”Preciso e incandescente, Resoconto è un romanzo che allarga i confini della narrativa tracciando un affresco imperfetto, e per questo straordinariamente vero, della natura umana.
Un’insegnante di scrittura creativa a cui più persone raccontano o nell’ambito del suo corso o al di fuori, frammenti della propria vita, annota queste storie nel suo libro intitolato appunto Resoconto. A me sembra che la scrittrice sia a caccia di vita vera, che insegua questi racconti come farebbe una persona che si è smarrita nella letteratura allontanandosi troppo dalla realtà a caccia dell’ossigeno che si respira su questa terra. Il distacco dalla vita è percepito da lei come baratro e come ostacolo alla scrittura anche se questo aspetto non è mai chiaramente detto. L’autrice vorrebbe secondo me accorciare le distanze, avvicinare vita e letteratura. Non è però questo il tipo di testo che può riuscire a farlo, anche perchè il fatto stesso che tutti raccontino la propria vita alla scrittrice aprendosi senza fare difficoltà è di per sè irrealistico, in più l’autrice si perde in riflessioni molto interessanti ma sempre più astratte e astraenti cioè intellettuali. Comunque le storie sono tutte belle e interessanti e il libro è stilisticamente pregevole e raffinato. Certo, che dei dubbi su quel corso di scrittura creativa sono venuti anche a me. Intanto è fatto come una riunione degli alcolisti anonimi, con i partecipanti che devono raccontare tutti un fatto vero. Raccontare, non scrivere. Ma perchè un fatto vero? Non so, la mia impressione è che alcuni scrittori sentano la nostalgia della vita autentica come se scrivere rendesse tutto un po’ finto, coltivato in serra, artificioso. Per questo l’insegnante non insegna a uscire dal mondo ma a rientrarvi, e a gente che ancora tiene i due piedi nel mondo e avrebbe bisogno di liberare l’immaginazione e di imparare a fare altro.
Comunque la scrittura è molto bella, curata, alta. Verso la fine si ha la netta sensazione che la letteratura abbia accalappiato l’autrice e non la molli più, addio vita vera.
La trama del romanzo
In un’estate greca calda e bruciante, una scrittrice inglese arriva ad Atene per tenere un seminario. Il suo sarà un soggiorno denso di incontri e lunghe conversazioni: con il ricco imprenditore conosciuto sull’aereo che la invita in barca; con l’amico che ha scoperto a proprie spese come realizzare i sogni possa trasformarsi in una condanna; con una donna per la quale la bellezza ha finito col diventare un ostacolo in amore. Digressioni, piccoli camei, dialoghi che aprono altrettanti squarci sulla vita della protagonista senza quasi parlare di lei.
Come inizia
I.
Prima del volo ero invitata a pranzo in un club londinese da un miliardario di idee progressiste, o così mi avevano assicurato. Con la camicia aperta sul collo, mi ha parlato del nuovo software che stava sviluppando, in grado di aiutare le aziende a individuare i dipendenti piú propensi a derubarle e tradirle in futuro. Avremmo dovuto discutere di una rivista letteraria che aveva intenzione di fondare: purtroppo me ne sono dovuta andare prima che si arrivasse a toccare l’argomento. Ha insistito per pagarmi un taxi per l’aeroporto, cosa senz’altro opportuna visto che ero in ritardo e avevo un bagaglio pesante.
