”Gli antichi despoti richiedevano vergini, per succhiare la loro acerba linfa. Al Minotauro venivano condotte intatte fanciulle, di bella tempra, e nobili natali. Le vampate mi riprendono. Loro hanno il patrimonio, le sanguisughe hanno quello che mi avevano già spremuto, ridendo alle mie spalle.
racconto
di
Ermes Nascimbene
Il vecchio
Le foglie si sfaldano scricchiolando quando cammino per il sentiero. Si sgretolano le vigne, ingiallite e rattrappite, e spargono a casaccio denudandosi quello che resta dei tralci. Restano aguzzi e retti i filari dei cipressi a interrompere la linea delle colline e del cielo. E una ventata di rosso imporpora gli alberi, salendo dalla terra, come una malattia. La conosco, io. È una malattia l’autunno.
Quando Valeria si alzava di scatto, e sciogliendosi di dosso la stola, o lasciandosi scivolare via il cardigan cercava respiro, scostando anche la collana di perle grigie, quelle che le regalai all’inizio, mi irritava.
Nessuna delle cavallone che hanno girato alla mia corte ha mai avuto tali complicazioni, non mi piacciono le donne complicate. E non mi piacciono le donne stagionate.
Il fruscio delle foglie sotto i piedi mi accompagna, mi ritma il passo. Andranno a imputridire da qualche parte, quando il vialetto sarà spazzato dai giardinieri, per adesso il loro fragrante disfacimento porta ancora tracce della recente estate.
Una vampata di rosso infuoca le fronde del frutteto, contro la terra grigia e stepposa.
Quando aveva le sue vampate, Valeria si imporporava il volto e il collo, una leggera pioggia di sudore le imperlava la fronte, sopra il labbro luccicava un velo umido. Valeria cercava di resistere all’assalto delle calure, tutto il suo yoga, le terme, la cromoterapia, i guru di cui si riempiva la giornata non la difendevano dall’autunno. Le vampate la arrossivano, fino a stordirla, e la agitavano.
Io non arrossivo mai.
Non mi piace l’autunno.
Lentamente, mese dopo mese, si allentava in lei la linea che dal mento risaliva al sorriso, lentamente si affossava la morbida discesa dai suoi grandi occhi agli zigomi, lentamente si addensava sopra la fronte un crocevia di dubbi che nessuna crema riusciva a spianare. Lei invecchiava, ma io non volevo invecchiare con lei.
L’estate si compra, e anche la primavera.
Io mi sentivo giovane quando intrattenevo le ragazze. Per loro ero un mito: come mi guardavano, come ridevano alle mie battute, come mi adoravano quando raccontavo cose che solo pochi potenti sulla terra sanno. Per me erano spiccioli quelli che mettevo nelle loro buste. Ma per loro era molto, moltissimo. Mi adoravano. Adoravano me, i miei soldi, (che differenza fa, li ho fatti io).
Gli antichi despoti richiedevano vergini, per succhiare la loro acerba linfa. Al Minotauro venivano condotte intatte fanciulle, di bella tempra, e nobili natali.
Perché hanno fatto tutto quel pandemonio, una sconclusionata gazzarra? Non erano vergini, almeno, le mie. Non avrei avuto tempo di svegliarle, ero io che attingevo alla loro voglia. Io che non ne avevo più.
Pagine e pagine di giornali, più si scandalizzavano, e più sapevo che mi invidiavano. A cominciare dalle vecchie galline moraliste: mai state moglie, e senza più voglie.
Adesso mi curano. Sarebbe contenta Valeria.
Cercano anche di darmi qualcosa che mi aiuti, non quello che prendevo prima, non è certo quello che mi davano i miei medici, è finita l’età dell’oro. Ma almeno che riesca a dormire, io che ho combattuto contro il sonno tutta la vita, il sonno che mi rubava gli affari, che mi distoglieva dall’azione, che mi fermava la corsa.
Quante volte ho impastato faticosamente le frasi di una dichiarazione davanti alle telecamere fra i fumi della notte che ancora mi pesava addosso e le parole che ronzavano sfuggendomi o si storcevano in sensi deformi. Uscivano cose banali? Ma ai miei giornalisti embedded, fossero delle mie testate, o delle altre parevano sempre nascondere chissà quali strategie e reconditi effetti. E gli altri tanto strillavano lo stesso.
