Il grottesco uno specchio deformante della realtà.
RIDICOLI E INQUIETANTI: IL GROTTESCO NELLA LETTERATURA EUROPEA
- prima parte
Redazione Inchiostronero
Dal riso all’angoscia, il grottesco ha attraversato la letteratura europea come uno specchio deformante della realtà. Da Rabelais a Kafka, da Cervantes a Beckett, scopriamo come il non senso sia diventato il modo più efficace per raccontare il mondo
Perché il grottesco ci affascina?
Immaginate di svegliarvi una mattina e scoprire di esservi trasformati in un enorme scarafaggio. Oppure di vedere il vostro naso staccarsi dal viso e, con assoluta naturalezza, iniziare a vivere una sua indipendente esistenza. O ancora, di accorgervi che la vostra stessa identità è in balìa di una forza esterna, come se foste personaggi di una storia che non avete scritto voi.
Non è solo fantasia letteraria. È il grottesco che si insinua nella percezione della realtà, sgretolando la logica e lasciando il posto a un mondo in cui l’assurdo diventa norma. Ciò che dovrebbe suscitare orrore fa ridere, e ciò che dovrebbe essere comico diventa inquietante. Si ride, ma con un senso di disagio. È questo il fascino paradossale del grottesco: ci porta a guardare il mondo attraverso una lente deformante, che però rivela più verità di quanto crediamo.
Ma perché ci attrae così tanto? Forse perché il grottesco riflette un senso di instabilità profonda, un’angoscia nascosta che accompagna l’essere umano da sempre.
Pensiamo al Carnevale medievale, un momento dell’anno in cui le regole venivano sospese e l’ordine sociale si capovolgeva: i servi diventavano padroni, i folli indossavano la corona, e le autorità venivano ridicolizzate senza paura di ritorsioni. Era il regno dell’eccesso, della deformazione, della parodia sfrenata. In quei giorni di festa, la realtà si trasformava in una farsa collettiva, un ribaltamento temporaneo che serviva non solo a divertire, ma anche a esorcizzare le tensioni sociali. Rabelais, con il suo Gargantua e Pantagruel, raccoglie lo spirito di questa tradizione e lo porta nella letteratura: i suoi giganti, con il loro linguaggio irriverente e i loro appetiti smisurati, incarnano il lato più viscerale e liberatorio del grottesco, dove il corpo e il linguaggio si espandono oltre ogni limite.
Ma il grottesco non è solo una risata sguaiata. Nel Barocco, ad esempio, assume un carattere più inquieto e instabile. L’arte dell’epoca è dominata da figure contorte, gesti estremi, composizioni che sembrano sfidare la legge di gravità. I corpi si piegano in pose esasperate, gli spazi si dilatano fino a sembrare irreali. È un’estetica del disequilibrio, dove il movimento e l’eccesso cercano disperatamente di afferrare una stabilità che continua a sfuggire. Nei dipinti di Arcimboldo, i volti diventano composizioni di frutta e verdura, un’illusione ottica che gioca con la percezione e la trasforma in enigma. Nei palazzi barocchi, le decorazioni si moltiplicano fino a soffocare lo sguardo, dando la sensazione che la realtà sia sul punto di esplodere in un vortice di forme.
Il grottesco, insomma, nasce sempre dal contrasto: tra l’ordine e il caos, tra la risata e il turbamento, tra il comico e il tragico. Il Carnevale e il Barocco, seppur diversissimi, condividono questa tensione. Nel primo, la deformazione è giocosa e liberatoria; nel secondo, è ossessiva e quasi claustrofobica. Ma entrambi ci dicono che il mondo, per quanto cerchiamo di renderlo razionale, è fatto di eccessi, sproporzioni, illusioni.
Oggi, più che mai, il grottesco sembra diventato la chiave di lettura della nostra epoca. Viviamo in un tempo in cui la realtà supera la finzione in termini di assurdità: leader politici che parlano come caricature di sé stessi, scandali che sembrano usciti da un romanzo di Gogol’, notizie che sfidano ogni logica. Il mondo assomiglia sempre di più a una commedia dell’assurdo, e noi siamo i suoi protagonisti involontari.