Il miliardario si era preso la briga di farmi un resoconto della sua vita, che iniziava in sordina e finiva – ovviamente – con l’uomo disinvolto e pieno di soldi seduto a tavola di fronte a me. Io mi chiedevo se non volesse piuttosto diventare uno scrittore, con la rivista letteraria come entratura. Sono in tanti a voler fare lo scrittore: nulla vieta di pensare che ci si possa comprare un biglietto d’ingresso nel mestiere. Quell’uomo si era comprato ingressi, e uscite, da un gran numero di cose. Accennò a un programma a cui stava lavorando, per eliminare gli avvocati dalla vita privata della gente. Stava anche sviluppando un progetto di centrale eolica galleggiante grande abbastanza per accogliere l’intera comunità di persone necessaria a farla funzionare: la gigantesca piattaforma poteva essere collocata in mare aperto, così da rimuovere le antiestetiche turbine dalla fascia costiera dove sperava di concretizzare la sua proposta e dove, guarda caso, aveva una proprietà. La domenica suonava la batteria in un gruppo rock, solo per divertirsi. Aspettava l’undicesimo figlio, cosa meno tremenda di quanto sembri dal momento che lui e la moglie tempo addietro avevano adottato quattro gemelli in Guatemala. Stentavo ad assimilare tutto ciò che mi veniva raccontato. Le cameriere continuavano a servirci, ostriche, salse, vini pregiati. Lui si distraeva facilmente, come un bambino che ha ricevuto troppi regali di Natale. Ma quando mi ha messa sul taxi ha detto, si diverta ad Atene, sebbene io non ricordassi di avergli detto che era là che stavo andando.
Sulla pista di Heathrow l’aereo al completo attendeva silenziosamente di essere condotto nell’aria. Una hostess, in piedi nel corridoio, mimava le sue indicazioni seguendo la voce registrata. Noi ce ne stavamo ai nostri posti con le cinture allacciate, una distesa di estranei, in un silenzio simile al silenzio di una congregazione durante il rito liturgico. Lei ci ha mostrato il giubbotto salvagente gonfiabile, le uscite di emergenza, la maschera di ossigeno che penzolava da una spanna di tubo trasparente. Ci ha illustrato le possibilità di morte o catastrofe allo stesso modo in cui il prete illustra ai fedeli i dettagli di purgatorio e inferno; e nessuno ha tagliato la corda finché era in tempo. Al contrario, tutti ascoltavamo, magari con un orecchio solo, pensando ad altro, come se con quell’insieme di formalità e funesti presagi fosse calato su di noi uno strano torpore. Quando la voce registrata è passata alla parte relativa alle maschere di ossigeno, il silenzio non si è interrotto: nessuno ha protestato o espresso il proprio disaccordo con la disposizione di occuparsi degli altri solo dopo essersi occupati di sé. E della cui fondatezza io dubitavo.
Alla mia sinistra era stravaccato un ragazzo bruno i cui grassi pollici correvano sullo schermo di una console per videogiochi. Dall’altro lato sedeva un uomo piccolo con un completo di lino chiaro, molto abbronzato, con sottili chiome argentee. Fuori, il turgido pomeriggio estivo incombeva sulla pista; piccoli veicoli da aeroporto si destreggiavano sulle superfici piatte, correndo svoltando e girando in cerchio come giocattoli, e in lontananza il nastro argenteo dell’autostrada si srotolava e scintillava come un ruscello spezzando la monotonia dei campi. L’aereo ha cominciato a muoversi, avanzando con tale pesantezza che il paesaggio pareva scongelarsi e scorrere al di là dei finestrini, dapprima lentamente e poi più in fretta, finché ci fu la sensazione di un sollevarsi faticoso, un po’ esitante, mentre il velivolo si staccava da terra. C’è stato un momento in cui pareva impossibile che potesse farcela. Ma infine ce l’ha fatta.
L’uomo alla mia destra si è girato e mi ha chiesto per quale ragione andavo ad Atene. Ho risposto che andavo per lavoro.
– Spero che starà vicino al mare. Ad Atene farà molto caldo.
Ho detto che probabilmente non sarebbe stato così e lui ha alzato le sopracciglia, che erano argentee e gli crescevano inaspettatamente folte e selvagge sulla fronte, come erbe tra le rocce. Proprio quella stranezza mi aveva indotto a rispondergli. A volte ciò che è inaspettato appare come un segno del destino
.– Il caldo è cominciato presto quest’anno, – ha detto. – Di solito in questa stagione si sta bene. Può essere molto sgradevole se non si è abituati.