Chi eredita fortune può concedersi il lusso di gingillarsi con i dubbi sulle proprie qualità, indipendentemente dalla sua fortuna. Non io: la mia fortuna sono io. Ti prendi i giornalisti, le donne, il consenso con i soldi. E allora? Sono miei, sono io.
Il sonno non lo compravo: ma compravo ottimi medici, e compravo la veglia. Pagavo caro, ma le ore che mi compravo, ogni giorno, ogni notte erano mie.
Adesso che il tempo mi avanza, adesso che il tempo dilaga vuoto da tutte le parti vorrei soffocare nel sonno l’ingombro di ricordi e di vuoto. E invece arranco su per la notte, rigirandomi come un ossesso, e spiando la sveglia ogni poco. E non arrivo mai a scollinare che verso l’alba, è come una salita infinita. Le ore immobili, io inchiodato nel letto, cercando requie.
Solo quando a volte mi sveglio già a giorno e sento, rinfrancato, che non so come e da quando, ma ho dormito.
Devo rallentare, sono fradicio di sudore, e rabbrividisco all’aria mossa già fredda. Eppure ho caldo, sto scoppiando. Mi sale dentro, come nelle viti intirizzite, un rossore aspro che mi stressa, che mi agita.
Per tutto il resto decidono loro, mi curano loro, se si può chiamare cura. Quando ero io a scegliermi i medici, quello era curare. Hanno interrotto tutto, mi hanno lasciato per terra. Tutto questo ricordare, rovistare, allora non c’era. Ero come ero, e andava bene, benissimo. Mi sentivo d’acciaio, Ero sempre scattante, divertente, sicuro di me. Sapevo che parole usare, che battute, che gesti. E mi adoravano.
Ogni performance era al massimo. Io ero l’unico che diceva quello che volevano sentire dire, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di ammettere. Loro facevano le corna alla moglie, ma si scandalizzavano se io ammettevo che mi piacevano le donne. Loro candidavano la loro segretaria, a compensa dei servizi resi, a spese dello Stato. Io le pagavo molto di tasca mia, e quando le mettevo a spese dello Stato era comunque roba di prima qualità. Quando le ho mandate in parlamento o al governo ho reso un servizio al paese, roba fresca, niente donne intellettuali e pelose.
Non è il freddo che mi fa rabbrividire, non è l’affanno che mi fa sudare. Non devo ricordare. Le vampate mi riprendono.
Improvvisamente sento come una caduta dentro, come se il cuore sprofondasse, lo sento come rannicchiato in fondo, fermo. E poi comincia sempre più forte, sempre più pesante a battere. E un caldo insopportabile sale per le braccia, mi affanna il respiro, vorrei strapparmi di dosso i vestiti.
Ho il cuore in gola, si dice. Non mi era mai successo, anche quando ho conosciuto Valeria. Ed ero innamorato come un cencio.
Ancora qualche metro, sul ghiaino, fino alla scala in pietra consunta, e poi inghiottito nell’ombra riposante del portone. E posso riprendere fiato all’approdo.
Verrebbero forse, i miei fans. Ammiratori che spuntano dai bar dell’entroterra veneto, dalle sedi rinserrate nei portici sporchi delle cittadine di provincia. Signore ingolfate in pellicce di famiglia, steccate nelle messe in piega in tutti i toni del biondo, guaendo alle mie parole d’ordine, sempre convinte, quando dicevo una cosa, e quando dicevo il contrario. Giovanotti irti di molto gel impastato con pochi capelli, stretti nei loro Burberry, smaniosi di Suv e di Rolex. Se li avessi amati non avrei potuto propinargli così facilmente le mie battute. Ma bisognava soggiogarli, non amarli. Loro mi erano grati perché in fondo volevano solo scodinzolare.
Quelli che sono veramente spariti sono i miei uomini. Quelli che mi hanno derubato giorno dopo giorno, magari tramando fra di loro per imboccarsi l’un l’altro con i soldi miei. Una piccola capriola, ed erano già a dichiarare per il nuovo corso, già inglobati in segreterie, direzioni, caminetti, fondazioni.
Eppure io sono stato la loro fortuna, e anche le loro fortune. Sapevo come prenderli, li giravo come volevo. Hanno tradito padri e figli, per me. Le mogli no, quelle le tradivano comunque.
Come cani hanno leccato nuove mani che davano loro qualche croccantino, le cagne invece hanno continuato a scodinzolare più a lungo, ma solo perché non avevano capito che il vento improvvisamente era cambiato. Stupido romanticismo femminile.
