non potei fare altro che diagnosticarne la morte per infarto. La scatoletta della trinitrina era sul tavolo della scrivania, così per precauzione ne presi un paio che feci sciogliere sotto la lingua. Ecco, fu in quel momento che mi sorse un dubbio».
«Cioè?», lo incalzò il sostituto.
«Il sapore. Il sapore di quella pillola era troppo dolce, e poi il mal di testa. Non sopraggiungeva».
«Mi faccia capire dottore», intervenne Pugliese «a lei, quando assume la trinitrina, le viene male alla testa. Ho capito bene?»
«Già. Sempre. Mentre quella sera non sopraggiunse. E poi, come dicevo, quel gusto dolce. Così mi sono infilato in tasca la scatoletta e l’ho analizzata».
«E…», fece lei incuriosita.
«Zucchero. Una semplice pillola di zucchero. Un placebo, insomma. Capite? Lui, al bisogno, assumeva dello zucchero». Per un attimo calò il silenzio. Si udivano solamente il ventilatore e i condensatori che sfrigolavano.
«E a chi poteva interessare che assumesse dello zucchero anziché una medicina vera?», chiese il sostituto, che aveva nuovamente accavallato le gambe.
«A chi voleva che gli venisse un infarto».
«Dunque, siamo in presenza di un omicidio», disse il maresciallo sistemandosi un pettinino dispettoso, che non voleva saperne di restare tra i capelli. Bonafè annuì.
«Ci sarà bisogno di una nuova perizia, allora. Dovremo riesumare la salma», disse Canepa.
«Certamente. Lei mi faccia avere l’autorizzazione. Penserò io ad avvertire la moglie. Povera donna, chissà come prenderà la notizia», disse Bonafè.
«No. Se permette dottore, quel compito spetta a me. Il dottor Calabrò l’ho conosciuto quando, due anni fa, assunsi il comando della compagnia. Ho avuto perciò modo di conoscerlo e apprezzarne il suo operato sempre teso al rigore e all’inflessibilità. Sua moglie Eleonora, invece, la conobbi a novembre dello scorso anno, in occasione della Virgo Fidelis, Patrona dell’Arma. Credo ne convenga anche il dottor Canepa, sia giusto che mi incarichi io di questa indagine», disse Pugliese con un piglio deciso che non ammetteva repliche. Bonafè approvò con un movimento contenuto della testa. Canepa, viceversa, in maniera più ostentata, muovendo ripetutamente la testa, con una chiara espressione di assenso riflessa nei suoi occhi scuri.
Si salutarono.
***
Appena rientrata al Comando, Delma Pugliese convocò nel suo ufficio i due collaboratori più fidati per metterli al corrente degli sviluppi e dare loro disposizioni:
«Allora, tu Catelli fai una piccola e discreta indagine sul dottor Fidenziano Calabrò. Cerca i luoghi che maggiormente frequentava. Ristoranti, bar, il giornalaio, il parrucchiere».
«Il parrucchiere?», chiese stupito il vice brigadiere.
«Sì, Catelli. In quelle botteghe si parla molto, ci si confida. Non solo noi donne, credimi. Ma Catelli…», riprese il maresciallo posando un gomito sul piano della scrivania colma di faldoni e carte, guardandolo dritto negli occhi chiari, «discrezione. La massima discrezione. Ci siamo capiti?».
«Maresciallo, mi scusi, come posso essere discreto, se sto indagando su un assassinio?».
«Catelli, mica devi dire che lo hanno assassinato, no? E poi la discrezione la intendo anche con i colleghi, con gli amici, con la fidanzata. Tu è a me che devi relazionare. Sono stata chiara?».
«Moglie. Sono sposato maresciallo», disse puntiglioso.
«Moglie Catelli. Va bene, moglie». Il vicebrigadiere stirò le labbra in un sorriso compiaciuto e si avviò alla porta. Il maresciallo lo richiamò:
«Un ultima cosa. Naturalmente ci vai in borghese».
«Naturalmente maresciallo», e infilò la porta.
Poi si rivolse al brigadiere, che fino a quel momento se n’era restato con un taccuino per gli appunti posato sulle ginocchia e una matita in mano.
«Tu Deodato, invece, mi fai un elenco di chi ha mandato a processo, diciamo negli ultimi due anni. Io vado a casa sua a dare questa altra brutta notizia alla moglie. Via, al lavoro», disse e si alzò dalla scrivania, indossò il cappello e uscì seguita dal brigadiere e dal suo taccuino, che era rimasto immacolato.
***
L’edificio del dottor Fidenziano Calabrò era al terzo piano di uno stabile che si affacciava sul lago. Il maresciallo aveva fatto precedere la visita da una telefonata, per predisporre la signora Calabrò a quel singolare appuntamento.
Si accomodarono in soggiorno. Era arredato con gusto: solidi mobili di legno e morbidi divani su un parquet verniciato Vi erano numerosi quadri di genere, ritratti, paesaggi e nature morte. Una grande biblioteca occupava tutta una parete.
«Si accomodi», disse la signora. «Mi ricordo di lei, fu lo scorso anno per la festa della patrona dell’Arma. Non le nascondo la mia apprensione dopo la sua telefonata. Un maresciallo dei carabinieri che si presenta in casa lascia presagire sempre, mi permetta, qualcosa di spiacevole.» Pugliese guardò quel viso che non dimostrava gli anni che lei conosceva, un ovale discreto, leggermente abbronzato da passeggiate sul lungo lago.
«Ha perfettamente ragione signora Calabrò. Non le porto buone notizie. Ma deve convenire che è il mio dovere a impormi certi spiacevoli compiti», disse e posò il cappello rovesciato sul divano al cui interno depose i guanti.
«Le posso offrire qualcosa?», chiese la signora lisciandosi la gonna nera con le due mani. Il maresciallo scosse la testa, stirò appena le labbra in un sorriso di circostanza. «Allora mi dica», ed emise un lungo sospiro.
«Non faccio giri di parole per non angosciarla maggiormente. Quello che le dirò, la esorto, dovrà rimanere circoscritto a queste mura». La signora si portò una mano sul petto e fece un altro lungo sospiro. «Dunque, suo marito non è morto, come tutti credevano, per un infarto. No. Qualcuno lo ha deliberatamente ucciso». La signora si coprì il viso con le mani. Nel soggiorno scese un silenzio temperato solo dalla grande pendola che, incurante, batteva il tempo.
«E chi lo avrebbe ucciso?», domandò con una voce incrinata dalla commozione.
«Sono qui per questo. Per cercare di capire chi avesse questo interesse. Vorrei, quindi, farle delle domande, se se la sente».
«Mi dica cosa vuole sapere», disse asciugandosi appena gli occhi con un fazzoletto.
«Per prima cosa vorrei che mi raccontasse tutto di quella sera quando suo marito si è sentito male».
«Sì. Dunque, saranno state le dieci, dieci e trenta. Dopo cena, io ero qua che stavo leggendo un libro, mio marito era, come quasi ogni sera, nel suo studio. Quando l’ho sentito chiamare, sono andata di là e ho visto che boccheggiava. Come se gli mancasse l’aria. Mio marito soffriva di pressione alta e crisi di angina. Così ho preso un paio di pastiglie dalla confezione che teneva sempre sulla scrivania e gliele ho messe sotto la lingua. Ma non è servito a nulla. Nel giro di qualche minuto ha smesso di respirare e si è accasciato a terra», disse e si soffiò con delicatezza il naso.
«Eravate soli quella sera?»
«Sì. Noi non abbiamo figli. Del resto mio marito non ha mai insistito perché mi sottoponessi a qualche cura, mi ha lasciato scegliere liberamente. E io non me la sono sentita, o venivano spontaneamente, altrimenti era segno che mi dovevo rassegnare a non averne».
«E poi che ha fatto?».
«Ho telefonato perché mandassero un’ambulanza. Ma quando sono arrivati hanno confermato che era morto».
«E ha fatto altre telefonate quella sera?».
«Sì, al dottor Bonafè. Renato è un vecchio amico di mio marito. Che anche lei conoscerà».
«Certamente. E quando è arrivato?».
«È arrivato pochi minuti dopo l’ambulanza. Renato abita poco distante da noi».
«Quindi ha potuto solo constatarne l’avvenuto decesso».
«È rimasto molto scosso per la perdita del suo amico. Come del resto anch’io. Quando si perde una persona cara in un attimo si rimane davvero colpiti. Terribile, mi creda».
«Immagino. Poi cosa ha fatto il dottor Bonafè?».
La signora Calabrò indugiò qualche momento prima di rispondere.
«Beh, Renato respirava a fatica. Era diventato smorto».
«Come mai?».
«Per via dell’ascensore che quella sera si era rotto. È dovuto salire a piedi. Così mi ha chiesto la trinitrina, che anche lui usa nei momenti di bisogno, anche se la scorda sempre nello studio».
«Così ha preso quella di suo marito», disse Pugliese. «Ecco, è proprio per quelle pastiglie che il dottor Bonafè ha capito che suo marito era stato assassinato».
«Cosa significa?».
«Che qualcuno le ha sostituite con un semplice placebo. Erano semplicemente degli zuccherini».
«E come se ne accorto Renato, sì, il dottor Bonafè?».
«Quando assume la trinitrina, gli viene un forte mal di testa. Sempre. Mentre quella volta lì, non successe. Al momento non ci fece caso. Ma, quando giunse a casa, si accorse di avere la confezione di quelle pillole, che distrattamente si era messo in tasca. Così si ricordò di quel mal di testa che non era sopraggiunto. Le analizzò e fu allora che scoprì trattarsi di un placebo». La signora Eleonora scosse la testa domandandosi chi volesse mai la morte del marito.
«Suo marito aveva nemici, che lei sappia?», chiese Pugliese guardandole il viso che si era fatto rosso.
«No, almeno non credo. Lui era semplicemente un magistrato».
«Già. La funzione del magistrato è quella di assicurare alla giustizia chi commette reati. E suo marito, nel corso della sua carriera, qualcuno dietro le sbarre ce lo ha mandato. Non è così?».
«Non l’avevo mai considerato. Se uno commette un reato, ho sempre pensato che si aspetti, prima o poi, di pagare il suo crimine».
«Eh no. Non è sempre così. Chi commette un crimine, non solo pensa di farla franca, ma, se preso, non accetterà mai di essere stato condannato. Per lui, delinquere, è la norma, la vera giustizia. Molti sono convinti che sia colpa della società che li ha resi dei criminali. Per questo tutto il fondamento giuridico è basato, quindi, sul recupero e reinserimento del reo. Suo marito non l’ha mai messa a parte di qualche preoccupazione?».
«Assolutamente no. Anche se, del suo lavoro non mi parlava mai. Diceva che non mi voleva preoccupare con certe vicende assai dolorose».
«Mi diceva che suo marito soffre di pressione alta. Che medicine assumeva. Lei se lo ricorda?».
«Certamente, ero io che gliele preparavo. Aspetti un momento», disse e uscì dalla sala. Dopo qualche minuto tornò con in mano un foglietto e un piccolo contenitore giallo di plastica. «Ecco», disse, «questa è la scatoletta porta pillole settimanale che gli preparavo e questi sono i medicinali che doveva assumere giornalmente. Qui ci sono scritte le ore della giornata in cui doveva assumerle».
«Molto bene. Posso tenerla?», chiese il maresciallo mentre deponeva la scatoletta sul tavolino di cristallo accanto a delle riviste.
«Certamente, a che mi serve ora», rispose la Calabrò con un’alzata di spalle.
«Suo marito aveva certamente un medico che lo seguiva. È così?».