Nella cabina sussultante le luci si accendevano a intermittenza; si udivano i tonfi di porte aperte e richiuse, e un tremendo sferragliare, e gente che si stiracchiava, parlava, si alzava in piedi. Una voce maschile parlava in modo incomprensibile all’interfono; c’era odore di caffè e cibo; le hostess si muovevano con efficienza lungo lo stretto corridoio moquettato e al loro passaggio si udiva il fruscio delle calze di nylon. Il mio vicino ha detto che faceva quel viaggio un paio di volte al mese. In passato aveva un appartamento a Londra, a Mayfair, – Ma adesso, – ha detto con una smorfia pratica delle labbra, – preferisco stare al Dorchester.
Parlava un inglese raffinato e formale che sembrava piuttosto artificioso, come se a un certo punto gli fosse stato accuratamente applicato addosso con un pennello, una sorta di vernice. Gli ho chiesto quale fosse la sua nazionalità.
– Mi hanno mandato in una scuola inglese a sette anni. Si potrebbe dire che ho i manierismi di un inglese ma il cuore di un greco. A quanto sento, – ha aggiunto, – sarebbe molto peggio il contrario.
I suoi genitori erano entrambi greci, ha continuato, ma a un certo punto avevano trasferito l’intera famiglia – loro due, quattro figli, i loro genitori e un assortimento di zii e zie – a Londra e avevano adottato lo stile di vita delle classi alte inglesi, mettendo in collegio i quattro ragazzi e organizzando una casa che era diventata la sede di vantaggiosi contatti sociali, la cui soglia veniva varcata da un flusso inesauribile di aristocratici, politici e uomini d’affari. Alla mia domanda su come si fossero guadagnati l’accesso a quell’ambiente straniero, ha scrollato le spalle.
– Il denaro è un paese a sé, – ha detto. – I miei erano armatori; l’azienda di famiglia era un’impresa internazionale, sebbene fino a quel momento avessimo vissuto sulla piccola isola dove entrambi erano nati, un’isola di cui senza dubbio non ha mai sentito parlare, malgrado la sua prolissità ad alcune ben note località turistiche.
– Prossimità, – ho detto io. – Immagino intendesse prossimità.
– Mi perdoni, – ha detto lui. – Intendevo, ovviamente, prossimità.
Ma come tutte le persone ricche, ha ripreso, i suoi genitori avevano da lungo tempo travalicato le proprie origini passando in una sfera priva di confini tra altre persone ricche e importanti. Avevano conservato, naturalmente, una grande casa sull’isola, che era rimasta la dimora famigliare finché i figli erano piccoli, ma al momento di mandarli a scuola si erano trasferiti in Inghilterra, dove avevano molti contatti, tra cui alcuni, ha detto con un certo orgoglio, che li portavano perlomeno nelle vicinanze di Buckingham Palace.
Erano sempre stati la famiglia più illustre dell’isola: il matrimonio dei genitori aveva unito due rami dell’aristocrazia locale e, ciò che più contava, consolidato due dinastie di armatori. Ma la cultura del luogo era insolita in quanto era matriarcale. Erano le donne, non gli uomini, a detenere il potere, il patrimonio non passava dal padre al figlio bensì dalla madre alla figlia. Il che, ha detto il mio vicino, creava tensioni famigliari opposte a quelle che lui aveva incontrato arrivando in Inghilterra. Nell’universo della sua infanzia, un figlio maschio costituiva di per sé una delusione, e lui, ultimo in un susseguirsi di tali delusioni, era stato cresciuto con una particolare ambivalenza in quanto sua madre amava pensare che fosse una bambina. Gli pettinavano i capelli in lunghi boccoli, gli mettevano gonnelline e lo chiamavano con il nome femminile che i genitori avevano scelto per lui nella speranza di avere finalmente una erede. Quell’insolita situazione, ha detto il mio vicino, aveva ragioni antiche. Fin dai primordi della sua storia, l’economia dell’isola aveva ruotato intorno all’estrazione delle spugne dai fondali marini, e i giovani uomini della comunità avevano imparato a immergersi in profondità in mare aperto. Ma era un mestiere pericoloso, e perciò con un’aspettativa di vita molto bassa. In tale situazione, a causa della frequente perdita dei mariti, le donne avevano assunto il controllo dei loro affari e, quel che più conta, lo avevano trasmesso alle figlie.