A volte sogno, quando riesco a sprofondare fuori da queste mura azzurro pallido, fuori dall’orizzonte corto delle mie giornate, fuori dalla distesa arida delle mie notti. E sogno di essere ancora sfolgorante, davanti alle telecamere, più veloce, più abile, più potente di tutti gli altri. Ma poi sogno che sono nudo, sogno che ridono di me e mi sveglio agitato e tremante. Non è la nudità di cui parlavano i giornali, dopo le rivelazioni di quella cretina. È una nudità di pietra, di tronco, di giunco. La nudità povera delle cose.
Senza ripari, senza correzioni, senza rinforzi.
Non è la nudità vogliosa di allora, non sento e non immagino nemmeno quella fregola, adesso che mi hanno lasciato così. Al naturale.
Un tempo, da bambino, quando ancora non si era aperto il varco della mia fortuna, avevo sogni ricorrenti di inadeguatezza, di pudore. Ricordo un sogno ancora, che si ripresentava con qualche variazione: stavo davanti a qualcosa che poteva essere una commissione, ma forse era un collegio giudicante, e dovevo assolutamente riuscire a sfuggire alla loro severa sanzione, ma non mi venivano le parole giuste: brani di canzonette, ingarbugli di parole assonanti, parafrasi di vecchie filastrocche mi rendevano ridicolo. C’era una donna ancora non anziana, ma non più giovane, non bella, ma neppure orrenda che mi scrutava a labbra serrate, gonfiando le guance con disgusto, e mi fissava attraverso il luccichio dei suoi occhiali. La sua voce era esatta, tagliente. Acuminate e impietose le sue osservazioni. E io stavo lì, ansioso e spossato, ascoltando con terrore il mio balbettante sproloquio, osservato con lucido rancore da lei, e dagli altri. E sprofondavo, sprofondavo….
Non ho mai sopportato le donne con gli occhiali, mi piace guardarle le belle donne. Non sono loro che devono guardare, per quello ci siamo noi.
Però ce n’è stata una con cui mi sono divertito, una secchiona, che prendeva ripetizione dalle altre più dotate. Niente creatività, legnosa e lenta come un carretto. Mi piaceva il contrasto fra la sua ottusità e il brillio rigoroso delle sue lenti. L’ho scelta per gli occhiali, e ogni volta che la vedevo nel suo ruolo ridevo come un matto. Pensando a tutti i sapientoni che sprofondavano davanti alla sua ignoranza.
Qui non mi lasciano leggere i giornali, non c’è la televisione. Non so neanche adesso che fine hanno fatto tanti di loro.
Nella sala multimediale ci sono abbondanti raccolte di film, ma non ne ho voglia.
L’altro giorno nella veranda d’inverno che dà sul roseto c’era un uomo che puliva i vetri. Aveva alcuni giornali vecchi, ingialliti e rigidi. Ne prendeva qualche pagina, le appallottolava e strusciava forte con mano lenta e regolare sulle vetrate. Mi sono avvicinato e lo osservavo. Mentre tirava su i fogli, sfilavano davanti ai miei occhi titoli, foto, vignette. Su quei giornali c’era ancora un nome, una maschera ridente e rabbiosa. L’uomo lavava, lavava, con un largo giro circolare del braccio. Toglieva ogni macchia dai vetri: insisteva con forza sulle incrostazioni più dense, passava e ripassava cancellando tracce e aloni. Ma sui giornali restava sempre il mio nome, quello non si cancellava mai: il mio nome, la mia faccia. Adorazione e insulti, e la mia faccia.
Un bel faccin, diceva la mia mamma. L’unica donna che mi abbia capito.
Adesso le borse sotto gli occhi e i solchi attorno alla bocca, non li vede nessuno. Ma per anni ho sorvegliato e combattuto il nemico: rughe, perdita di tono, opacità. La mia freschezza era un dogma. La mia ostinazione nel ricostruirmi era una cosa sola con l’obbligo per gli altri di coltivare la venerazione per la mia immortalità e la mia eterna giovinezza.
Si sono tanto accaniti sulla mia presenza. Era il mio ruolo. Agli altri poteva capitare di essere belli o brutti, io ero per definizione attraente.
E le donne erano attraenti se piacevano a me. Quanto alle racchie peggio per loro, mi hanno sempre disturbato. La donna è un piacere, se non è bella che piacere è?