Ed è proprio per questo che il grottesco continua a parlarci con forza. Perché ci permette di riconoscere il caos che ci circonda, di esorcizzare le paure, di trasformare l’angoscia in una risata amara. Ma da dove nasce questa modalità espressiva? Facciamo un viaggio attraverso la letteratura europea per scoprirlo.
Le radici del grottesco: da Rabelais a Cervantes
Il grottesco affonda le sue radici nel Rinascimento, un’epoca di grande fermento culturale in cui la realtà veniva osservata e rappresentata con un nuovo spirito critico. Se da un lato il pensiero umanistico celebrava la razionalità e la centralità dell’uomo, dall’altro esisteva una letteratura che si muoveva in senso opposto, deformando la realtà per metterne in luce gli aspetti più eccessivi, contraddittori e ridicoli. Il grottesco nasce proprio in questo spazio di tensione: tra la ricerca dell’ordine e il caos della vita, tra l’armonia ideale e la carne che si dilata, si trasforma, si ribella.
Rabelais e il trionfo dell’eccesso
François Rabelais è uno dei primi grandi maestri del grottesco. Con il suo Gargantua e Pantagruel (1532-1564), crea un universo sfrenato, popolato da giganti voraci, dialoghi osceni, esagerazioni comiche e un linguaggio che si fa materia, gioco, corpo. I suoi protagonisti, Gargantua e il figlio Pantagruel, sono creature smisurate, dalle dimensioni sovrumane e dagli appetiti insaziabili, che attraversano un mondo altrettanto sproporzionato e assurdo.
“Meglio è di risa che di pianti scrivere, Ché rider soprattutto è cosa umana.” (Gargantua e Pantagruel)
Il riso, per Rabelais, non è solo uno strumento di divertimento, ma una forma di conoscenza: attraverso la parodia, lo sberleffo e l’eccesso, il mondo viene smontato e rivelato per quello che è. In un’epoca segnata da rigide gerarchie e poteri assoluti, la sua scrittura ribalta ogni certezza: re, sacerdoti, dotti e uomini d’arme diventano figure caricaturali, ridotte alla loro fisicità più sfrenata. Il corpo, con le sue necessità primarie (mangiare, bere, defecare), domina il racconto, svelando la materialità dell’essere umano e la sua natura istintuale. È un mondo in cui il sublime e il triviale si mescolano senza soluzione di continuità, dando vita a una farsa carnascialesca che smaschera l’ipocrisia della società.
Il legame con il Carnevale medievale, in cui le gerarchie venivano temporaneamente sovvertite, è evidente: come nella festa popolare, anche in Rabelais tutto è esagerato, ribaltato, deformato, ma sempre con una vitalità prorompente. Il suo grottesco è ancora giocoso, esplosivo, portatore di un’energia quasi liberatoria. Ma nel passaggio dal Cinquecento al Seicento, qualcosa cambia: il grottesco inizia a farsi più cupo, più inquietante, come vediamo nell’opera di Miguel de Cervantes.
Don Chisciotte: il grottesco della disillusione
Con Don Chisciotte della Mancia (1605-1615), Cervantes porta il grottesco su un nuovo livello, più ambiguo e complesso. Il protagonista non è più un gigante che ride e si abbuffa, ma un uomo magro, malinconico, che ha perso il contatto con la realtà e vive immerso in un’illusione. Don Chisciotte è un cavaliere senza cavalleria, un eroe fuori dal tempo che si muove in un mondo che non crede più nei suoi ideali. Il contrasto tra la sua visione epica e la mediocrità del mondo reale crea un grottesco che oscilla tra il comico e il tragico.
Il momento più iconico del romanzo – lo scontro con i mulini a vento, scambiati per giganti – è il simbolo perfetto di questa tensione. Don Chisciotte lotta contro un nemico inesistente, trasformando la sua stessa follia in un gesto eroico e patetico al tempo stesso.