– È difficile, – ha continuato, – immaginare il mondo nell’epoca d’oro dei miei genitori, per certi versi così piacevole e per altri così impietosa. Ad esempio, i miei ebbero un quinto figlio, maschio anche lui, che subì una lesione cerebrale alla nascita, e quando decisero di trasferirsi lo lasciarono semplicemente sull’isola, affidandolo a una serie di bambinaie le cui credenziali, all’epoca e da quella distanza, nessuno si preoccupava di accertare, temo.
Ci viveva tuttora, un uomo che invecchiava con la mente di un bambino, incapace, come ovvio, di dire la sua su quella storia. Nel frattempo il mio vicino e gli altri suoi fratelli entravano nelle gelide acque delle scuole private inglesi, imparando a pensare e a parlare come ragazzi inglesi. I boccoli del mio vicino erano stati tagliati, con suo grande sollievo, e per la prima volta nella vita aveva sperimentato la crudeltà, e con essa alcune forme sconosciute di infelicità: la solitudine, la nostalgia di casa, la mancanza della madre e del padre. Ha frugato nel taschino della giacca e ha tirato fuori un morbido portafogli di cuoio da cui ha estratto una gualcita fotografia in bianco e nero dei genitori: un uomo rigido e impettito in un’attillata redingote abbottonata fino al collo, con i capelli divisi nel mezzo, folti sopraccigli diritti e mustacchi a manubrio talmente neri da conferirgli un’espressione di straordinaria ferocia; e accanto a lui una donna con un viso austero, tondo, duro e imperscrutabile come una moneta. La fotografia era stata scattata alla fine degli anni Trenta, ha detto il mio vicino, prima della sua nascita. Un matrimonio già allora infelice: la ferocia del padre e l’intransigenza della madre non erano soltanto di facciata. Vigeva tra loro uno spaventoso conflitto di volontà, e nessuno era mai riuscito a separare i contendenti; tranne, per un breve periodo, quando erano morti. Ma quella storia, ha detto con un sorriso vago, gliel’avrebbe raccontata un’altra volta.
Nel frattempo la hostess era avanzata a passo lento lungo il corridoio, spingendo un carrello metallico dal quale distribuiva vassoi di plastica con cibo e bevande. Adesso aveva raggiunto la nostra fila, così ho passato un vassoio al ragazzo alla mia sinistra, che senza aprir bocca ha sollevato la console con entrambe le mani in modo che potessi posarlo sul tavolino abbassato davanti a lui. Io e il mio vicino di destra abbiamo tolto i coperchi dei nostri vassoi, in modo che il tè potesse essere versato nelle tazze di plastica bianca. Lui si è messo a farmi domande, come se gli avessero insegnato a ricordarsi di farlo, e io mi sono chiesta chi o cosa gli avesse impartito tale lezione, che alcune persone non imparano mai. Gli ho detto che vivevo a Londra, essendomi trasferita di recente dalla casa in campagna dove avevo vissuto tre anni sola con i miei figli, e dove nei sette anni precedenti avevamo vissuto insieme con il loro padre. Era stata, in altre parole, la casa della nostra famiglia, e io ero rimasta lì a guardare mentre diventava la tomba di qualcosa che non sapevo più se definire realtà o illusione.