E poi è finita che me le sono trovate davanti, a decidere delle mie cose, donne gonfie di autorità, con quelle facce da capesse.
Esclusa mia figlia, che è un maschio, perché ha preso da me.
La dottoressa Gaggini per esempio. Brutta è brutta. Ma deve aver rotto tutti gli specchi a casa sua. Porta in giro quella faccia come se non piovesse. Gira con le mani nelle tasche del camice che tira su tutti i bottoni, e sorride sotto cespi di brutte méches biondo stopposo. Sorride come se stesse bene al mondo, come una vecchia stufetta che scalda chi le sta vicino. A prescindere. Niente da dire, è professionale, cortese, esatta, preparata. Prima pensavo a una forma di rispetto nei miei confronti. Almeno i medici, nonostante la discrezione della direzione sia assoluta, sanno di me, credo. Ma l’ho vista sorridere così anche a una specie di tossica che entrava dopo di me nel suo ambulatorio.
So che giornali porta in borsa, e ho colto qualche battuta delle infermiere. Con me non ha mai lasciato trapelare alcuna tensione. A volte vorrei spiare oltre il suo autocontrollo qualche irritazione trattenuta. Che non sia ostile con me mi umilia, la sua equanimità mi cancella, mi condanna all’irrilevanza.
La corsia rossa mi conduce verso il mio piano, la balaustra morbidamente arrotondata in marmo reso consunto dal tempo scorre sotto la mia mano ancora gelata. Il marmo mi sente freddo stasera. Scivolo oltre e mi rintano in camera. Aspetterò qua nella penombra che si allunga dalle tende semichiuse che filtrano la luce urlata dal lampione di fronte. Oltre al balcone c’è il parco, da cui mi sono appena salvato, e oltre stanno i filari delle vigne che danno quel bianco lievemente aspretto ma non sgradevole che bevono tutti gli altri.
Aspetterò la cena, che forse rimanderò indietro.
È come quando non hai ben digerito, un ingombro ti accompagna i passi, ti smorza i pensieri, ti torce le coordinate spazio-temporali nella direzione del tuo peso. Ho questa sensazione che mi stagna fra il respiro e le viscere.
Non ritorno quasi mai su avvenimenti, frasi, gesti, che sono sfumati via, spariti assieme alle petulanti visioni che germinavano in me, quando mi curavano loro. Passate le fregole, ripulite le immagini, cancellate femmine che oggi non so neanche cosa erano, sciacquate via come le orme di sudicio. Via, ripulito tutto, come faceva oggi quel tipo con i vetri, con un gesto lento e circolare, via l’unto, lo sporco, l’appiccicoso. Nulla di questo mi ingombra più, ma mi disgusta un’ombra. C’è una sentenza non detta, una minaccia che non è quello che urlavano quei demoni mediocri, quei rubapolli politicamente corretti. Di nuovo mi travolge il batticuore, il caldo, come vampate, vorrei strapparmi i vestiti di dosso. I vestiti. Questi sono stracci, non mi si adattano, stracciarli sarebbe la cosa più generosa da fare nel loro confronto. Questa Miriam che mi hanno messo alle costole non c’è mai stata, non sa nulla di come si cuciva un vestito per me. È pure convinta di avere portato delle cose eleganti, chissà in quale outlet le ha scovate.
I figli hanno avuto quello che volevano. Tutto. E adesso non sono più obbligati a difendermi. Non sono più tenuti a difendere l’onorabilità del nome. Cercano di difendere il loro anonimato. E con i miei soldi non hanno problemi a cancellarmi. Loro hanno il patrimonio, le sanguisughe hanno quello che mi avevano già spremuto, ridendo alle mie spalle. Non mi ha mai dato noia che la gente mi attribuisse vicende scabrose, ma vedere sui giornali come mi sfottevano mentre mi sfilavano il loro bottino mi ha urtato fino allo spasimo. A lungo mi ha rivoltato la rabbia.
Ma poi la rabbia si smorza, si scioglie, e forse più in fretta adesso che mi travolge un calore maldestro, impetuoso e goffo, incontrollabile.
La rabbia finisce, ma non avevo previsto questo sentimento di insoddisfazione, di nudità. Non mi sono mai sentito addosso, appiccicato questo tormento. Non ho ma avuto dubbi, né remore.