“La libertà, Sancho, è uno dei doni più preziosi che ai mortali abbiano concesso i cieli.” (Don Chisciotte)
Ma se Don Chisciotte è la visione deformata della nobiltà, il suo scudiero Sancho Panza è l’elemento che lo riporta alla realtà. Qui il grottesco non nasce più dall’esagerazione sfrenata, ma dallo scarto tra illusione e verità, tra il sogno di un mondo ideale e la crudezza del quotidiano. Il risultato è una commedia amara, in cui si ride delle follie del protagonista, ma senza mai poterlo deridere fino in fondo.
Se in Rabelais il grottesco è un’esplosione di vitalità, in Cervantes diventa il segno di un’epoca in crisi: il mondo non è più terreno di avventure epiche, ma uno spazio grigio, dominato da cinismo e pragmatismo. Il cavaliere errante è ormai una figura grottesca, un uomo fuori tempo, un relitto di un passato che non esiste più.
Dal gioco all’inquietudine
In queste opere, il grottesco ha ancora una dimensione ludica, un eccesso che diverte e sorprende. Ma qualcosa inizia a incrinarsi: se in Rabelais è un carnevale liberatorio, in Cervantes è già il riflesso di una disillusione. Si comincia a intuire che il grottesco non è solo una deformazione comica della realtà, ma anche un modo per esprimere la sua assurdità e il senso di spaesamento dell’uomo di fronte a un mondo che non riconosce più.
Ben presto, il grottesco abbandonerà del tutto la sua dimensione giocosa per diventare qualcosa di più oscuro, più inquietante. Lo vedremo con Gogol’, con Kafka, con Pirandello: autori che porteranno il grottesco alle sue estreme conseguenze, trasformandolo in uno strumento per raccontare l’alienazione, la solitudine, l’assurdità della condizione umana.
Ma per capire come siamo arrivati fino a quel punto, dobbiamo fare un salto nell’Ottocento, quando il grottesco inizia a farsi sempre più una maschera tragica.
Il grottesco nell’Ottocento: Gogol’ e la perdita d’identità
Se nel Rinascimento il grottesco era ancora intriso di vitalità e di eccesso carnevalesco, con l’Ottocento inizia a diventare un riflesso della crisi esistenziale e sociale dell’individuo moderno. La realtà si fa sempre più alienante, i meccanismi del potere opprimenti, e l’uomo, schiacciato da una società burocratica e impersonale, perde la sua identità. Il grottesco non è più solo una deformazione comica della realtà, ma il suo volto più autentico: assurdo, inquietante, incomprensibile.
Uno degli autori che più ha saputo cogliere questa trasformazione è Nikolaj Gogol’, considerato uno dei padri della letteratura russa moderna e maestro nel ritrarre un mondo in bilico tra il reale e il surreale. Nelle sue opere, il grottesco diventa un meccanismo per svelare l’assurdità della burocrazia zarista, la meschinità del potere e la fragilità dell’individuo di fronte a forze che non può controllare.
Il naso: la realtà che si ribella
Tra i racconti più emblematici di Gogol’ c’è Il naso (1836), una storia in cui l’impossibile si manifesta con un’ironia fredda e spietata. Il protagonista, il maggiore Kovalëv, si sveglia una mattina e scopre con orrore che il suo naso è scomparso. Poco dopo, lo rivede per strada… ma non è più il suo naso: ora è un distinto funzionario, elegantemente vestito, che si comporta come una persona autonoma e che addirittura lo guarda con sufficienza.
Il paradosso è totale: il naso, che dovrebbe essere parte integrante della sua identità, si è emancipato, ha scalato i ranghi della società, mentre Kovalëv rimane smarrito, umiliato e impotente.