«Sì. Si chiama Poggiolini. Dottor Poggiolini Marco è un cardiologo e ha lo studio in centro a Lecco. Vuole l’indirizzo?».
Non è necessario», disse il maresciallo posando lo sguardo su un ritratto di donna.«È lei quella?» chiese.
«Sì. Me lo fece un pittore amico di mio marito. Anche le due marine ad acquarello sono sue e ritraggono i dintorni di Camogli. Si chiamava Domenico Diegoli».
«Molto belle. Non ho potuto non notare che la sua casa è grande e molto pulita e ordinata. Ha una persona che se ne occupa?».
«Sì. Viene tre giorni la settimana. Pulisce, lava, ordina e stira. Qualche volta, se le resta del tempo, è capace di prepara qualcosa di buono per la cena. Qualche volta si ferma anche a dormire, capita quando fa tardi e non ci sono più pullman per ritornare a casa».
«Dove abita?».
«A Valmadrera. Divide la casa con una sua amica».
«Una domestica eccezionale, dunque. In questo momento è in casa?».
«No, è uscita per delle commissioni».
«È da molto che è a servizio da lei?».
«Oh, sì, Diletta. Si chiama Diletta, e si occupa della casa da molto tempo. Da quando mio marito si è trasferito da Bergamo. Beh, non proprio subito. Prima ne avevamo avuta un’altra».
«Questa Diletta, fa di cognome?».
«Pasotti. Perché vuole saperlo?», domandò curiosa la signora.
«Non dobbiamo tralasciare nulla».
«Capisco».
«E ora mi dica. Dove vi fornivate per l’acquisto dei medicinali».
«A mio marito non piaceva far sapere che era malato. Malato, insomma che soffriva di pressione alta. Così ci si serviva da una farmacia a Erba».
«Si ricorda il nome della farmacia?».
«No. Ma era vicina alla stazione. Mi dica maresciallo, che idea s’è fatta, dopo aver saputo che qualcuno gli ha sostituito il medicinale».
«In questa prima fase dell’indagine, posso solo cercare di non trascurare e supporre nulla. Una volta acquisite tutte le prove circostanziali, sarò in grado di esprimere un giudizio. Ora le devo comunicare, sapendo quanto le sarà di afflizione, che sarà opportuno riesumare suo marito».
«Ma è necessario?», chiese Eleonora Calabrò portandosi il fazzoletto davanti alle labbra.
«Indubbiamente. Dobbiamo capire se è come ha pensato il dottor Bonafè. Se quelle pastiglie erano solo un placebo. Ma soprattutto da quanto tempo le assumeva», Delma Pugliese si era già alzata dal divano quando le domandò se suo marito possedeva un cellulare.
«Certamente», disse strofinandosi le mani.
«E potrei averlo per controllare le ultime telefonate. Sempre se lei è d’accordo».
«Gliel’ho detto. Mio marito era un uomo schivo e riservato. Non mi parlava del suo lavoro, ma riguardo al resto, credo non avesse da nascondere nulla».
«Mi servirebbero anche le ricette che suo marito usava per l’acquisto dei medicinali. Questa lista è molto poco pertinente», disse e sventolò il foglietto che poco prima le aveva dato la signora Calabrò.
«Non c’è nessun problema», così dicendo la signora si avviò verso lo studio per far ritorno poco dopo con un telefonino e alcune altre ricette, che consegnò al maresciallo.
Delma Pugliese si accomiatò complimentandosi per il magnifico ficus che svettava da un angolo del salotto.
***
Una volta in macchina prese il telefono e chiamò il centralino.
«Sono Pugliese», disse, «passami Deodato».
«Comandi maresciallo», disse la voce del brigadiere.
«Mi devi fare una ricerca su una certa Diletta Pasotti che è a servizio dai Calabrò. Hai preso nota?».
Sì maresciallo».
«Poi mi controlli i tabulati delle telefonate del cellulare del dottor Calabrò. Ora ti do il numero», e glielo comunicò. Si rivolse infine a Cigolani che era alla guida dell’Alfa, e senza sosta accarezzava il volante. «Noi invece andiamo a Erba», disse guardandogli il profilo regolare.
L’appuntato Luca Cigolani, fin dal primo giorno che prese servizio alla Stazione Carabinieri di Lecco, era rimasto colpito dal fascino che il maresciallo maggiore emanava. Non gli era mai capitato di avere un superiore donna, si era abituato, nel suo pur breve tirocinio, a marescialli baffuti. Era per questo motivo che si sentiva sempre a disagio quando conduceva la Gazzella e a bordo c’era lei.
«Ecco fermati qua», gli disse Pugliese una volta giunti nella piazza della stazione di Erba. L’insegna verde della farmacia, che indicava data, ora e temperatura, lampeggiava sull’angolo.
Entrò.
«Sono il maresciallo maggiore Delma Pugliese, vorrei parlare con il titolare», disse rivolgendosi a una donna con una gran massa di capelli rossi come il fuoco, che incorniciavano un viso spruzzato di lentiggini, non più giovane, ma ancora molto piacevole. Indossava il camice bianco e il distintivo dell’Ordine.
«Ce l’ha davanti», le disse stirando appena le labbra sottili. «In che cosa posso esserle utile maresciallo». Pugliese si guardò un attimo attorno. C’erano due persone al banco che stavano servendo.
«C’è un posto un poco più discreto?».
«Venga, andiamo di là», disse la donna e si avviò verso una piccola stanza dove effettuavano la misurazione della pressione. «Qui può andare bene?», chiese.
«Sì. Dunque. Vorrei sapere se conosce il dottor Fidenziano Calabrò».
La farmacista deglutì, poi rispose:
«Certo, me lo ricordo», disse schiarendosi la gola, «non lo si può dimenticare un tipo come lui. Un chiacchierone che levati», disse schiaffeggiando l’aria con una mano. «Ma che gli è successo?», domandò poi seria.
«È morto».
«O poveretto. Mi dispiace. Era così simpatico, un poco importuno con le mie farmaciste».
«Che vuole dire?».
«Che era un uomo a cui piacevano le donne». Su questo non ebbi mai dubbi, pensò Delma Pugliese e le venne in mente quando lo conobbe per la prima volta. Lui era scivolato dalla sua ampia poltrona di pelle e le aveva stretto la mano in modo militaresco, come a dimostrarle che era lui che dava gli ordini lì. Aveva un riportino che gli copriva il cranio rossiccio, come la faccia puntellata di lentiggini, le sopracciglia rosse e cespugliose si muovevano a ogni frase.
«Ma a me faceva ridere, con quella sua voce nasale», proseguì la farmacista «e quella lisca che lo faceva biascicare quando pronunciava le esse. Come si fa a non ricordarlo. Poveretto».
«Guardi queste ricette», riprese il maresciallo.
«Sì, sono le medicine che periodicamente veniva a prendere. Soffriva di pressione alta e angina. Ma se è un maresciallo che mi chiede queste cose, penso che non sia morto di morte naturale. Non è così?».
Pugliese aggrottò le sopracciglia e scosse appena la testa.
«Arguta».
«Sono una accanita lettrice di gialli. Jeffery Deaver è uno dei miei preferiti, anche i suoi personaggi, Lincoln Rhyme, Diletta Sachs e Lon Sellitto. Inoltre Poe, Doyle, Ellery…».
Pugliese alzò le braccia. «Va bene, va bene, smetto. Dunque, come posso esserle utile». «Veniva sempre il dottor Calabrò, a prendere i medicinali?».
«Sì… Beh, non posso dirlo con certezza, io non sono sempre presente in farmacia. Mi capisce?». «Ricorda quando è stata l’ultima volta che lo ha visto?». «Non ne sono molto sicura. Ma penso che sarà stato poco più di un mese fa. Sì, un mese. Giorno più giorno meno». «Un ultima cosa. Ricorda se quell’ultimo giorno lo aveva visto diverso. Meno loquace». La farmacista scosse la testa. «Non ricordo bene, mi deve scusare.»
***
Pugliese era ritornata da poco nel suo ufficio quando il vicebrigadiere bussò all’uscio. «Mi porti novità?», domandò. «Ho fatto un giro nei negozi dove ci andava il dottor Calabrò. A parte bar e tabaccherie, dove consumava caffè e sigarette, era un accanito fumatore, quello che più ha riscosso un certo interesse è stato il negozio da barbiere».
«Che ti avevo detto».
«Dunque», disse il vice cavandosi dalla tasca della giacca, due taglie più piccola del dovuto, un taccuino che cominciò a leggere, «il titolare, certo Pappi Corsicato, ha confermato che il dottore si recava spesso da lui. Non tanto per farsi tagliare i capelli, ma per sfogliare le riviste, quelle riviste», e fece una faccia eloquente, «lei mi ha capito. Ecco, riviste che il Pappi ne era un gran collezionista».
«I barbieri hanno una grande predilezione per queste riviste».
«Già. Mi ricordo anche di quei calendarietti profumati che donavano all’approssimarsi delle festività natalizie, ovviamente per ottenere qualche lauta mancia». «E come fai a ricordarteli?». «Nonno Alfonso aveva un negozio di barbiere». «Ah! E non sapevi delle chiacchiere che si fanno in quelle botteghe». «Non ci avevo pensato… Ad ogni modo, oltre a sfogliare riviste, il Pappi mi ha confidato che il dottor Calabrò aveva certe frequentazioni». «Frequentazioni? Che intendi dire». «Che gli aveva raccontato delle sue scappatelle». «Vuoi dire che il dottor Calabrò aveva una relazione?». «Una? Più di una. Da quello che raccontava al Pappi». «Hai capito?» disse più a se stessa che a Catelli. «Ora bisognerà capire chi erano queste donne». Delma alzò la cornetta: «Deodato, lascia perdere i processi, concentrati sui tabulati telefonici. A che punto sei? Bene. Appena finisci, vieni subito», e riattaccò.
***
Il giorno seguente Delma Pugliese era attesa dal dottor Canepa. «Venga. Si accomodi», disse il sostituto quando si palesò nel riquadro della porta. Il maresciallo percorse i pochi passi che la separavano dalle due poltroncine e vi ci sedette. Si levò il cappello e lo posò sull’altra poltroncina. Aveva, come prescriveva l’ordinamento, i capelli raccolti in una treccia e un trucco leggero, che le evidenziavano gli occhi grandi, neri e profondi.
«Allora, maresciallo, a che punto siamo con le indagini?», chiese Canepa, posando gli avambracci sulla grande scrivania che li divideva. Delma notò che il suo volto aveva un’espressione meno dura della volta precedente, tutta incentrata a dimostrare che lui era il magistrato. Che mi voglia blandire? pensò.
«Siamo alle pregiudiziali dottore. Quello che abbiamo appurato, però, fa intravedere un percorso diverso da quello iniziale».
«Cioè?», chiese lui accomodandosi contro la spalliera della poltrona.
«Mi spiego. Se dapprincipio avevo pensato ad una vendetta di qualcuno rinviato a giudizio, ora sono propensa a credere che siamo di fronte a una vendetta passionale».
«Ah», disse Canepa sorridendo. E sì, le vicende passionali lo elettrizzavano più di ogni altra indagine. «E da cosa l’avrebbe supposto?», chiese protendendosi sulla scrivania.
«Dalla confidenza di un barbiere».
«Un barbiere?».
«Già. Lei non sa quanto si parla dai parrucchieri. Dico in senso lato», si affrettò a precisare Delma, non volendo insinuare che anche gli uomini sono chiacchieroni.
«E cosa ha saputo da questo…», il sostituto gesticolò con il braccio, fingendo di insaponarsi il viso, «barbiere».