È seguita una pausa durante la quale abbiamo bevuto il tè e mangiato i pasticcini morbidi serviti insieme. Fuori dai finestrini pendeva una semioscurità purpurea. I motori rombavano con ritmo regolare. Anche l’interno del velivolo si era fatto più buio, solcato dai raggi delle lampade a soffitto. Era difficile studiare la faccia del mio vicino dal sedile adiacente, ma nell’oscurità modulata dalla luce era diventato un paesaggio di picchi e crepacci, al cui centro si levava lo straordinario uncino del naso disegnando ai lati gravine d’ombra così profonde che stentavo a vedere gli occhi. Le labbra erano sottili, la bocca grande e socchiusa, la zona fra il naso e il labbro superiore lunga e carnosa, e lui la toccava spesso, così anche quando sorrideva i denti rimanevano nascosti. Non potevo spiegargli, ho detto in risposta alla sua domanda, per quali ragioni il mio matrimonio era finito: tra le altre cose un matrimonio è un sistema di fiducia, una storia, e sebbene si manifesti in cose abbastanza reali, l’impulso che lo guida rimane fondamentalmente misterioso. Di reale, alla fine, c’era la perdita della casa, diventata l’ubicazione geografica di cose ormai mancanti e che simboleggiava, probabilmente, la speranza che prima o poi potessero tornare. Cambiare casa significa ammettere, in un certo senso, che si è smesso di aspettare; che non si è piú reperibili al solito numero, al solito indirizzo. Il mio figlio più piccolo, gli ho detto, ha la fastidiosissima abitudine di andarsene subito dal posto in cui gli hai dato appuntamento, se non sei lí quando lui arriva. Si mette a cercarti, sempre più frustrato e smarrito. Non ti trovavo! grida poi, immancabilmente risentito. Ma l’unica speranza di trovare chicchessia è restare dove sei, nel luogo stabilito. È solo questione di saper aspettare.
– Spesso ho l’impressione che il mio primo matrimonio, – ha risposto il mio vicino dopo un momento, – sia finito per ragioni stupidissime. Da ragazzo mi piaceva guardare i carri di fieno al ritorno dai campi, tanto carichi che sembrava un miracolo che non si rovesciassero. Sobbalzavano e ondeggiavano in modo spaventoso, su e giù, a destra e a sinistra, ma per quanto incredibile non si ribaltavano mai. E poi un giorno l’ho visto, un carro capovolto, il fieno sparso dappertutto, e la gente che ci correva intorno urlando. Ho chiesto cosa fosse accaduto e l’uomo mi ha detto che avevano sbattuto in un dosso della strada. Non l’ho mai dimenticato, sembrava inevitabile e tuttavia molto stupido. E con la mia prima moglie è stato lo stesso, abbiamo sbattuto in un dosso della strada, e siamo andati a ribaltoni.
Era stato, se ne rendeva conto adesso, un rapporto felice, il più armonioso della sua vita. Lui e la moglie si erano conosciuti e fidanzati giovanissimi; non avevano mai litigato, fino al litigio in cui tutto tra loro era andato in pezzi. Avevano due figli, e avevano accumulato una ricchezza considerevole: possedevano una villa fuori Atene, un appartamento a Londra, una casa a Ginevra; si godevano vacanze a cavallo e sugli sci e un cabinato di dodici metri ancorato nelle acque dell’Egeo. Erano ancora entrambi abbastanza giovani per credere che quel principio di crescita fosse esponenziale; che la vita non potesse che espandersi, abbattendo i molteplici muri tra i quali si cerca di imbrigliarla. Dopo il litigio, restio ad andarsene definitivamente di casa, il mio vicino si era trasferito nel suo cabinato. Era estate ed era una magnifica imbarcazione, poteva nuotare, pescare e ricevere amici. Per qualche settimana aveva vissuto in uno stato di pura illusione che in realtà era stordimento, simile allo stordimento dopo un infortunio, prima che il dolore ti aggredisca, facendosi strada a poco a poco ma inesorabilmente nella fitta nebbia analgesica. Il tempo era cambiato, la barca era diventata fredda e scomoda. Il padre di sua moglie lo aveva convocato e gli aveva chiesto di rinunciare a qualunque pretesa sul loro patrimonio comune, e lui aveva accettato. Riteneva di potersi permettere di essere generoso, che avrebbe riavuto tutto. Aveva trentasei anni e sentiva ancora nelle vene la forza di una crescita esponenziale, della vita che lotta per abbattere i muri tra i quali è stata imbrigliata. Poteva riavere tutto, con la differenza che stavolta avrebbe voluto ciò che già aveva.
– Ma ho scoperto, – ha detto, pizzicandosi il carnoso labbro superiore, – che è più difficile di quanto sembri.