“Se un naso può andarsene in giro con un’uniforme, chi può dire che cosa è reale e cosa non lo è?” (Il naso)
Qui il grottesco assume una funzione più inquietante rispetto ai secoli precedenti. Non si tratta più di un’esagerazione burlesca o di un ribaltamento carnevalesco, ma di una frattura profonda nella logica della realtà. Il mondo che Gogol’ racconta è dominato da un ordine sociale assurdo, in cui gli oggetti sembrano avere più potere e prestigio degli uomini, e l’identità personale è instabile, pronta a disfarsi in qualsiasi momento.
L’angoscia che emerge da Il naso anticipa le atmosfere kafkiane: Kovalëv non cerca di capire il senso dell’assurdo che lo ha colpito, non si interroga sulla sua trasformazione, ma pensa solo alle conseguenze sociali della sua perdita. La sua preoccupazione non è essere senza naso, ma il fatto che senza naso non potrà più presentarsi in società. Il vero orrore del racconto non è tanto la metamorfosi dell’organo, quanto l’ossessione del protagonista per il proprio status sociale, per il riconoscimento da parte degli altri.
Il cappotto: l’uomo ridotto a nulla
Se Il naso mostra un individuo privato di un pezzo del proprio corpo e della propria dignità, Il cappotto (1842) porta questa perdita all’estremo. Il protagonista, Akakij Akakievič Bašmačkin, è un umile impiegato statale, grigio e insignificante, deriso dai colleghi e ignorato da tutti. La sua vita cambia solo quando riesce, con grandi sacrifici, a comprare un nuovo cappotto, che diventa per lui un simbolo di riscatto sociale. Il cappotto non è solo un capo d’abbigliamento, ma la sua stessa identità, l’unica cosa che gli dia valore agli occhi del mondo.
Ma quando il cappotto gli viene rubato, Akakij perde tutto: la dignità, la voglia di vivere, la sua stessa esistenza. Muore poco dopo, di freddo e di disperazione, e il suo fantasma torna a infestare la città, strappando i cappotti ai funzionari indifferenti.
Il grottesco qui si tinge di tragedia: l’uomo è ridotto al suo ruolo sociale, alla sua funzione, ai suoi oggetti. Se gli viene sottratto ciò che lo definisce, smette semplicemente di esistere.
L’identità, per Gogol’, non è più qualcosa di solido e immutabile, ma un’illusione precaria, legata a dettagli insignificanti, come un naso o un cappotto. Non esiste più un senso dell’io stabile: siamo ciò che appariamo agli altri, e se qualcosa in questa immagine si incrina, sprofondiamo nel nulla.
Il grottesco amaro di Gogol’: tra riso e disperazione
Gogol’ è un maestro nel creare un grottesco ambivalente, in cui il riso e la tragedia si intrecciano senza soluzione di continuità. Si ride delle disavventure di Kovalëv e di Akakij, ma quel riso lascia un retrogusto amaro, perché si avverte la disperazione che si cela dietro la loro assurdità.
Se con Rabelais e Cervantes il grottesco era ancora una forma di gioco, qui diventa una trappola: i suoi personaggi non trovano una via di fuga, sono inghiottiti da un meccanismo che li schiaccia e li annienta. Non sono eroi, non sono ribelli, non hanno alcuna possibilità di riscatto. Sono semplicemente uomini troppo piccoli per un mondo troppo grande e indifferente.
L’eredità di Gogol’ sarà enorme. Il suo grottesco diventerà il punto di partenza per autori come Kafka, che riprenderà il tema dell’alienazione burocratica, e per Pirandello, che esplorerà l’instabilità dell’identità. Il suo riso, già impregnato di angoscia, prefigura il teatro dell’assurdo e le inquietudini del Novecento.
Ma prima di arrivare al grottesco metafisico di Kafka o a quello esistenziale di Pirandello, dobbiamo soffermarci su un’altra grande trasformazione che avviene tra Otto e Novecento: il grottesco che diventa il linguaggio dell’incubo e della perdita totale di senso.
La bibliografia completa sarà disponibile nella seconda parte dell’articolo
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