Mi tenevano su, ero allegro, ero rinforzato, ero gonfio.
Adesso mi hanno lasciato scorrere sulla mia età, scivolare nei miei giorni, camminare sulle foglie secche, sentendone il fruscio.
Si è fermata la giostra, e adesso ricordo e non ricordo.
E quando ricordo mi trasuda uno sconforto mai provato, mi batte alle tempie, mi spossa.
Forse adesso è il caldo della stanza che mi dà noia: i caloriferi massicci, ridipinti chissà con quanti strati di smalto spesso sparano un caldo che serve a allontanare dai degenti sensazioni di rigore eterno.
Fra poco passa l’infermiera a provare la pressione. Non ricordo mai come si chiama, non ricordo neppure che faccia ha, vuol dire che è brutta. Eppure è giovane, mi hanno preavvertito che sarà l’allieva a venire anche stasera. Non è esattamente il tipo di stagista cui ero preparato. Non rivedo la faccia, ma risento il tocco ruvido delle sua mani arrossate. Mi mandano un’infermiera coperta di scorza, insaccata in una pelle da campagna. Il camice addosso a lei è un vero grembiule.
Sonia
Anche oggi mi hanno mandata di sopra, stavolta perché è la Daria che ha la giornata di permesso.
Di solito a noi non ci mandano nelle camere dei paganti deluxe. Spero che non facciano storie. La Gaggini dovrebbe averli avvertiti. Salgo le scale con il tappeto spesso, fermato a ogni gradino dalla striscia in ottone, morbido sotto i piedi, mi sento già più signora a salire di qua.
Un poco mi sento tesa, ma che sarà mai, so fare il mio lavoro. E poi ‘sta pressione alla fine ce l’hanno tutti, finché non li mandiamo via sdraiati… La pressione ce l’hanno tutti e non c’entra essere ricchi o poveri.
Come quel tipo che sta nella 12, che deve essere ricco sfondato perché ordina sempre pranzo e cena, e a volte gli portano dei pasti da fuori. Almeno, la Daria dice che non sta bene farsi i fatti degli altri, e se cominciamo a curiosare sugli ospiti, allora è inutile che vengano qui, si trovano una bella casa di cura in Italia e noi chiudiamo. Loro chiudono, io il posto fisso non ce l’ho, e lo stage non lo farò ancora per molto. E quando finisce la scuola chissà se mi prendono, chissà se mai mi capiterà proprio di venire qua.
Io la scuola la devo fare qui oltre confine, gratis, e pure con il rimborso. E così il mio bel stipendietto arriva ogni mese, e allora neanche il tipo della stanza 12 mi fa paura, con la sua ghigna che sembra un puzzle incollato male. È un tipo bassetto, la faccia come uno strofinaccio strizzato, con il piccolo orticello portatile di capelli appiccicato sulla testa.
Giuseppe si è messo a ridere quando gli ho detto che non sapevo chi fosse :
«Va bene che sei giovane, ma i diciotto anni almeno li hai compiuti, come fai a non sapere chi era?»
Che ne so. Qui vengono da tanti paesi, e noi la televisione mica sempre l’avevamo. La mamma diceva che era meglio quando non c’era: «Non mi piacciono tutte quelle donne in scatola, dai che c’è da lavare l’insalata». Stando tutto il giorno a fare i servizi nella cucina del ristorante arriva a casa sfinita, e senza nessuna voglia di cucinare. Allora io e la Giada ci diamo da fare.
Busso.
«Scusi, è per la pressione».
«Aspetti un attimo, la richiamo io».
Va bene, aspetto, tanto nel corridoio ci si diverte un sacco, c’è di che distrarsi. Un neon funziona male, è mezzo in ombra. Le cornici sono tutte uguali, ma se guardi con attenzione i quadri un poco sono diversi: tante diverse versioni dello stesso uggioso autunno: quello ha un albero grande, qui due pioppi smilzi, addirittura uno con un poco di neve. Al terzo piano dove ci sono le camere da due non ci sono neanche i quadri, ma hanno appeso i disegni di uno che è morto l’anno scorso: era un pittore.
Però io ho da fare tutte le pressioni del secondo, busso, e se no vado avanti tornerò.
«Scusi, ma io dovrei andare, posso?».
Se ne stava lì senza far nulla, sulla poltrona, ma guarda che gente, e io fuori a spettare.