Le cose, naturalmente, non erano andate come lui aveva immaginato. Il dosso non aveva solo scombussolato il suo matrimonio, l’aveva costretto a svoltare su un’altra strada, rivelatasi una deviazione lunga e senza meta, una strada sulla quale in realtà non era accaduto nulla di importante e che a volte gli sembrava di stare percorrendo tuttora. Come quando un punto allentato fa sfilacciare l’intero indumento, era difficile ricucire tale catena di eventi al flusso originario. Eventi che peraltro avevano occupato gran parte della sua vita adulta. Il suo primo matrimonio era finito da quasi trent’anni, e più quella vita si allontanava nel tempo, più gli sembrava reale. Anzi no, non propriamente reale, ha precisato, ciò che era accaduto da allora era stato abbastanza reale. La parola che stava cercando era autentica: nella sua vita successiva nulla era stato autentico quanto il suo primo matrimonio. E più invecchiava, più lo vedeva come una specie di casa, un luogo al quale desiderava tornare. Anche se quando ci pensava con onestà, e ancor più quando parlava con la prima moglie – cosa che ormai accadeva di rado –, sperimentava di nuovo l’antico senso di costrizione. Ciononostante, adesso gli sembrava di aver vissuto quella vita in modo quasi inconsapevole, di essercisi smarrito, immerso, come capita di immergersi in un libro, credendo in quanto vi accade e vivendo interamente attraverso e in compagnia dei suoi personaggi. Da allora non era più stato capace di immergersi, di credere a quel modo. Chissà, forse proprio l’aver perduto la capacità di credere alimentava il desiderio per la vecchia vita. Qualunque cosa fosse, lui e sua moglie avevano costruito cose che erano prosperate, insieme avevano accresciuto la somma di ciò che erano e di ciò che possedevano; la vita aveva sorriso loro, li aveva trattati con generosità, e proprio quello, adesso lo capiva, l’aveva indotto a distruggere tutto, a distruggere con una leggerezza che adesso gli pareva incredibile, era convinto infatti che avrebbe avuto di più.
Più cosa? ho chiesto io.
– Più vita, – ha detto, aprendo le mani a coppa. – E più affetto, – ha aggiunto dopo un istante. – Volevo più affetto.
Ha rimesso nel portafogli la foto dei genitori. Adesso era buio fuori dai finestrini. I passeggeri leggevano, dormivano, chiacchieravano. Un uomo con lunghi calzoncini sformati andava su e giù nel corridoio cullandosi un bebè sulla spalla. L’aereo sembrava fermo, quasi immobile; c’era così poca interfaccia fra interno ed esterno, così poco attrito, che risultava difficile credere di essere in viaggio. La luce elettrica, sullo sfondo dell’assoluta tenebra esterna, rendeva le persone molto materiali e concrete, i dettagli immediati, impersonali, infiniti. Ogni volta che l’uomo col bambino in braccio passava, vedevo il reticolo di gualciture dei calzoncini, le braccia lentigginose coperte di una rude peluria fulva, i pallidi rotoli di pelle in vita dove la maglietta si sollevava e i teneri piedi grinzosi del bimbo contro la sua spalla, la piccola schiena inarcata, la testolina morbida con il primo germogliare di capelli.