«Che il dottor Calabrò aveva più di una spasimante».
«Ne è sicura?».
«Avevo comandato il vicebrigadiere Catelli di svolgere, discretamente, delle indagini. Quando mi ha relazionato, anch’io sono rimasta un poco in dubbio. Per questa ragione mi sono recata personalmente dal suddetto Pappi Corsicato, il barbiere per l’appunto. Ed egli ha confermato ciò che già mi aveva riferito Catelli».
«E quindi?».
«Quindi, ora ci si deve muovere nell’ambito di queste frequentazioni. Il barbiere non è stato in grado di dirmi i nomi di queste signore. Anche il telefonino che la signora Calabrò mi ha consegnato, e con quel gesto ho compreso che forse è all’oscuro della eventuale doppia vita del marito, non conteneva traccia alcuna. Solo telefonate inerenti l’ambito lavorativo».
«Potrebbe averne un altro. Ci ha pensato?».
«Certamente. Ora che ci penso non sappiamo nulla di tutti gli effetti personali che abbiamo consegnato alla signora. Consegnati quando non sapevamo della doppia vita del dottor Calabrò», ci tenne a precisare. «Certamente quelle cose giacciono ancora dentro gli scatoloni che la procura le ha consegnato».
«Ha ragione. Se nascondeva delle cose è qui che le teneva. Nel suo ufficio. Come farà, dunque, a rovistare in quegli scatoloni, se ancora non sono stati svuotati?».
«Con la scusa di parlare alla governante. E poi non credo che li abbia già liberati. È ancora troppo fresco il lutto».
«Va bene. Poi mi farà sapere. Intanto ho dato l’autorizzazione per l’esumazione della salma. Mi faranno sapere il giorno e l’ora. Data che le comunicherò. Vedremo cosa scoprirà il dottor Bonafè. Se non c’è altro la congedo», disse il sostituto. Pugliese prese il cappello, si alzò, ma rimase a mezzo dell’azione. Il cellulare le squillo nella tasca. Si scusò, guardò il display ma non accettò la chiamata.
***
«Mi sembra di ricordare che tra noi due ci sono stati dei dissapori», disse Delma fermandosi accanto alla Gazzella e parlando al cellulare.
«Sono a Lecco per un rally».
«A sì? E io che c’entro?».
«Niente, mi sono detto: visto che sono nella stessa città, magari ci potevamo rivedere per passare una bella serata insieme». Era Marco Fabbricatore, un suo ex, conosciuto mentre era vicecomandante del Comando Stazione di Borgo Lingotto, a Torino. Lo conobbe durante il ventottesimo rally città di Torino. Lei era comandata con alcuni carabinieri per l’ordine pubblico. Si trovava proprio nelle vicinanze del podio mentre Marco, classificatosi terzo, riceveva coppa e medaglia. Come al solito, il primo arrivato stappava una bottiglia gigante di champagne e lui ebbe la dabbenaggine di rivolgerla verso il pubblico annaffiando di bollicine anche la divisa del maresciallo. Per scusarsi della scempiaggine la invitò a cena, dicendole che avrebbe provveduto a farle lavare a sue spese la divisa.
«Certo che tu non cambi mai. La mia divisa non ti ha mai suscitato un minimo di riguardo e di considerazione».
«Io ho sempre guardato oltre. Oltre la tua divisa. E ho visto una donna bella e decisa. Una donna che desiderava essere stimata, non per la divisa che indossava, ma per ciò che diceva e pensava». Delma sorrise. Non si ricordava fosse stato sempre così ruffiano.
«Te le sei scritte queste cose?», gli chiese afferrando la maniglia della portiera.
«Perché?».
«Sanno tanto di copione. Comunque, Marco, non ho proprio tempo di uscire. Ma anche se l’avessi, non desidero più incontrarti. Ti voglio ricordare che sei sul filo del rasoio riguardo i tuoi precedenti penali, che ti sono stati momentaneamente sospesi».
«Accidenti Delma, mi minacci? E poi sono sbagli di gioventù».
«Sì sì. Ma voglio solo che non lo dimentichi. Ora ti saluto», e riattaccò.
***
«Mi ha fatto chiamare?», disse Didimo Deodato entrando nell’ufficio del maresciallo e cercandola con lo sguardo per la stanza.
«Sì. Volevo sapere se ci sono delle novità», rispose Pugliese mentre appendeva cinturone e cappello a un attaccapanni dietro la porta.
«Per i tabulati telefonici non ci sono altre novità di quelle che già le avevo detto. Risultano tutte legate nell’ambito del suo lavoro. Invece per la signora Diletta Pasotti posso dirle molte cose». Pugliese gli fece segno che si poteva accomodare. «Allora la signorina Diletta Pasotti di anni trentacinque è la figlia di Amelia Pasotti, nata nel 1957 a Mozzo, un paese poco distante da Bergamo. Nel ‘78 nasce appunto sua figlia Diletta avuta da una relazione con un certo Filippo Sodano, un agente di commercio che poco dopo le abbandona al loro destino. Nel ‘94 trova lavoro presso il bar del tribunale di Bergamo come cameriera. Ed è qui che conosce il dottor Calabrò. Tra i due nasce una storia che dura qualche anno tra alti e bassi. Come abbiamo capito al dottore piacevano le donne e…».
«Attieniti ai fatti ed evita commenti», disse il maresciallo.
«Mi scusi», disse Deodato con una punta di afflizione. «Quando il dottor Calabrò nel ‘95 viene promosso a sostituto aggiunto e si trasferisce a Lecco, si perdono le sue tracce. Ma compare sulla scena Diletta, che nel ‘96 lascia la madre, giudicata troppo propensa a relazioni veloci, e si reca con un’amica più grande, certa Annina o Annetta Grigioni, a Lecco. Qui dopo poco trova lavoro come commessa presso la Rinascente. Nel 2000 perde il lavoro e si adatta a fare così lavori domestici. È dopo aver frequentato qualche famiglia che viene assunta in casa Calabrò».
«Il dottor Calabrò, dunque, non associò quel cognome, Pasotti, quando assunse Diletta, a quello di Amelia, o finse volutamente, felice di trovarsi per casa una giovane governante?». Deodato si astenne dal fare commenti. «No no, ora ti puoi esprimere, ora il tuo parere è pertinente», disse Pugliese lasciando che un sorriso le illuminasse il volto.
«Allora se mi posso permettere», seguitò, «propendo per la seconda ipotesi. Sapeva, ma gli faceva piacere trovarsi per casa una giovane donna, forse sperando fosse come la madre, in quanto a relazioni…».
«Va bene Deodato, ora però non ci allarghiamo con delle congetture che al momento non sappiamo se corrispondono al vero. Piuttosto, queste notizie come le hai avute».
«Al bar. Dal barista del bar poco distante dal tribunale di Bergamo e che il dottor Calabrò frequentava, dove conobbe la Pasotti».
«Sì sì. Ora sappiamo che anche nei bar si spettegola», disse sorridendo, e così fece anche Didimo. «Ora noi andiamo dalla signora Calabrò e vediamo cosa c’è in quegli scatoloni che le hanno portato a casa», aggiunse. Poi sollevò il telefono e chiamò Catelli e gli ordinò di trovare e convocare la signora Amelia Pasotti al più presto.
***
Ad aprire a casa Calabrò fu Diletta. Aveva i capelli lunghi e neri che le arrivano quasi sulle spalle, indossava un abitino dalle maniche corte, chiuso in vita, di colore marrone rigato; quello che lo faceva sembrare un abito da lavoro era il grembiulino bianco avvolto in vita. Pugliese le spiegò che aveva un appuntamento con la signora.
«Accomodatevi, prego», disse lasciandoli entrare. «La signora si scusa ma è dovuta uscire per una commissione urgente. Mi ha detto quello che devo farvi vedere. Vi prego di seguirmi», così dicendo si diresse verso un lungo corridoio sul quale si affacciavano diverse porte, un lungo tappeto rosso attenuava i loro passi. Alle pareti molti quadri con riproduzioni di marine e paesaggi lacustri. Giunta davanti ad una porta, la donna si fermò con la mano sulla maniglia per quel tanto che fece pensare al maresciallo si trattasse dello studio dove il dottore era stato trovato morto.
«Ecco, prego», disse una volta apertala. Lo studio era ampio, rettangolare, con una grande finestra oscurata da tende pesanti, la scrivania che vi stava davanti era ampia e massiccia, come le due grandi librerie che occupavano le due pareti, i volumi tutti perfettamente sistemati con le coste in evidenza. Un divano di cuoio nero era sistemato di traverso in un angolo, dietro vi era posta una piantana accesa.
«È qui che lo hanno trovato?», chiese Pugliese. Diletta per un attimo indugiò. Poi girò lo sguardo verso la scrivania e la indicò con il braccio teso.
«È lì, che la signora lo ha…», non terminò la frase. Cavò un fazzoletto dalla tasca del grembiule e ci si soffiò il naso.
«Era molto legata al dottor Calabrò?». La donna annuì e tirò su col naso. Pugliese, avendo scorto due scatoloni accanto al divano, chiese se erano quelli che stavano cercando. «Bene Diletta, se ora permette noi vorremmo dare un occhiata».
«Va bene. Volete che vi porti qualcosa?», chiese. Ricevendo un rifiuto uscì e li lasciò soli.
«Allora, forza Deodato, diamo un’occhiata e vediamo quali sono gli effetti personali del dottor Calabrò. Ma quello che più ci interessa è trovare il secondo cellulare, se esiste», disse e cominciarono ad aprire le due scatole di cartone. Tutto ciò che trovarono lo sistemarono sulla scrivania. Vi erano libri di giurisprudenza, alcune buste gialle contenenti fotografie pornografiche molto esplicite, riviste per soli uomini, alcune scatole di preservativi. Poi due portapenne d’argento. Un’agenda sulla quale Pugliese si soffermò con molta attenzione.
«Hai visto», disse mostrandola aperta a Deodato, «ci sono segnati degli appuntamenti e dei nomi sicuramente in codice. Guarda qua», e la sfogliò dal mese di gennaio, «c’è una certa Rossa per due martedì sempre alle ore 15. Febbraio solo un venerdì con una Rossa alle ore 19. Marzo c’è un Cespuglio con la quale si vede per ben tre volte sempre di giovedì alle 14,30. Aprile niente. Maggio ricompare Rossa, ma al lunedì. Una sola volta in quel mese. Giugno niente. Luglio niente. E siamo a Settembre. Ed ecco nuovamente Cespuglio questa volta solo due volte. Poi più niente perché il povero Calabrò se ne è andato».
«E guardi qua maresciallo cosa ho trovato», disse Deodato mostrandole una busta arancione, all’interno vi era un libretto degli assegni del Banco di Lecco e un cellulare.
«Bingo!», disse Pugliese prendendo il cellulare. «È scarico. Vedi se trovi l’alimentatore. Vediamo invece le ricevute degli assegni», e li sfogliò. «Guarda guarda, hanno tutti uno stesso importo e la data di ogni inizio mese».
«Chi è il beneficiario?».
«C’è scritto solo gioia».
«Una donna che si chiama Gioia allora».
Pugliese corrugò le sopracciglia.
«Umh, non ne sono certa. La g è scritta in minuscolo. Non è un nome proprio».
«Eccolo», disse Deodato mostrando l’alimentatore.
«Forza, ricaricalo subito. Guarda lì che c’è una presa. Le date risalgono dall’aprile dello scorso anno».
«E qual era l’importo?», chiese Deodato mentre cercava di accendere il cellulare.
«Cinquecento euro».
«Tutti i mesi?».
Pugliese annuì.