Non è che non ci sia abituata ai vecchi, ormai è un mese che sto in stage, ma questo è strano davvero.
«Scusi sa, ma io devo fare tutto il piano, altrimenti ci vado di mezzo io, mi dia gentilmente il braccio».
«Guardi che non l’ho chiamata io…».
«Ma io devo prendere le pressioni, se no mi cacciano…».
«E se ti cacciano vai da un’altra parte…».
«E chi lo trova oggi un lavoro? Se non finisco la scuola…».
Mi sa che questo non si è mai cercato un lavoro, chissà che mestiere faceva.
«Ma sei carina, un lavoro lo trovi…».
Decisamente questo come sia fatto il mondo non lo sa. Un lavoro oggi si trova? Ma quando mai… Ma basta guardarsi in giro, mica c’è bisogno di essere molto informati… Mi sa che è uno come me, che odia i giornali e stacca la radio appena arrivano le notizie. Mi hanno sempre detto a scuola che era importante informarsi, ma io gli rispondevo sempre che io ero informatissima, e se i giornali volevano informarsi da me ero ben contenta di spiegargli come vanno le cose e soprattutto che cosa c’era da fare per cambiare un poco in meglio. Ma andare a spulciare anche le disgrazie degli altri… no grazie, ho già una bella coltivazione di casini, che vengon su bene. E mi bastano.
«Sia gentile, stenda il braccio, tiri su la manica. Il lavoro ce l’avrò, io. Quando finisco la scuola mi assumono, magari non qua, ma in qualche residenza un po’ più ordinaria mi prendono di certo. Se lei mi fa provare la pressione, se no, addio! Carriera stroncata».
«E vuoi passare la vita a faticare per uno stipendio da fame?».
«No, guardi che a noi ci mettono in regola, perché tutti lo sanno dove lavoriamo, semmai ti fanno fare qualche ora in più, ma sei in regola, con la paga scritta!».
Veramente è mio fratello che fatica, anzi, che faticherebbe, se lo riprendono dalla cassa integrazione. Lavora di là, dopo Domodossola. Lei di certo non lo sa, ma in zona è tutto fermo. Gli operai stanno tutti a casa. Dicevano che la crisi era finita, e continuavano a chiudere. Il capo di mio fratello ha portato via tutto, e si mangia i soldi in uno di quei posti con le palme. Forse lei non c’è mai stato. E mio fratello scarica al mercato quando capita per rimediare almeno qualcosa in più. Io lavoro al caldo, ho i miei begli orari fissi, il giorno di riposo. E quando sarò infermiera: ogni turno, un giorno e mezzo a casa, che ti puoi anche mettere a fare un poco di iniezioni qua e là nel vicinato. Mia mamma che non è neanche infermiera le ha sempre fatte, ma gratis… magari poi a Natale arrivava un panettone, magari nulla, ma lei la pensa così, una mano lava l’altra».
Questo qui mi sembra proprio scocciato, che faccia… che ha da guardare? Sembra che non abbia mai visto una infermiera in vita sua. Si vede che le infermiere non gli piacciono, gli fanno paura. L’abbiamo pure studiato a psicologia, tipo che quando hai fatto un’esperienza che ti ha traumatizzato poi hai l’imprinting… no, quello era quello delle paperotte. Insomma o ce l’ha con le infermiere, o sono io che ho qualcosa che non va… Controllo: no, non ho macchie, ieri non mi ero neanche accorta di una patacca sulla pettorina, roba da farsi cacciare via sui due piedi. Appena posso mi giro a guardare se non ho le calze smagliate, può darsi che mi sia impigliata in qualcosa. Speriamo di no, con quel che costano questi collant bianchi!
«Ok, adesso lasci il braccio morbido, stia rilassato-Senta è un po’ altina, ma lei l’ha sempre avuta così la pressione? Neanche le posso dire di riposarsi, lei se ne sta qua in vacanza… tanto, meglio che così come vuol stare?».
Domenica prendo i piccoli e vado con la corriera al lago, se ci fosse un poco di sole…, penso.
«Ma tu non hai mai pensato di fare dello spettacolo? Non ti piacerebbe andare in televisione?».
«Sì, col dottor House. Farei meglio di quelle bellocce che sono sono tutte finte. Senta, una volta ho visto una in un telefilm che neanche sapeva come si mette il laccio per fare un prelievo! E poi che gusto c’è a vedere i malati anche in televisione?».