Il mio vicino si è girato di nuovo verso di me e mi ha chiesto quale lavoro mi portava ad Atene. Per la seconda volta ho percepito il consapevole sforzo della sua indagine, come se si fosse allenato al recupero di oggetti che sfuggivano alla sua presa. Ho ripensato al modo in cui entrambi i miei figli, da piccoli, buttavano deliberatamente gli oggetti dal seggiolone allo scopo di osservarli mentre cadevano sul pavimento, un’attività tanto più piacevole ai loro occhi quanto più impreviste erano le conseguenze. Fissavano l’oggetto caduto – un biscotto sbocconcellato, o una pallina di plastica – e si agitavano sempre di più vedendo che non riusciva a tornare. Alla fine si mettevano a strillare, di solito ottenendo che l’oggetto caduto gli venisse riportato. Io mi stupivo ogni volta che la loro reazione a tale catena di eventi fosse quella di ripeterli: appena rientravano in possesso dell’oggetto lo buttavano di nuovo, allungando il collo per osservarlo cadere. Non diminuivano né il piacere iniziale, né la disperazione successiva. Mi aspettavo che a un certo punto capissero che non era il caso di disperarsi e se lo risparmiassero, invece no. La memoria della sofferenza non incideva su ciò che sceglievano di fare: al contrario, li obbligava a reiterarla, perché la sofferenza era l’incantesimo che faceva tornare l’oggetto e consentiva di rivivere il piacere di lanciarlo di nuovo. Se fin dalla prima volta avessi fatto a meno di riportarglielo, immagino che avrebbero imparato qualcosa di molto diverso, anche se non so cosa.
Gli ho detto che ero una scrittrice e stavo andando ad Atene un paio di giorni per tenere un corso in una scuola estiva. Il corso s’intitolava Come scrivere, e dal momento che tra i docenti c’erano vari scrittori e non c’è un solo modo di scrivere, con ogni probabilità avremmo dato agli studenti indicazioni contraddittorie. Mi avevano detto che erano per lo più greci, anche se per le finalità di quel corso avrebbero dovuto scrivere in inglese. Qualcuno era scettico in proposito, ma io non vedevo cosa ci fosse di sbagliato. Potevano scrivere nella lingua che volevano, per me non faceva differenza. A volte, ho detto, quel che si perde in transizione lo si guadagna in naturalezza. Insegnare era un modo per guadagnarsi da vivere, ho continuato. Ma avevo un paio di amici ad Atene, e forse li avrei visti.
Una scrittrice, ha detto il mio vicino, inclinando il capo in un gesto che poteva indicare rispetto per la professione quanto un’assoluta ignoranza in merito. Avevo notato, quando mi ero seduta accanto a lui, che stava leggendo un Wilbur Smith logoro: quello, ha tenuto a dirmi, non era rappresentativo dei suoi gusti in fatto di libri, anche se riconosceva di avere scarso discernimento in campo letterario. Gli interessavano i libri d’informazione, sui fatti e sull’interpretazione dei fatti, e in quel campo riteneva di non essere uno sprovveduto. Era in grado di riconoscere una bella prosa; uno dei suoi autori preferiti, ad esempio, era John Julius Norwich. Ma di letteratura, doveva ammetterlo, non se ne intendeva. Ha preso il Wilbur Smith dalla tasca del sedile, dove tuttora si trovava, e l’ha ficcato nella ventiquattrore ai suoi piedi in modo da sottrarlo alla vista, come se volesse disconoscerlo, o forse pensando che me ne sarei dimenticata. Io in realtà non avevo più alcun interesse per la letteratura come forma di snobismo o addirittura di autodefinizione; non avevo alcun desiderio di dimostrare che un libro era migliore di un altro, anzi, ero sempre più restia a parlare dei libri che mi capitava di apprezzare. Ciò che per esperienza personale sapevo essere vero mi sembrava ormai avulso dal processo di persuasione degli altri. Non volevo, non più, persuadere nessuno di niente.
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L’autrice
Rachel Cusk è una scrittrice di origini canadesi. Considerata una delle maggiori autrici contemporanee, dal 1974 vive e lavora tra il Norfolk e Londra. I suoi racconti e romanzi si sono aggiudicati diversi premi, tra cui il Somerset Maugham Award (1997), il Man Booker Prize (2005) e lo Scotiabank Giller Prize. In Italia sono apparsi Le variazioni Bradshaw (Mondadori, 2010), Resoconto(Einaudi, 2018), primo volume dell’Outline Trilogy e Transiti (Einaudi 2019).
- Resoconto
- Rachel Cusk
- Traduttore: Anna Nadotti
- Editore: Einaudi
- Collana: Einaudi. Stile libero big
- Anno edizione: 2018
- In commercio dal: 11 settembre 2018
- Pagine: 188 p., Brossura
- EAN: 9788806236564
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