«Qua c’è una password maresciallo», disse Deodato mostrandole il cellulare con il display acceso.
«Qui ci vuole Cigolani. Lui è bravo con queste cose. Guardiamo nei cassetti. Poi portiamo via solo quello che ci interessa».
Un profumo intenso invase la stanza, anticipando la signora Calabrò che domandò come procedeva.
«Bene», disse Pugliese bloccata nel mezzo di un gesto, con un cassetto della scrivania tra le mani.
«Avete trovato ciò che cercavate?».
«Cercavamo dei riscontri per capire chi poteva avercela con il dottor Calabrò».
«E avete capito chi lo poteva odiare al punto di ucciderlo?». Il maresciallo guardò Deodato, che fece una faccia imbarazzata.
«Ecco, vede signora siamo ancora nel pieno delle indagini, pertanto non posso aggiungere altro», e infilò il cassetto nella scrivania.
***
Avevano riempito un paio di buste ed erano rientrati in caserma. Cigolani appena ricevuto il cellulare si era messo a cercare di identificare la password. Delma Pugliese con Didimo Deodato si era chiusa nel suo ufficio e aveva fatto il punto dell’indagine.
«Ti confesso che sono ancora incredula per ciò che abbiamo scoperto sulla doppia vita del dottor Calabrò. Le persone nascondono segreti che nessuno si immagina. Tu hai segreti, Didimo?». Il brigadiere guardò Delma non sapendo se doveva o non doveva risponderle. Vedendolo così impacciato, lei gli sorrise e scosse la testa.
«Ah», sospirò Deodato avendo capito che la sua domanda era solo un motteggio. «Anch’io maresciallo sono rimasto smarrito. Ma voi credete che la signora Calabrò non sapesse nulla di questa doppia vita?».
«Non so cosa dirti Deodato. Evidentemente era un abile commediante. Ma a noi questo punto di vista, per ora, non ci interessa ai fini dell’indagine. Vorrei sapere che significano e a chi si riferiscono questi soprannomi: Rossa, Cespuglio, Capinera.» Il brigadiere sorrise. «Che c’è Deodato hai forse capito qualcosa?».
«Se mi permette, secondo me, quei soprannomi corrispondo al…», disse ma non proseguì.
«Corrispondono?».
«Sono un poco imbarazzato».
«Dai Deodato che non abbiamo tempo da perdere», disse spazientita battendo un paio di volte la mano sulla scrivania.
«Insomma, per me corrispondono al vello delle donne».
«Ti riferisci alla peluria?». Lui annuì. «Quindi Rossa, Cespuglio e Capinera corrisponderebbero… Può essere. Ma siamo daccapo se non sappiamo a chi si riferiscono».
«Già. Non ci resta che il cellulare», non fece in tempo a finire la frase che bussarono. Si palesò Cigolani:
«Non ci sono ancora riuscito maresciallo. Mi deve concedere ancora un po’ di tempo».
«È la password che non ti riesce di trovare, vero?». Lui annuì. «Mi è venuto in mente un particolare mentre ero a casa del dottor Calabrò. Ho visto sulla sua scrivania un libro di Franz Kafka, La Metamorfosi, ma scritto in tedesco e all’interno il titolo era stato sottolineato con un evidenziatore. Allora mi sono domandata il perché. Forse è la password che cerchiamo». Si alzò e andò a un mobile che aveva alle sue spalle. Aprì un’antina e prese un dizionario di tedesco. «Ora vediamo come si traduce la parola metamorfosi», e la cercò. «Ecco, prova a scrivere metamorphose», e gliela compitò. Cigolani scosse la testa. «Vediamo», e alzò la testa al soffitto come a ricercare quella parola che non ricordava. «Qual è un altro sinonimo di metamorfosi», chiese più a se stessa che agli altri due. «Aspettate», e guardò sul computer cercando tra i sinonimi. «Ecco, trovata, mutamento», e cercò ancora sul dizionario. «Prova quest’altra, verwandlung», nuovamente la compitò. Il cellulare emise un suono breve.
«Trovata, maresciallo», esclamò Cigolani sfregandosi le mani. «Ecco», disse facendo scorrere la rubrica, «qua c’è un nome…», e rimase un attimo concentrato sul display per assicurarsi di aver letto bene, «Rossa».
«Sì. Dimmi il numero».
«Eccolo: 3427865652», dettò mentre Pugliese trascriveva.
«Prosegui».
«Ecco un altro nome, Cespuglio, ed ecco il numero: 3499032869. Poi c’è una gioia con questo numero: 3305647138. E infine Capinera 3306567689».
«Non ce ne sono altri?».Cigolani scosse la testa. «Bene. Ora siamo in grado di scoprire a chi appartengono questi appellativi. Tu Cigolani puoi andare. Bravo. Invece tu Deodato li chiamerai».
Dopo qualche minuto, mentre il maresciallo sfogliava l’agenda del dottor Calabrò, il pensiero corse alla moglie che si era mostrata preoccupata, addirittura disperata, per la perdita del marito. È stato davvero così bravo a nascondere questa doppia vita?
Suonò il telefono.
«Sì, dimmi Cigolani. Ah, passamelo. Dottor Bonafè buongiorno. Allora ha delle novità?».
«L’esame autoptico ha dato l’esito che immaginavo. Nel sangue non ho trovato tracce di trinitrina. Pertanto assumeva solo del placebo. E in quelle circostanze è fondamentale l’assunzione di quel farmaco. Inoltre c’erano evidenti residui di fosfodiesterasi».
«Si spieghi meglio dottore», lo sollecitò Pugliese.
«Sono farmaci per il trattamento della disfunzione erettile. Il fosfodiesterasi incrementa il flusso sanguigno, facilitando l’immediatezza di risposta allo stimolo sessuale. Insomma, permettono una pronta erezione».
«Ho capito», disse ritrovando in quelle parole tutta l’ambiguità del dottor Calabrò. «Poi che altro ha scoperto».
Il dottor Bonafè si schiarì la gola prima di continuare:
«Quella sera non ha mangiato. Ho trovato del cibo indigesto nello stomaco. Ora, lo svuotamento gastrico avviene dopo 4-6 ore, se il pasto è a base di carne e vegetali, 6-7 ore nel caso di farinacei. In generale, il tempo di svuotamento può protrarsi fino alle 7-8 ore dopo l’ingestione. Nel nostro caso lo stomaco conteneva abbondante materiale, di colore marrone, nel quale erano riconoscibili ancora residui di alimenti indigesti. Pertanto, sulla base dei dati circostanziali il dottor Calabrò ha pranzato per l’ultima volta intorno alle ore 13-13 e 30. Tale indicazione non può tuttavia che essere.
considerata generica».
«Ho capito dottore. Allora attendo la sua relazione», lo salutò e riagganciò la cornetta emettendo un lungo sospiro.
«Novità?», chiese il brigadiere.
«Non ha cenato. Quella sera non ha cenato».
«Quindi?».
«Ha mentito».
«Chi?».
«La signora Calabrò ha mentito. Suo marito quella sera non ha cenato».
«Mentre lei…», non le pareva ancora vero della doppia vita del dottor Calabrò. Le venne in mente quando aveva risolto il caso del delitto sul battello, loro due seduti di fronte al pontile mentre il battellotto scioglieva le cime e le gettava oltre la murata. I due marinai le legavano alle bitte. Tre colpi di sirena annunciavano la partenza. La Plinio IV si allontanava lenta, diffondendo una scia rosseggiante, complice il sole che, lentamente, tramontava alle spalle dei monti di Groma e Bregnano.
***
Delma Pugliese era uscita per mangiare qualcosa, ma anche per mettere a fuoco il caso. Si era seduta a un tavolino un poco appartato del Bar Frigerio in Piazza Venti Settembre.
«Oh, maresciallo buongiorno. È un po’ che non la si vede. Che le porto?», chiese Danilo Frigerio.
«Non ho molta fame. Mi porti qualcosa che me la stuzzichi».
«Ci penso io», le assicurò Frigerio e scivolò tra i tavoli, che a quell’ora erano quasi tutti occupati. Si stava nuovamente concentrando su degli appunti, quando una voce a lei nota la salutò.
«Buongiorno Delma». Lei alzò la testa e si trovò davanti Adelfo Negri. Accidenti, pensò, oggi non è proprio giornata per incontrarlo. Adelfo Negri, trentacinquenne, bancario, da qualche tempo le faceva una corte discreta, iniziata allo sportello della banca dove lui lavorava e Delma aveva il conto corrente. Aveva accettato, l’estate scorsa, di uscire con lui una sera per cenare al ristorante Orsa Maggiore. Poi, la serata si era conclusa frettolosamente per un improvviso temporale che li aveva sorpresi seduti a uno dei tavoli all’aperto.
«Sembrerà destino, ma noi ci incontriamo sempre nei ristoranti», disse Adelfo facendole segno se si poteva accomodare.
«Ho appena ordinato», disse Delma. Lui alzò un braccio a richiamare una cameriera.
«Mi faccia portare lo stesso piatto che ha ordinato il maresciallo», disse.
«Non ti ho più vista in banca».
«Non avevo bisogno di nulla».
«Sei impegnata in qualche nuovo caso? Te lo chiedo perché ti vedo molto seria. Se ti do fastidio me ne vado», disse facendo la mossa di alzarsi.
«Ma no. Non esagerare», lo trattenne per un braccio, «è che ho veramente un caso spinoso. Un caso che si sta rivelando piuttosto complicato e che richiede molta attenzione per non commettere errori».
«Dunque, ti sei portata il lavoro a casa», disse lui sorridendo.
«Ecco», la ragazza depositò i due piatti davanti a loro, che mangiarono per un po’ in silenzio ascoltando il vociare proveniente dagli altri tavoli.
«Allora, Delma ti ricordi cosa ti dissi quando ci vedemmo l’ultima volta?».
«Veramente l’ultima volta, mi ricordo che prendemmo un grande acquazzone».
«Ah, be’, se ricordi solo quello», disse alzando le spalle e infilzando una fetta di formaggio.
«Ma no. Ricordo quello che mi dicesti. Ma quello che ti risposi io, lo ricordi?».
«Ma non puoi dirmi sempre che il tuo lavoro ti impegna ventiquattro ore al giorno. Diamine», sbottò, tanto che Delma lo dovette richiamare a moderare il tono della voce.
«Scusami. Mi sembrava d’aver capito che ti facesse piacere uscire con me. Non è così?».
«Ma sì. Ma tu sai cosa ti dissi riguardo la mia vita privata. E poi io, forse esagero, ma indossare una divisa. Questa», e la indicò con una mano, «vuole significare onorabilità, rispettabilità, dignità. Ogni divisa da ammiraglio o da carabiniere che sia, non è solo per il materiale di cui è fatta, feltri, alamari, fregi, ma soprattutto porta con sé le impronte indelebili del suo passato, diventa emblema della Storia. E poi oltre a tutto quello che devo fare, devo anche studiare».
«Studiare?».
«Sì. La Stazione di Lecco ha bisogno di un ufficiale. È per questo che mi sto preparando per gli esami da capitano, che si svolgeranno a Roma a gennaio. Altrimenti che mi sarei laureata a fare in giurisprudenza, se non posso metterli a frutto gli studi».
«Ah… Allora ti faccio tanti auguri».
Si salutarono poco dopo, lui con la mano tesa sulla fronte, lei che scuoteva la testa, procedendo in direzioni opposte.
***
Delma Pugliese era da poco rientrata, stava percorrendo il corridoio che la separava dal suo ufficio, quando Deodato ne uscì all’improvviso con un foglio in una mano, facendola trasalire:
«Deodato! Accidenti, che modi», disse e guardò il foglio che teneva nella mano. «Cos’è?».
