Il sogno non è evasione, ma rivelazione: un varco sottile tra l’essere e l’altrove, dove la vita si giustifica senza bisogno di accadere.

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RIFUGIARSI NEI SOGNI

Marcello Veneziani

In questo breve ma intenso testo, Marcello Veneziani esplora la dimensione del sogno come spazio sacro e sospeso, in cui la realtà si dissolve per lasciare il posto a un’eco di verità e trascendenza. Il sogno diventa un aldilà interiore, una forma di vita alternativa che giustifica e nobilita l’esistenza più di qualsiasi fatto concreto. Non è fuga, ma rivelazione. Sognare, anche da svegli, significa toccare il mistero, dialogare con il divino, abitare per un istante l’altrove da cui veniamo e verso cui tendiamo. (f.d.b.)


Ma poi che ti resta di un sogno? A volte ti resta, al risveglio, la stanchezza per un’impresa mai compiuta, lo sguardo provato di chi ha conosciuto una storia e forse una verità, che non ricorda ma di cui porta i segni; a volte la leggerezza per uno stato di grazia mai raggiunto nella vita reale, la raggiante esperienza di un mito. Più spesso il torpore di un passaggio tra due mondi così vicini e così lontani e il sapore di una vita ulteriore, che ci dona il ricordo o il presagio di una sopravvivenza. Perché il sogno è il nostro primitivo aldilà che abita dentro di noi, fino a che non ci accorgiamo che siamo noi ad abitare dentro il suo alone. Ci sono vite che sono più giustificate e nobilitate da ciò che hanno sognato piuttosto che da ciò che hanno realmente vissuto. Osservate con rispetto chi sta sognando: un’ombra di sacro si riflette su di lui, si avverte intorno al suo corpo l’aura di un altrove, il dialogo con un dio. Anche chi coltiva un sogno da svegli emana la stessa aura, che chiamiamo carisma: è la presenza in lui di un altrove, di una trascendenza, di un colloquio con un dio.

Di sogni è nutrita la vita e perfino la storia, più di quanto possiamo immaginare.

Il Novecento ci ha lasciato in eredità soprattutto il desiderio di sognare da svegli, vivendo la vita come la continuazione o la realizzazione di un sogno. Non fu un caso che quel secolo si aprì con un titolo destinato a grande fortuna: L’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud che vide la luce proprio nel 1900.(1) La storia del Novecento è stata in fondo il tentativo di interpretare i sogni nella storia e di inverarli nella vita, sia nel versante ideologico e rivoluzionario, sia nel versante tecnologico, ludico e fisico. I regimi totalitari del Novecento e le utopie del mondo nuovo che lo hanno cosparso, ma anche i sogni della tecnica e i miraggi del benessere che lo hanno segnato nella vita quotidiana, hanno lastricato il Novecento di sogni collettivi e privati. Portare il sogno nella realtà fu l’utopia del sessantotto ma è anche la promessa suprema delle agenzie di viaggio, delle fabbriche del benessere e del desiderio, della cosmesi e della felicità, della fiction e di internet. Sognare da svegli, proseguire il sogno nella realtà, rendere pubblico e condiviso quel che è segreto e singolare. Alcuni hanno la franchezza di chiamarlo sogno, come l’american dream; altri viceversa lo paludano nei panni curiali della storia. Di sogni si nutrì il Novecento, di sogni si dissanguò. A volte, si sa, i sogni volgono in incubi. Michel Foucault considerava il sogno come lo spazio originario dell’uomo, in cui sorge la sua libertà. Perché il sogno non è il giardino interiore della fantasia ma rivela il destino concreto dell’esistenza.

Il poeta è agli ordini della sua notte, scriveva Jean Cocteau; ma in un’epoca di creatività diffusa benché presunta, la notte ha invaso la vita del giorno e detta ritmi e movenze. È l’epoca del sogno di massa, sostituto gaudente del mito e della religione. I sognatori romantici consideravano il sogno una visione interiore non mediata dai sensi, come scriveva Baader: la visione dei sogni si è fatta ora esteriore e si trasmette anche mediante i sensi. I sogni più sani e profetici, dice la tradizione raccolta da Giamblico e giunta fino a Schelling, sono quelli del mattino anche perché più lontani dalla digestione e dagli umori del giorno.

Il sogno è l’unico paradiso in terra, visibile anche se non afferrabile; la forma più intima e più lieve di trascendere la realtà. Il sogno è metafisica da notte. Superare le lontananze nel tempo e nello spazio, ma anche le lontananze nella logica e nei sensi, è il più grande dono dei sogni: curvare le distanze, rivedere i morti e gli assenti, ridare luce e prossimità alle cose perdute, rianimare le cose inerti, è l’ars regia dei sogni. Un’arte che non si apprende ma che discende come una scienza infusa dai misteri della mente che scompongono l’esperienza e ne rimescolano i pezzi. Il sogno è il motore principale dei mutamenti, il propulsore vitale dei giovani. L’eroe, il rivoluzionario, l’artista e il mistico, ma anche il giocatore, il bevitore, il fumatore, l’amatore e il criminale inseguono tutti il sogno nella realtà, tendono a modificare il mondo, o perlomeno a modificare la loro percezione del mondo, fino a trasfigurarlo o sottrarvisi. I loro atti sono tentativi di introdurre il sogno nella realtà, o di eludere questa per far combaciare la vita col sogno. Nel mondo antico il sogno precede gli eventi, sia in veste di profezia che di ammonimento, di incitazione e di presagio; il mondo moderno ha rinunciato al valore simbolico del sogno optando per la sua secolarizzazione: ovvero ha preferito riversare il sogno nella realtà, piuttosto che animarla con il suo soffio venuto da un mondo sacro e remoto, contiguo e distante.