Ce ne andiamo tutti sul lago, domenica, e se porto i panini rientriamo nel pomeriggio, quando ci pare, senza fare le corse. Poi dopo pranzo si riempie di gente, tutti con il loro bei vestitini, le loro pelliccette, i loro cagnolini al guinzaglio, e noi allora ce ne andiamo a camminare su qualche bel sentiero che va su sulla montagna. Purché Ale guarisca dal raffreddore.
«Bene, la saluto, grazie, a domani».
«Aspetta. Ma non pensi che anche la fortuna può cambiare?».
«Beh! Forse, certo, mica va sempre bene, ma speriamo di andare avanti. Non tutti sono fortunati. La mia sorella più grande aveva perso la camera in collegio, a Milano, perché avevano tolto le borse di studio. La sua amica ha smesso l’università, e ora sta senza lavoro da due anni. Invece a lei è andata alla grande, ha trovato una signora anziana che le dà una stanza e vuole solo i lavori di casa e la spesa. E così lei studia ancora, e si laurea fra un anno. Speriamo che campi ancora un po’ sta vecchia.. È noiosa, ma sa gli anziani… oh, mi scusi!».
«Abbiamo già tante donne occhialute, come la Gaggini… neanche sembrano donne. La gioventù è breve, una bella ragazza non dovrebbe sprecarla».
Come faccio a dirgli che io vorrei diventare come la Gaggini? Uguale no, forse, è troppo forte. Ma magari un poco come lei? Che c’entrano gli occhiali, lei è brava. E sa sempre le parole giuste per la gente. Con noi è precisa, non le sfugge niente, ma ha ragione, solo così impariamo. Devo dirle che sto tipo mi sembra tanto agitato, a un certo punto, quando parlavo di mio fratello è diventato rosso, sudava.
Adesso però devo andare davvero, mica mi pagano per fare conversazione con i vecchietti. Ho ancora cinque pressioni, e poi il carrello.
Si vede che da questo non ci va veramente mai nessuno, mi sa che la moglie e i figli lo hanno mollato. Chissà poi se si è sposato, magari non se l’è preso nessuna, ha l’aria così nervosa, sembra che si sia mangiato un videoregistratore, ripete le cose come se non ascoltasse. Se me ne vado mi sa che continua a parlare da solo.
Ha detto Gianni che era uno famoso, parecchio importante in politica. Ma mica mi ricordo. Doveva essere qualche anno fa. Ma non qui, di là da noi in Italia. Di là dove stiamo noi, anche se poi per lavorare si prende la corriera, e si passa il confine.
Io non ci credo, non mi pare uno che si interessa di politica. Se no certe cose dovrebbe saperle bene, almeno penso.
Ancora il vecchio
Non era per niente brutta, invece. Un poco rustica, almeno mi sono distratto un poco.
Tutto quello che è successo dopo non lo ricordo nemmeno, come fosse capitato a un altro.
Non ho mai permesso a quelle gracchianti arpie di vedermi rassegnato. Corvi neri, virago sgraziate, intellettuali vomitevoli, magistrati inacidite. Neppure femmine, ma racchie.
Fosse stato per loro anche il mio ricovero non sarebbe bastato, solo quel pesce in barile o galantuomo di presidente è riuscito a garantirmi. Abbiamo trovato una soluzione. Non ho abiurato, ma sono uscito di scena, non mi hanno sbattuto in galera, ma mi hanno sgombrato.
Mi hanno incastrato su questioni di letto, come se le ragazze non fossero beneficate a sufficienza, come se non l’avrebbero fatto gratis con chiunque altro.
Poi è calata la scena, e mi sono ritrovato qua.
È stato prima per caso, alla sprovvista. Quando nessuno mi attaccava, quando nuovi scandalucci, nuovi corride fra dilettanti, nuovi mediocri attori avevano preso la scena. Loro che non sanno riempirla la scena, stretti nell’angolo, infimi come galline strette sul bordo del pollaio.
Non sapevo neppure cosa era: non mi era mai capitato. Quando le mie foto avevano attraversato le prime pagine di mezzo mondo, quando mi avevano stiracchiato in caricature impietose, quando i miei peccatucci erano stati pubblicati parola per parola ero solo arrabbiato. Neanche quando ho letto sui giornali quello che dicevano di me al telefono quelli a cui allungavo mucchi di soldi, neanche allora ho mai sentito quella sensazione.