«Sono i nomi e i telefoni di tutti i soprannomi di cui avevo preso nota».
«Bene. Vieni», e si avviò verso il suo ufficio. «Vediamo», disse una volta che si fu seduta, guardando il foglio che il brigadiere le aveva porto.
«Ah, guarda guarda, Rossa è la farmacista di Erba, certa Elena Terzaghi», e guardò sorridendo Didimo. «Avevi proprio ragione, questi nomignoli corrispondono proprio al pelo del pube». Il brigadiere fece ciondolare la testa e sorrise. «E poi c’è Cespuglio, che corrisponde a Leda Lacorte, residente a Morello, una frazione di Mandello del Lario. E poi…», si fermò tenendo l’indice sul foglio a segnare il punto. «Come avevo pensato, gioia non si riferiva a un nome, ma voleva descrivere uno stato di letizia. Hai capito, la gioia ce l’aveva in casa. Ecco perché quando siamo andati a vedere cosa c’era negli scatoloni, lei, prima di farci entrare nello studio, ha esitato. E poi c’è questa Ippolita Busi, in arte Capinera, che abita a Canzo. Molto bene», disse posando il foglio sulla scrivania e lasciandosi andare contro la spalliera. «Ora tu le chiami e le convochiamo. Naturalmente non tutte insieme, una alla volta, con discrezione. Vai».
Delma Pugliese si stiracchiò come una gatta prima di prendere una nuova telefonata. «Dimmi Catelli», disse. «Chi? E allora falla passare». Il vicebrigadiere bussò, aprì la porta e fece accomodare la donna. Amelia Pasotti entrò con discrezione. Indossava un cappottino grigio che le copriva appena le ginocchia, scarpe e pantaloni neri e una borsa a tracolla. Aveva l’aria un po’ smarrita e lo sguardo basso.
«Si accomodi», disse il maresciallo indicandole una sedia di fronte alla scrivania.
«Allora lei è Amelia Pasotti». La donna annuì e si strinse la borsa contro il ventre. «Lei conosce il dottor Fidenziano Calabrò?». Amelia deglutì.
«Ho saputo che è morto», disse.
«Sì. Ma lo conosceva?».
La donna indugiò un attimo prima di rispondere. «Lo conosceva sì o no?», la sollecitò Pugliese. Lei annuì. «Bene. Come ha saputo che è morto?».
«L’ho letto sul giornale».
«Lei legge abitualmente i quotidiani?».
Amelia scosse la testa. «No, non li legge. E allora in che modo lo ha saputo».
«Il giornale era nel bar dove lavoro. È lì che l’ho letto».
«E cosa ha provato?».
«Mi è dispiaciuto».
«Lei ha avuto una relazione con il dottor Calabrò?».
Amelia aprì la borsetta e ne trasse un fazzoletto che si passò sul naso. «Devo intendere il suo silenzio come un sì?».
Amelia assentì. «Dunque ha avuto una relazione. E quanto durò?».
«Perché mi sta facendo tutte queste domande. Non capisco. Che c’entra la mia vita privata con la morte di Fidenziano… Del dottor Calabrò?».
«Vede, il dottor Calabrò non è morto per un infarto, come si era creduto».
«No?».
«No. È stato ucciso».
«Ucciso? O mio Dio!», fece e si portò nuovamente il fazzoletto al naso, «Ma io che c’entro?».
«Lei, con il dottor Calabrò, ha avuto una relazione. Si ricorda quanto è durata?».
Amelia alzò la testa e guardò il maresciallo che teneva i gomiti sulla scrivania e le mani intrecciate sotto il mento.
«Qualche anno».
«Lei sapeva che era sposato?».
Lei assentì.
«Come era il vostro rapporto».
Amelia rilasciò un mugugno.
«Mi tradiva. Litigavamo spesso per questa storia. Lui ci provava con tutte. Bastava si trattasse di donne e lui ci provava. Sempre. Anche quando eravamo insieme».
«Come finì la vostra relazione».
«Lui venne trasferito a Lecco. Così la storia finì».
«E da allora non lo ha più visto ne cercato?».
«No».
«Mi parli di sua figlia Diletta».
«Diletta è nata nel ’78 quando avevo una storia con un certo Filippo».
«Filippo Sodano, un agente di commercio?».
«Sì. Quando seppe che aspettavo un bambino, quel mascalzone non si fece più vedere».
«E prima di conoscere il dottor Calabrò non ha avuto altre relazioni?». Amelia si sfregò con il fazzoletto le mani sudate, alzò le spalle e disse:
«Alcune».
«Mi parli ancora di sua figlia».
«Che vuole sapere ancora», chiese con un espressione meravigliata.
«Voglio sapere che rapporto ha con lei. Vi vedete?».
Lei scosse la testa.
«Se ne è andata una volta compiuti diciotto anni. Poi ci siamo sentite raramente».
«E non ne seppe più nulla?».
Amelia scosse nuovamente la testa.
«Vuole dirmi che lei non sa che sua figlia lavora come governante, da molti anni, in casa Calabrò?».
«No. Quello l’ho saputo. Sa, le solite lingue lunghe che non si fanno mai gli affari loro».
«E non ha pensato di andarla a trovare, magari con la scusa della figlia avrebbe potuto incontrare di nuovo il dottore».
«Era tutto finito da tanti anni. Gliel’ho detto».
«Conoscendo il dottor Calabrò, non ha mai pensato che avrebbe potuto insidiare anche sua figlia?».
Amelia scattò sulla sedia con tanto impeto che la borsetta finì a terra. Pugliese le fece segno di calmarsi.
«Quel maiale! Ci avrà magari anche provato. Ma io che mai potevo fare? Diletta è grande, e poi è lei che se ne è voluta andare», disse e raccolse la borsetta.
«Visto che lo ha chiamato maiale, posso chiederle, dunque, se la sua morte le ha fatto piacere.»
«La morte non la si augura mai a nessuno. Io sono molto devota», disse e si segnò con la mano, «ma dire che mi è dispiaciuto. No, non posso dirlo. Ecco».
«Quando vi frequentavate, come si comportava. Voglio dire, dove vi vedevate».
«A casa mia».
«E con sua figlia, come faceva?».
«Beh, la mandavo da una vicina».
«Ma da quanto ne so», disse e cercò un foglio nel cumulo di carte sparse sulla scrivania, «la vostra relazione è cominciata nel ’93, quando sua figlia aveva tredici anni. Non era più una bambina, che la si poteva mandare con una scusa banale dalla vicina».
Amalia si schiarì la voce.
«Beh, a volte rimaneva con noi», disse strofinandosi le mani.
«Vuole dire che assisteva alle vostre effusioni?».
Amalia avvampò. «Lo sa sì, che ci sono gli estremi per mandarla a giudizio. Vero?».
«Erano solo carezze».
«Mi faccia capire: carezze che faceva a lei o a sua figlia?».
La donna scoppiò a piangere e tra singhiozzi attenuati dal fazzoletto che si era portata sulla bocca disse:
«Che potevo fare, io da sola con una figlia da mandare a scuola, e tutto quello che serve in una casa. Che potevo fare, eh?», e pianse disperata. Pugliese le porse la scatola dei fazzoletti di carta.
«Quindi il dottor Calabrò toccava sua figlia?». Tirò su col naso un paio di volte prima di rispondere.
«Le faceva delle carezze come le farebbe un padre».
«Già. Solo che lui non era il padre. E lei, come madre, avrebbe dovuto evitarle. Quindi, da quello che ho capito, il dottor Calabrò l’aiutava».
«Un poco. Non che fosse quel gran generoso».
«Le ha mai parlato di sua moglie, o ha avuto modo di conoscerla?».
«No, mai. Non l’ho mai conosciuta».
«Secondo lei, sua moglie, sapeva dell’infedeltà del dottore?».
Amelia fece un espressione dubbiosa.
«Se fossi stata io sua moglie, certamente mi sarei domandata perché aveva sempre un gran numero di pratiche da sbrigare, la sera, nel suo ufficio».
«Era questa la scusa che le diceva?».
«Sì. E fu l’unica volta che gli chiesi che scusa trovava per uscire. Poi non ne parlammo più».
«Un ultima domanda. C’era qualcuno, secondo lei, che poteva augurarsi la morte del dottor Calabrò?».
«Credo tutti i mariti delle sue amanti», rispose sorridendo per la prima volta.
Il maresciallo la congedò intimandole di rimanere a disposizione.
***
Il giorno dopo iniziò la processione di tutte quelle convocate da Deodato. Separatamente, con riservatezza, erano riusciti a farle passare senza che si incontrassero. L’imbarazzo fu generale. Pregarono il maresciallo affinché la loro storia restasse confinata in quella stanza. Il dottor Calabrò era davvero bravo a tenere ben nascoste le sue amanti, Delma dovette convenirne, anche se pensò che avrebbero potuto fingere di non sapere delle altre. Cespuglio era una parrucchiera. Capinera faceva la commessa in un negozio da uomo. Diletta pianse molte volte, rispetto alle altre che, invece, non versarono una lacrima nel raccontare la loro storia, ma tremarono all’idea che potesse giungere alle orecchie dei loro mariti o fidanzati. Una aveva pure dei figli.
«Mi ha come stregata», disse Diletta, «non smetteva mai di importunarmi. Era un vero assedio».
«Poteva dirlo alla signora Calabrò».
«Mi ha minacciato un paio di volte se glielo avessi detto».
«Ma la signora non hai mai sospettato nulla?».
«La signora è molto presa dalle sue cose. Fa tanta beneficenza. Si occupa di persone povere. Era sempre fuori quando lui si attardava in casa alla mattina».
«Ma lei lo aveva conosciuto quando frequentava la casa di sua madre. Se lo ricorderà, credo».
«Certo che me lo ricordo. Aveva l’abitudine di prendermi in braccio e accarezzarmi le gambe».
«E come diavolo è potuta andare a lavorare nella sua casa. Me lo spieghi», disse Pugliese, battendo sulla scrivania il righello che teneva in una mano.
«Beh, pensavo che da grande e con la moglie in casa, non ci avrebbe provato».
«Ma andiamo, non posso credere che sia stata tanto ingenua. Cosa mi vuole nascondere?».
«Non capisco. Non le nascondo niente».
Il maresciallo schiaffeggiò l’aria con una mano. «Ah» disse,
« Passiamo ad altro… Lei sapeva delle altre?».
«Le altre?», chiese la ragazza con un viso stupito.
«Sì le altre, le altre. Non mi dica che non sapeva che il dottor Calabrò le donne le collezionava come un entomologo colleziona le farfalle. Avanti Diletta». Lei scosse la testa e pianse nel fazzoletto. «Va bene, va bene, basta che non pianga più. Le faccio un ultima domanda. Lei ha mai visto le medicine che prendeva il dottore».
«Che vuole dire?», chiese tirando su col naso.
«Se ha mai avuto modo di vederlo quando le assumeva. O chi gliele preparava».
«Lui, il dottor Calabrò, aveva sempre nella tasca una scatoletta con diversi scomparti. Ecco, lì c’erano le sue pastiglie».
«Le assumeva davanti a lei?».
«Capitò un paio di volte mentre…», si bloccò e si soffiò il naso.
«Mentre?».
«Sì, insomma, mentre facevamo…».
«Sì, ho capito. Vada avanti».
«Ecco in quelle occasioni ne prendeva qualcuna».
«Vuole dire che si sentì male mentre facevate del sesso?».
«Sì».
«E questo quando. Ultimamente?».
«Sì. Non era mai capitato prima. Ma ultimamente aveva il fiato corto. Respirava male a volte».