Restano i sogni a ingemmare la quotidianità: a volte la giornata ha come unico senso quello di intervallare due sogni notturni. C’è chi aspetta i sogni come un risarcimento dalla realtà, li invoca come una compensazione policroma, sfavillante, del grigiore spento della quotidianità. Il sogno non come alienazione dalla realtà ma come rifugio dalla realtà alienante; estrema mitologia ad uso personale in un mondo disincantato. C’è chi cade irretito nel sogno, come se si trattasse di un inganno ordito dai demoni notturni, una specie di occupazione fraudolenta della mente, approfittando della stanchezza. C’è chi non avverte il confine tra il sogno e la veglia e vive l’uno come la continuazione dell’altra, o viceversa se è un idealista; non si accorge di aver oltrepassato la soglia e anche da sveglio non sa distinguere tra ciò che ha vissuto e ciò che ha sognato. C’è chi preme sulle vaghe pareti del sogno cercando di fuoruscire, vivendolo così come un incubo o una caduta, e cerca disperatamente di trovare la fessura, la breccia, per evadere dal suo carcere, dimenandosi fino a che qualcuno o qualcosa li riporti alla superficie. E c’è invece chi si lascia andare al lento sfaldarsi della realtà, lasciando la mente slegare i nessi, sciogliersi le sequenze, fino allo sgranarsi dei gesti, delle parole, dei volti e delle figurazioni. Rivedo mio padre e mia madre dormire insieme: lui, mendicante di sogni, li cerca coprendosi il volto, inabissandosi nel letto con il corpo rannicchiato; lei, prigioniera dei sogni, con i pugni serrati, quasi seduta sul letto e semi-scoperta, caduta nella notte che tenta di evadere.

Il sogno, si dice, è una realtà debole e fuggente come la realtà è un sogno potente e costante; ma a volte si ha l’impressione che il sogno sia una realtà potenziata, perché nel sogno si ingigantisce sia il significato che l’insignificanza, che nella vita reale sono più flebili. Simbolo e gratuità sono i confini estremi del sogno. Tutto acquista senso e tutto al contempo lo perde, in un rincorrersi di labilità e allusività che costituisce la trama gentile dei sogni. È bello sognare perché la mente danza a corpo libero. Troppe rovine hanno compiuto i sogni che pretendono di farsi storia; meglio restituirli al loro habitat mentale di poesia involontaria a misura di singolo. Meglio i sogni verticali che quelli orizzontali; i primi annunciano la libertà, i secondi propiziano la tirannide. Assumiamo perciò la posizione abituale, fetale o arresa, accovacciata o distesa, per propiziare l’avvento dei sogni. Ecco che vengono…

La Verità – 14 giugno 2024
(Da Il segreto del viandante, Mondadori, 2003)

 

 

(1) Rimandi del Blog

Mi torna alla mente Schopenhauer, che più di un secolo fa scrisse: “L’uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole.” In quelle parole già si avvertiva l’eco di un inconscio che l’autore non nominava, ma che intuiva con chiarezza. Freud, che di quell’inconscio avrebbe fatto una scienza, più tardi osservò: “Schopenhauer conosceva l’inconscio meglio di tutti; io l’ho solo dimostrato clinicamente.” Eppure, ciò che a un filosofo fu perdonato come intuizione, a Freud fu contestato come pericolo. Ma entrambi ci parlano dello stesso enigma: che non siamo padroni in casa nostra, e che i sogni — come disse Freud — sono “la via regia che porta all’inconscio”. Già Schopenhauer li definiva “una breve follia”, preludio e specchio di quel mondo invisibile che ci abita. E forse è proprio lì, nella zona d’ombra dove si incontrano la filosofia e la psiche, che si cela l’unica verità degna di essere vissuta: quella in cui la realtà cede il passo al possibile, e la coscienza si rifugia nell’altrove.

Ricordo che Freud, pur arrivato alla psicoanalisi da altre strade, riconobbe in Schopenhauer un precursore visionario, capace di intuire l’inconscio prima ancora che la scienza potesse nominarlo. Gli fu grato per avergli aperto, seppur post factum, una via che lui stesso aveva già percorso con gli strumenti della filosofia.

“Schopenhauer ha intuito l’essenziale dell’inconscio prima che io lo scoprissi. Io non l’ho letto se non più tardi, ma mi ha fatto grande impressione.” Sigmund Freud, in una lettera privata (attribuita a corrispondenza con Lou Andreas-Salomé)

E ancora, Freud disse:

“Schopenhauer conosceva l’inconscio meglio di tutti; io l’ho solo dimostrato clinicamente.”

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