Questa ragazza, chissà se ha un nome, uno qualunque di quei nomi che ti mettono gratis. Che ti regalano anche quei genitori che poi non ti regaleranno più nulla, che ti lasceranno andare a scuola da infermiera, con il tuo grembiule bianco e rigido di stiro, e le tue mani ruvide, e il tuo amor proprio più rigido del grembiule, e più ruvido delle mani.
È quando ha raccontato dei suoi pezzenti fratelli che mi sono sentito di nuovo male: come se sprofondassi, come rammolito nel pozzo del mio battito, giù per le vene, sbattuto da onde di calore violento.
Ancora sudo, e mi sono tolto la giacca da camera.
«Non risulta nulla dagli esami, tutto a posto, compatibilmente con l’età, sa, i suoi trascorsi, insomma non è in splendida forma, ma nulla di speciale».
Però io ho le caldane. Sì, le caldane.
È quando mi sono trovato solo, senza più rabbia e senza più fregole.
C’era uno spasimo che mi teneva su come un fil di ferro, c’era una tensione che mi spingeva sempre, prima.
Mi è passato fra le mani il destino di tanti che erano come il fratello, come la sorella di questo grembiule inamidato. Non me ne accorgevo allora, stavo nella mia corsa, girava tutto vorticosamente, e io salivo, salivo. Mi sono sempre battuto contro qualcosa, ho sempre strappato per me qualcosa. Io contro il resto del mondo. Salvo qualche vecchio amico ben remunerato, che tornava all’ovile dopo ogni tradimento al luccichio dei bonifici.
Metà erano così coglioni da stare contro di me, e metà così coglioni da bersi quello che gli rifilavo. Sono passato come un rapinatore, strappando consenso e maledizioni.
Ma è solo adesso che si è fermata la giostra che mi è venuto in mente che io ero il capo della giostra. Ero io il capo. Per difendermi certo, per tenere il coltello dalla parte del manico. Ero un masnadiero che si era messo dalla parte dell’ordine per salvarsi dagli sbirri, da ricercato a tutore dell’ordine. Ma ero comunque io il capo. Ero io che governavo la giostra.
Ogni tanto, almeno per zittirli promettevo, presentavo qualche compitino, ho fatto pure fare quelle belle confezioni regalo: due idee di qualche brillante consigliere, un taglietto, una mescolatina e un bel risparmio per le finanze.
Ma per lo più uscivo, o scappavo dal consiglio scrollandomi la noia delle troppe questioni in sospeso, braccato dall’urgenza, con i segugi alle calcagna.
Non ho mai avuto però allora questa sensazione, di sentirmi responsabile della baracca. Non era la mia impresa, ma era un’impresa. E io non l’ho fatta.
Settimana dopo settimana le cose si scomponevano in un caos in cui io stavo a galla quasi con più gusto, giusto per la sfida. E più le situazioni si incattivivano più io mi esibivo da domatore: rintuzzando le bizze, ammansendo, blandendo.
Ero io il capo della giostra e l’ho guardata girare all’impazzata, cercando di portare al sicuro il mio culo. Ma ero io il capo della giostra.
Ancora quel dannato caldo, ancora una vampata mi sprofonda in una fiacchezza affannata e umida.
Sto pensando, sto solo pensando e ricordando. Ma il mio corpo suda gli stessi pensieri, e un batticuore malato mi suona il basso ostinato, e mi condanna, anche quando io mi assolvo.
Mi condanna a un rossore volgare di bestia braccata, io che controllavo ogni mio capello.
Il potere io l’avevo, e l’ho piegato, l’ho ritorto come un vecchio arnese perché non mi infilzasse. L’ho ripiegato, ma se l’avessi innalzato mi avrebbe innalzato.
Io avrei potuto essere ricordato dalla sorella del grembiule inamidato, dipendeva da me mettere i soldi per le loro borse di studio, avrei potuto essere quello che apriva destini di benessere e ordine al fratello delle mani ruvide, e al suo imprenditore.
Il cavaliere che non fece l’impresa.
Non mi hanno fatto pentire di quello che ho fatto.
Ma di quello che a mia gloria e a loro bene avrei potuto fare.
Così mi ricorderanno.
Quello che ho fatto a breve e ridicola memoria. E al ricordo perenne l’omissione.
A mia calura, a mia vampa, a mio rossore. Quella sensazione.
A mia vergogna. Così si chiama questo calore, vergogna.