«Ho capito. E lui non le disse mai di sentirsi poco bene?».
Diletta scosse la testa.
«Chi gli riempiva la scatoletta che teneva nella tasca. La moglie o lo faceva lui».
«La signora. Lo faceva la signora alla sera».
«Un ultima cosa. Abbiamo trovato un libretto degli assegni con un nome scritto sulle ricevute, questo si ripeteva ogni inizio del mese. Ci sono le date», disse e lo mise sulla scrivania. Il nome è gioia, che come abbiamo capito fa riferimento a lei. Quindi il dottor Calabrò le passava regolarmente una cifra tutti i mesi. È così?». Un’altra crisi di pianto.
«Va bene Diletta. Questo può bastare», le disse e la congedò. Attese il tempo necessario affinché Diletta fosse uscita dalla Stazione, poi ordinò al telefono: «Deodato, fai passare la Terzaghi ora».
«Maresciallo non si è presentata».
«Ah. Allora andiamo noi a trovarla. Così mi troverà più incazzata». Prese il cappello uscì dall’ufficio e percorse il corridoio, giunta davanti alla porta del brigadiere gridò:
«Deodato! Andiamo».
***
Delma Pugliese entrò nella farmacia con passo deciso. «Cerco la dottoressa Elena Terzaghi», disse a una signora che stava sistemando dei medicinali dentro gli scaffali a scorrimento. Una signora, che indossava un camice bianco, uscì dal retrobottega e non appena vide il maresciallo arrossì.
«Ah, dunque è lei la dottoressa Terzaghi. Già, la volta scorsa non le ho chiesto le generalità». La dottoressa sempre più rossa in viso, si guardò attorno e fece segno alle due farmaciste di allontanarsi.
«Andiamo nel retrobottega. La prego», disse e si avviò seguita dal maresciallo.
«Dunque, lei non solo conosceva bene il dottor Calabrò, ma aveva pure una storia con lui. È cosi?».
«Io sono sposata. Perciò le chiedo di essere molto discreta», rispose fermandosi i capelli che le erano scivolati via dalle mollette.
«C’è di mezzo un morto. La riservatezza passa in secondo piano. Comunque non si preoccupi. Mi dica, invece, da quanto tempo lei e il dottor Calabrò avevate una relazione».
«Non era una vera e propria relazione. Sì, ci si vedeva. Si usciva a cena. Tutto qui.»
«Vuole dire che non ha avuto rapporti?». Non rispose subito. Era come se cercasse la parola giusta per esprimere quel concetto.
«Non è che non c’è stato… È stato qualcosa che non definirei sesso».
«Che vuole dire. Si spieghi meglio».
«Ecco il dottor Calabrò, come posso dire, non era un uomo a tutti gli effetti».
«Era impotente. Questo vuole dire?».
«Nemmeno», e cominciò a sorridere. «Aveva una patologia chiamata Peyronie. La conosce?».
Pugliese scosse la testa.
«Ma da come me lo chiede, deve essere una patologia grottesca».
«Sì. Praticamente…».
«Praticamente?».
«Praticamente è quando il pene è curvo e non permette una corretta penetrazione. Pensi a un rubinetto, ecco era così. Guardava in giù», seguì una risata tonante. Anche il maresciallo al pensiero di un pene curvo non resistette e sorrise a sua volta.
«Incredibile. E con una simile patologia come mai era così attivo in fatto di avventure?».
«O no. Se pensa così si sbaglia. Il dottor Calabrò della sua patologia se ne vantava. Era quella la sua forza. Diciamocelo. Noi donne siamo curiose. Quando mi disse della suo problema, che per lui non lo era, beh, la curiosità fu forte».
«Ora le posso dire che la sua non è stata l’unica relazione che ha avuto. Durante gli interrogatori le altre donne non hanno accennato a questo problema».
«Forse se ne vergognavano. A me lo confidò prima. Alle altre non lo avrà detto e le avrà così sorprese. Il dottor Calabrò non era certo carente in fatto di buon umore. Ne aveva da vendere. Scherzava anche sulla sua malattia. Il suo cardiologo lo aveva avvertito che certe intemperanze erano pericolose per lui».
«Lei conosce il cardiologo del dottor Calabrò?».
Terzaghi scosse la testa.
«Un ultima cosa. È sempre venuto il dottor Calabrò a prendere le medicine?»
«Beh, non posso essere certa al cento per cento. Io non è che sono sempre qui. E poi quelle medicine sono abbastanza comuni, c’è tanta gente che le assume. Mi capisce? Voglio dire che poteva aver mandato un altro a prenderle».
«Capisco. Ascolti…».
«Non ha detto che era l’ultima domanda», disse la dottoressa guardando l’orologio.
«Sì, ha ragione. Ma questa è importante. Sarebbe semplice preparare delle pillole placebo?».
«Beh, non mi è mai capitato. Non penso sia così semplice. Perché me lo chiede?».
«Perché al posto della trinitrina gli somministravano del placebo».
«Ah. Ed è morto per questo motivo?».
«Certo. Dunque è facile?».
«Ora le faccio vedere. Venga», così dicendo uscì dal retrobottega e andò a uno scaffale, lo tirò ed estrasse una scatola rettangolare. «Ecco, questa è la confezione di trinitrina. Come vede sono già blisterate. Si potrebbero però tranquillamente sostituire con del placebo di lattosio, ma poi andrebbero confezionate», e scosse nell’aria il blister. E allora come diavolo hanno fatto?, pensò Delma.
«Mi sta dicendo che solamente un’industria farmaceutica è in grado di produrle».
«È così. Almeno non mi viene in mente nient’altro».
Si salutarono.
Pugliese era giunta alla porta quando la farmacista la richiamò.
«Maresciallo», disse posandole una mano su un braccio, «le raccomando la discrezione», e il suo viso si fece supplichevole.
«Non si preoccupi».
Didimo Deodato la vide arrivare sorridente. Forse il viaggio di ritorno sarà un po’ meno noioso, pensò e accese l’Alfa.
Durante il tragitto lo aveva reso partecipe di quello che aveva detto la farmacista. Non proprio tutto tutto. La patologia l’aveva cassata.
«Maresciallo non ci sono solo le case farmaceutiche che confezionano i medicinali che producono. Ci sono anche quelle terziste. Delle piccole aziende che fanno questo». Pugliese si girò di scatto a guardarlo.
«E tu come lo sai?», Didimo sorrise.
«Io sono un patito dei cruciverba. L’altro giorno mi è capitato una definizione che diceva: si dicono subfornitrici. E io sono andato a vedere di cosa si trattava e ho scoperto di queste aziende subfornitrici o terziste per l’appunto».
«Bravo Deodato», disse con entusiasmo il maresciallo, «questa è un ottima informazione. Quando arriviamo tu mi fai subito una ricerca sulle aziende che a Lecco e provincia confezionano per le ditte farmaceutiche. Se non le trovi estendi la ricerca alle altre province. Como, Bergamo… Va bene?». Didimo annuì orgoglioso e diede una forte accelerata.
***
Giunta in ufficio ricevette una telefonata del dottor Canepa che voleva essere aggiornato riguardo l’indagine. Non gli disse proprio tutto. La patologia di cui soffriva Calabrò gliela risparmiò. Troppo intima, segreta.
«Mi raccomando Pugliese, sia più sollecita che può», disse quando la conversazione era giunta alla fine, «il procuratore mi sta facendo una certa pressione. Mi ha capito, no?».
«Sì. Mi dia ancora qualche giorno».
«Bene Pugliese», e riagganciò.
Non fece a tempo a posare il ricevitore che squillò nuovamente.
«Sì», disse asciutta, «ah, Deodato. Hai fatto? Bravo. Vieni, vieni pure ho finito con Canepa».
Deodato entrò. In una mano teneva un foglio, ritto come un moschetto. Guardò la sedia. Pugliese gli fece un cenno con la punta del mento, allora si sedette e parlò:
«Ci sono due società che confezionano pasticche per aziende farmaceutiche. La farmaceutici Craber a Lurago D’Erba. Il titolare è un certo Gaetano Soldazzi. E poi c’è la Daynacren Laboratorio farmaceutico. Producono specialità medicinali: granulati in polveri e compresse. Producono anche per conto terzi. Il direttore di produzione è un certo Angelo Vitali».
«Ubicato?», chiese il maresciallo appoggiando un gomito sulla scrivania e stando di tre quarti.
«Asso», disse Deodato ripiegando il foglio.
«Perfetto. Allora andiamoci. Così vediamo chi potrebbe aver manomesso i medicinali».
Viaggiarono lungo la sponda Occidentale fino a Onno. Delma guardò verso il lago e intravide, tra le frasche, la spiaggetta e si ricordò di quando Marco fermò la macchina e volle scendere per fare un bagno. Era lì per il Rally Day Valsassina. La sua auto non passava certo inosservata. Così a poco a poco si formò un gruppetto di persone che, curiose, volevano conoscere il pilota. E loro laggiù, in quella spiaggetta deserta, rilassati al sole, dopo una nuotata, si videro circondare da una schiera di giovanotti. Dapprincipio Delma pensò male, tanto che scattò in piedi e mise la mano nella borsetta, pronta a mostrare loro il tesserino di riconoscimento. Ma poi dimostrarono le loro vere intenzioni. Fu un tributo di pacche sulle spalle e strette di mano.
La mano di Deodato le sfiorò appena la spalla.
«Mi scusi maresciallo, ma siamo arrivati», disse. Delma aprì gli occhi e i ricordi svanirono.
«È quella?», chiese indicando un fabbricato bianco con delle strisce blu oblique che ricoprivano tutti i muri perimetrali. Su uno dei due piedritti del cancello spiccava una targa d’ottone con la scritta: Daynacren S.r.l. Laboratorio farmaceutico.
Suonarono al citofono. Si qualificarono. Il cancelletto scattò ed entrarono. Una donna li ricevette all’ingresso.
«Sono Delma Pugliese maresciallo maggiore della stazione carabinieri di Lecco. Vorrei parlare con il signor Angelo Vitali».
«Il dottor Vitali è in riunione in questo momento».
«Bene. Gli dica che ci sono i carabinieri. Vedrà che un momento riuscirà a trovarlo. Vada», e fece seguire un gesto della mano.
Passarono pochi minuti prima che sentissero dei passi pesanti giungere dal fondo del corridoi.
«Deve essere lui», disse Pugliese mentre stava guardando fuori dalla grande vetrata che dava sui boschi circostanti. Un uomo corpulento con una nuvola di capelli bianchi e un paio di baffi folti, gli si fece davanti.
«Sono il dottor Vitali. Cosa posso fare per voi?», disse allungando la mano grassa e spessa.
«Sono il maresciallo maggiore Delma Pugliese. Il brigadiere Deodato», sentì la mano umidiccia tanto da desiderare di asciugarsela al più presto. «C’è un posto dove poter parlare?».
«Nel mio ufficio», fece strada Vitali. «Eccoci. Accomodatevi», e indicò due poltroncine di fronte alla spaziosa scrivania ordinata come un giardino zen, al di sopra un fermacarte di agata, un porta timbri di ottone, un computer e una cornice d’argento che custodiva la figura di una donna sorridente. Le pareti erano verdi, e nella stanza c’era odore di deodorante al pino.
«Mi dica maresciallo», la esortò Vitali, posando le braccia sul piano di legno lucido.
«Volevo sapere che tipi di medicinali producete».
«Produciamo granulati in polvere e compresse. Medicinali e medicinali a denominazione generica. Gocce orali, gocce nasali, sciroppi, collutori, clismi e microclimi…».
«Va bene, va bene», disse Pugliese agitando le mani. «Mi dica se blisterate medicinali».
«Certamente. Siamo decisamente all’avanguardia in questo settore. Lo facciamo anche conto terzi».
«Benissimo. Era quello che più mi interessava».
«E posso sapere il perché».
Pugliese scosse la testa.
«Ah. E cosa c’entra la mia società, quindi?».
«Ancora non glielo posso dire. Ma sia gentile, risponda ancora a qualche domanda», disse Pugliese assumendo un espressione indulgente. «Quanti dipendenti ha?»
«Trentacinque».
«E quelli che si dedicano al blisteraggio, quanti sono?».
«Non sono fissi. Ho praticato una rotazione per non alienarli troppo. Il blisteraggio è tutto automatico. Vi è una macchina riempitiva del principio attivo, la sigillatrice e infine la confezionatrice. Il tutto avviene in una camera sterile. Basta quindi una sola persona che controlli il normale funzionamento».
«Ho capito», il maresciallo stava formulando un altra domanda quando il dottor Vitali la fermò con un gesto della mano.
«Se lo desidera, le posso mostrare il procedimento de visu. Vuole?».
«Andiamo», disse Pugliese e scattò in piedi.
***
«Abbiamo i nomi di tutti coloro che hanno accesso alla catena di blisteraggio. E, cosa importante, i numeri dei cellulari. Tu mi controllerai chi sono. Una volta che ci saremo fatti il quadro, potremo fare degli incroci e vedere chi ha telefonato a chi», disse e si levò il cappello che pose sul cruscotto. Deodato le osservò il profilo sottile, la fronte spaziosa, i capelli neri come le ciglia lunghe, gli occhi grandi, profondi, vividi, che quando ti davano un ordine lo eseguivi in un lampo. Decisamente Delma era una bella donna, e tutti ne subirono il fascino quando, per la prima volta, prese il comando della stazione carabinieri di Lecco. Aveva abbassato l’aletta parasole e, osservandosi nel piccolo specchio, si era passata un filo di rossetto sulle labbra, che poi mosse un paio di volte per distribuirlo uniformemente. Si accertò che i denti non si fossero macchiati, richiuse il rossetto e lo mise in una piccola trousse. Quell’operazione tanto femminile, riscosse in Deodato un che di voluttuoso, era come se la divisa fosse sparita.
«Guarda che ti vedo Deodato. È meglio che tieni d’occhio la strada», disse facendolo arrossire come il semaforo che lo obbligò a fermarsi. Poi, Pugliese si concentrò su quei nomi che le aveva dato il dottor Vitali, come se volesse estrarne il colpevole.
***
Si era chiusa nel suo ufficio e aveva telefonato al patologo.
«Dottor Bonafè buona sera», disse quando udì la sua voce, «volevo chiederle una cosa riguardo l’esame autoptico del dottor Calabrò».
«Mi dica maresciallo», rispose lui pronto.
«Dunque volevo sapere se aveva notato una strana patologia, a me totalmente sconosciuta, chiamata peyronie», spiegò Delma, quasi compitando.
«Certamente. È stato un medico francese che descrisse per primo, nel 1743, la cosiddetta induratio penis plastica, che da lui prende il nome di malattia di La Peyronie. Da François Gigot de La Peyronie. Consiste dunque nell’indurimento dei tessuti del pene».
«Va bene dottore, basta così. Gliel’ho domandato perché mi è stato riferito da una delle sue amanti».
«Ah! Amanti?», chiese stupito.
«Eh, ora non ho tempo per spiegarle tutto».
«Sempre ermetica lei, vero? Comunque no, non me ne ero accorto. È così importante ai fini dell’indagine?».
«Non so ancora se potrebbe essere utile. Un’ultima cosa dottore. Se si dovesse scoprire, che non soltanto la trinitrina gli era stata sostituita con un placebo, ma anche le medicine che assumeva, ciò avrebbe comportato un maggiore pericolo di infarto per un uomo che soffriva di pressione alta?».
«Certamente. Oh povero amico mio, ti volevano ben male per giungere a questo. Lo sa maresciallo che mi ha scombussolato la serata. E ora se non ha altro, la vorrei congedare perché ho molto da fare», disse il dottore con un tono sconsolato.
Bussarono.
Era Didimo con il solito foglio in una mano.
«Ecco maresciallo è stato più facile di quanto pensassi. Posso?», chiese guardando la sedia.
«Siedi e dimmi tutto».
«Dei trentacinque nominativi che il dottor Vitali ci ha dato, ho fatto un controllo delle utenze telefoniche e le ho abbinate a quelle delle…».
«Delle…?», lo sollecitò il maresciallo.
«Non so come chiamarle maresciallo».
«Chiamale amanti. Che diamine! Dunque li hai abbinati alle amanti e ne è uscito?».
«Che chi ha chiamato le amanti è stato il Brutti Adalberto».
«Ah, bene. E questo era quello che volevamo sapere. Quindi questo Brutti non ha chiamato solo un’utenza, da quello che ho capito».
«No. Ha chiamato spesso due utenze. Più frequentemente nel mese scorso e ultimamente è stata l’utenza di Ippolita Busi, ad essere chiamata e a chiamare».
«’Spetta un po’», disse Pugliese guardando un punto lontano, «Ippolita Busi, Ippolita Busi… La Capinera, giusto?».
«Sì, maresciallo. E ora arriva il bello. Questa Busi è la ex moglie del Brutti».
«Ah. Separati da quanto?».
«Da tre anni. Un figlio, Mauro, di otto anni, che tiene lei».
«Bene. E l’altra?».
«L’altra è stata la Elena Terzaghi, chiamata anche lei sia il mese scorso che nelle ultime settimane. Poi ci sono delle chiamate tra le amanti, con meno regolarità. Ma c’è un altra sorpresa».
«Ah, Didimo! Che mi fai la suspense?», disse il maresciallo gettandosi contro la spalliera della poltrona.
«Mi scusi. Dicevo della sorpresa. Ecco, c’è stata anche un’utenza sul numero della signora Calabrò».
Delma scattò dalla poltrona e posò i gomiti sulla scrivania.
«Vuoi dire che la signora ha chiamato il Brutti?».
«Il contrario. È lui che l’ha chiamata diverse volte».
Delma si passò una mano sui capelli e fermò una forcina che stava scivolando via.
«Aspetta un momento. Quindi se il Brutti ha avuto la possibilità di manomettere il principio attivo con un placebo e ha chiamato tutte le donnine del Calabrò…».
«L’ho pensato anch’io maresciallo. Sono tutte complici».
«No, non tutte. Diletta Pasotti tu non l’hai menzionata a proposito o te ne sei dimenticato?».
«Lei non è stata mai chiamata dal Brutti».
«Ecco, vedi. Tutte coinvolte tranne Diletta. Quella che il dottor Calabrò chiamava gioia. Deve essere l’ultima amante del suo carnet. Quella che gli ha dato più gioia, appunto. Forse dopo anni che le faceva la corte, finalmente aveva ceduto, e poi lui se ne era innamorato perdutamente. Capisci?».
Didimo scosse la testa.
«È stata la gelosia verso Diletta che le ha coalizzate. Sono state tutte le sue amanti, ma alla fine una è risultata la preferita dell’harem».
«Ma c’è anche la moglie».
«Lei come una Penelope ha sopportato tutti questi anni le scorribande del marito. Quando ha visto che si era innamorato perdutamente di Diletta, sentendosi tradita proprio nella sua casa, si è evidentemente lasciata compromettere dalle altre. Hai capito la bacchetta ricurva».
«Bacchetta ricurva?», chiese curioso Didimo.
«Ah, lascia perdere. Ora non resta da capire chi ha ordito tutta questa trama. Chi è il vero artefice. Chi desiderava per primo la morte del dottor Calabrò. Lasciami qua quel foglio», e tese la mano.
Delma guardò il foglio e si concentrò sulle date e sulle telefonate verso e per le varie utenze.
Più tardi era riuscita a stabilire chi era stato il primo che aveva contattato il Brutti, ma non le era ancora ben chiara da chi era nata l’idea di sostituire i medicinali. Alzò la cornetta e chiamò il dottor Canepa. Lo mise al corrente delle nuove circostanze, poi gli chiese di poter mettere sotto controllo le utenze telefoniche dei sospetti.
«Certo Pugliese con quell’analisi dei tabulati ci facciamo pochino. Mi mandi l’elenco in suo possesso e le farò avere i mandati».
«Me ne servirebbe anche uno in particolare, con relativa perquisizione domiciliare, presso l’abitazione della signora Calabrò». Il maresciallo si aspettava la reazione che immediatamente si scatenò nel dottor Canepa.
«La vedova?» disse sorpreso. Evidentemente non mi ascolta quando parlo, pensò Pugliese.
«Le ho appena detto che anche lei riceveva le telefonate da questo Brutti, quindi ho pensato che non soltanto la trinitrina poteva essere stata sostituita con del placebo, ma anche le altre medicine che assumeva. Mi ha capito?» la locuzione l’aveva pronunciata con un certo risalto, e subito se ne pentì. Ma evidentemente il dottor Canepa non ci fece caso anche in questa circostanza.
«Ho capito Pugliese. Gliela farò avere al più presto».
Riagganciarono.
***
Quando la signora Calabrò se la vide nel riquadro della porta con alle spalle due carabinieri capì che erano venuti per arrestarla.
«Dobbiamo perquisire la sua casa», disse il maresciallo mostrandole il mandato. La donna sbiancò in volto. Si fece da parte e li fece entrare. «Ma per renderle meno doloroso questo momento, le metterebbero a soqquadro tutta la casa, ci dica dove tiene i medicinali di suo marito».
«I medicinali di mio marito?» ripeté la signora Calabrò. Poi scosse la testa. «Non li ho più. Li ho gettati. Che me ne facevo dopo la sua morte, me lo dice».
«Va bene. Le volevo risparmiare questo. Procedete», disse Pugliese rivolgendosi a Deodato e Catelli, «sapete cosa cerchiamo». I due si diressero presso le camere. Pugliese chiese dove era la cucina.
«Di là, in fondo», disse la signora e tese il braccio a indicare il corridoio. Pugliese guardò nei cassetti, nella credenza. Era convinta che non le avesse ancora gettate via.
«Ma che cerca. Le ho già detto che le ho gettate via», disse la signora mentre la guardava rovistare in giro.
«Vede signora Calabrò. Se lei ha gettato, come dice, i medicinali di suo marito. Due sono le cose: o le facevano ricordare suo marito in vita, oppure erano stati sostituiti con del placebo, e questo le faceva ricordare la sua complicità nella morte di suo marito».
«Cosa?», chiese la signora stupita, «Io avrei ucciso mio marito? Ma lei… Lei è pazza!».
«Lo vedremo signora. Anche se ora non troveremo i medicinali, abbiamo le conversazioni che la inchiodano», disse e la guardò dritta negli occhi scuri che le si fecero sempre più acquosi per via delle lacrime. Deodato entrò in cucina e scosse la testa prima di aggiungere di non aver trovato nessun medicinale, « Se non questi».
«Quelli servono a me!», disse la vedova con tono arrogante. Pugliese li volle controllare. Erano dei sonniferi, qualche bustina di aspirina e una tubetto di Saridon.
«Va bene, tenga», disse e glieli restituì.
«Ha fatto un viaggio per niente, maresciallo», ci tenne a sottolineare la signora mentre li riaccompagnava alla porta. Aprì la porta e la trattenne con una mano, la mossa le fece cadere il tubetto a terra. Quel suono risvegliò in Pugliese un ricordo.
«Aspetti un attimo», disse alla donna e si precipitò nel salone. Guardò il tavolino di cristallo sul cui piano vi erano sparse delle riviste. Vi guardò sotto e la trovò. Trovò ciò che ricordava di aver avuto tra le mani qualche giorno addietro. Il contenitore di medicinali giallo. La signora Calabrò seguita dai due carabinieri era nel riquadro della porta a vetri, aveva il viso pallido e tirato, le labbra tremanti.
«Se qui dentro ci sono ancora le medicine che penso io», disse Pugliese agitando rapidamente la confezione di plastica gialla, «il viaggio non l’ho fatto a vuoto», e se la infilò in una tasca.
***
Il giorno seguente nell’ufficio del dottor Bruno Canepa, Delma Pugliese entrò con un sorriso compiaciuto sul viso. Lo salutò con una forte stretta di mano, si levò il cappello e lo tenne davanti con le due mani assieme alla cartella di pelle nera.
«Si accomodi», disse il magistrato indicandole la poltroncina. «La vedo raggiante», disse e si passò una mano sui capelli lunghi e lisci. Delma stirò ulteriormente le labbra in un sorriso ancora più significativo.
«Sì, sono contenta d’aver risolto il caso che era alquanto complicato per cause e metodo».
«Bene. Mi renda partecipe, dunque».
«Gelosia. Tutto ruota attorno a questa parola enormemente usata», disse mentre apriva la cartella e ne estraeva una cartelletta con la dicitura Delitto Calabrò. «Ma andiamo per ordine. Tutto ha avuto inizio per puro caso. Se non fosse stato per il dottor Bonafè e la sua angina, lo scambio delle pillole sarebbe passata inosservata».
«Già», fece il magistrato, ma non l’ascoltava con la dovuta attenzione. Guardava piuttosto le sue labbra carnose che si muovevano nell’articolare le parole. Che sensazione doneranno si domandò. Poi scacciò quel pensiero.
«Ma ci vuole anche un movente».
Pugliese mostrò il palmo di una mano. «Un momento, e ci arrivo», disse. «La dottoressa Terzaghi è stata una delle tante amanti del dottor Calabrò. Non mi chieda in quale graduatoria stava, perché non glielo saprei dire. Quello che so è che è stata lei l’antesignana del complotto. Lei, grande lettrice di gialli, quando ha letto La morte ha freddo di Minette Walters, una scrittrice inglese, ha capito che poteva tentare anche lei di compiere il delitto perfetto. Bastava sostituire le compresse con del semplice placebo, come faceva la protagonista del giallo. Romanzo che ho trovato in biblioteca dopo una breve ricerca. Ma c’era un ostacolo. Non conosceva nessuno capace di sostituire il preparato. È quando ha conosciuto Ippolita Busi che ha potuto mettere in essere il suo piano».
«Chi è questa Ippolita Busi», chiese Canepa stirando le lunghe gambe sotto la scrivania.
«È la ex moglie di un certo Brutti Adalberto che lavora presso la Daynacren, un laboratorio farmaceutico dove fanno anche blisteraggio. Ippolita, è stata un’amante del dottor Calabrò, anch’essa amareggiata per come l’aveva abbandonata».
«Ma quante amanti ha avuto quest’uomo, si può sapere?», Canepa posò i gomiti sulla scrivania, intrecciò le mani e vi adagiò sopra il mento, in attesa di conoscere la risposta.
«I nomi sono presto detti: Diletta, Amelia, Eleonora, Elena, Leda, Ippolita».
«Uh! Un vero collezionista. Se non fosse perché è la vittima, penserei a un Landru post litteram».
«Ma è stata Diletta a sconvolgere la sua vita».
«Diletta è la servetta di casa Calabrò, giusto?.»
«Esatto. È lei che ha dato un senso diverso alle avventure fino ad allora attuate. Ed è lei che ha creato i presupposti per decidere di fargliela pagare. Così la farmacista, dopo aver letto il romanzo e aver trovato chi poteva attuare quel piano, ha coalizzato e fomentato le altre».
«Sono anni che faccio questo mestiere, ma a volte non riesco ad abituarmi a quanta malvagità c’è in giro».
«Dottor Canepa, posso chiederle perché è entrato in magistratura. Immagino che quando ha scelto di diventare magistrato ci siano state motivazioni profonde e importanti. Di solito le scelte di vita avvengono nell’adolescenza».
«Come mai le interessa?».
«Per via di quella frase: la malvagità che c’è in giro. Mi ha colpita. Anch’io sono costretta a vederne tanta».
«Mi definirei, come la stragrande maggioranza dei miei colleghi, essenzialmente un uomo d’ordine. È difficile che si possa fare il magistrato, così com’è difficile che si possa fare il carabiniere se non si crede nel binomio legge e ordine. Non è così maresciallo?», chiese guardandola negli occhi scuri, dove c’era tutta la sua sicilianità. Delma annuì.
«Ci sono alcuni punti in comune tra il magistrato e il militare, l’uno e l’altro sono al servizio dello Stato, e l’uno e l’altro impiegano la forza», disse Pugliese.
«Ottima riflessione», disse Canepa ciondolando un poco la testa. «Ricordo, parlando di forza, che una volta mandai in crisi un giovane uditore, che aveva scelto con convinzione l’obiezione di coscienza. Gli lessi la formula di spedizione in forma esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti. Dice più o meno così: “Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti”. Avevo dunque chiesto al giovane uditore che differenza ci fosse secondo lui tra l’usare la forza e ordinare di usarla. Se non hai voluto portare le armi durante il servizio militare perché lo ritenevi contrario alla tua coscienza, insistei, come puoi pensare di fare il magistrato? Dove ordinerai l’uso della forza. Non solo lo farai da pubblico ministero, o da giudice istruttore o da giudice penale, ma anche soltanto se ordinerai uno sfratto per finita locazione. Non ti sembra un po’ ipocrita rifiutarti di usare la forza e ordinare ad altri di usarla?».
Delma era rimasta colpita da quelle parole, ma soprattutto dal tono che quel giudice usava. Non sembrava più l’arrogante, presuntuoso e ambizioso uomo di legge, come l’aveva giudicato la prima volta che lo aveva conosciuto.
«Bene Pugliese dopo aver un poco divagato, e avermi estorto confessioni che mai mi sarei aspettato di farle, vada avanti con la sua relazione».
«Sì, dicevo dunque della farmacista. Una volta che tutte si trovarono d’accordo, fu facile per Ippolita convincere il suo ex marito a scambiare il principio attivo con un placebo. Anche perché il marito seppe della relazione quando ancora vivevano more uxorio. Indubbiamente, anche lui, un certo desiderio di vendetta lo covava».
«Ma quanti medicinali gli hanno sostituito alla fine».
«Oltre alla trinitrina, tutti quelli che gli servivano per tenere sotto controllo la pressione. Ma ciò non sarebbe stato ancora possibile senza la complicità della farmacista, la quale interrogata una prima volta disse che non era sempre lei a consegnare le medicine al dottor Calabrò. Questo era vero, ma se doveva assentarsi, lasciava un sacchettino con i medicinali appositamente per il dottor Calabrò. Non poteva mettere i medicinali placebo dentro gli scaffali. Doveva essere sicura che quelli li avrebbe presi Calabrò».
«Quindi era sempre lei a prepararli. Insomma, lo hanno condannato a morte».
«Esatto. Una condanna certa che aveva solo bisogno di un po’ di tempo, ma sarebbe arrivata».
«Dunque si può ipotizzare un delitto in correo».
«Sì. Anche se le vere responsabili sono la dottoressa Elena Terzaghi e la signora Calabrò. Vede», disse e cavò dalla borsa una scatoletta gialla che depose sulla scrivania, «questa è la prova schiacciante della sua colpevolezza. Quello che vede è un contenitore settimanale dove lei metteva tutti i medicinali che servivano al marito».
«Comoda», disse Canepa dopo essersi rigirato tra le mani la scatoletta, «e come ha fatto a trovarla?».
«La signora me la mostrò un giorno, e io, non so per quale motivo, decisi di nasconderla sotto delle riviste. Ma lo feci così, senza pensarci. Ora, credo, che quell’impulso mi fu dettato da un dubbio che allora non seppi spiegarmi, per quello la nascosi».
«Una bella fortuna».
«Già. Quando capii come era stato possibile ucciderlo, non ci potevo credere. Una donna tanto a modo, borghese, schiva, fiera del lavoro svolto dal marito. E invece…».
«E invece la gelosia», proseguì il magistrato, come se stesse declamando, «la gelosia patologica si genera da comportamenti che non trovano riscontro nella realtà, da azioni infondate, e deriva, sostanzialmente, da un’angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro oggettivo. Quest’angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui si costruiscono ad hoc gli scenari, il rivale e, più di tutto, le prove dell’infedeltà. L’ho letto di recente in un articolo che trattava psichiatria clinica. Si parlava di un paziente anziano, un vero caso clinico, ricoverato presso il Servizio Psichiatrico perché presentava un disturbo caratterizzato da delirio di gelosia accompagnato da un episodio maniacale. Dagli esami era risultato che nei mesi precedenti avesse fatto largo uso di bevande alcoliche, contemporaneo allo sviluppo del delirio di gelosia. Capisce? Una gelosia che non ha confini né età. Ma torniamo a noi. Allora, si profila un correo di tutte le donne del dottor Calabrò».
«Certo. Mi viene in mente Clitennestra, donna forte e di grande temperamento, incarna il rancore femminile dovuto alla gelosia e il sentimento materno, che in questo caso potrebbe essere stato proiettato sul marito. Ti uccido per proteggerti».
«Bene. Mi sembra sia tutto. Ora non mi resta che istruire la pratica», disse e si alzò. Pugliese ripose la cartelletta nella borsa. «Maresciallo, le faccio i miei complimenti. Ha saputo risolvere il caso senza che questo apparisse sui giornali, tanto pettegoli per queste vicende», e le allungò la mano.
Era giunta alla porta quando squillò il telefono del magistrato. Sollevò la cornetta e contemporaneamente il braccio sinistro per un ultimo saluto al maresciallo che era giunto alla porta.
«Aspetti!» disse imperioso. Pugliese si arrestò con la mano sulla maniglia. «C’è stato un delitto a Villa del Balbianello», disse deponendo il ricevitore, «è Simonetta Lucrezia Ferrante la vittima, moglie dell’industriale tessile Mariano Ferrante».
Quale nuovo mistero si celava dietro quel delitto, Delma Pugliese non ne sapeva ancora nulla, ma di una cosa era certa, sarà un caso che richiederà discrezione, prudenza, garbo. L’intuito e la pazienza di Delma Pugliese stavano per essere, ancora una volta, messe alla prova.
NOTA DELL’AUTORE
“Un delitto Placebo” è il terzo episodio della serie che ha come protagonista il maresciallo maggiore Delma Pugliese. Potete trovare “Un delitto al dente” e “Un delitto lacustre” sulla mia pagina, Riccardo Alberto Quattrini.
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Altri miei romanzi (“Il Copista” “Ombre Nere sulla Laguna” “Un delitto semplice”) e racconti ‒ “Angoscia”, “Corda Tesa”, “HAL 9000”, “Il gatto Cambise”, “Il labirinto di Chartres”, “Il moscone – Lucilia Caesar”, “La donna di latta”, “L’occasione della signora Daniela Crociani”, “La signora di Montegridolfo”, “Transumanza: Tramudas”, “Un biglietto di sola andata”, “Fobie – vespa crabro”, “Fenomenologia del lato B”, “Corda tesa” ‒ sono disponibili su tutti i principali store on-line.