L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore. (Giorgio Caproni, poeta ermetico)

 

Silvana Mangano in una scena Wikipedia

RISAIE, MONDINE, CANTI, ROGGE E CANALI


La strada sterrata che divide i campi delle risaie piemontesi, come la riga nera su un foglio da disegno, costituiscono un affascinante e cangiante eco sistema che si perde a vista d’occhio e si estende per 400 mila ettari tra le province di Vercelli, Biella e Novara. Le rane a primavera si destano dal letargo invernale, hanno terminato la favolosa sarabanda degli amori. Ora, un gracidare che invadeva ogni spazio, annulla  il silenzio ovattato dell’inverno con le sue nebbie morbide come coltri, riempie le notti di un lamentoso concerto come se miliardi di gatti si cercassero per il rito nuziale, interrotto ogni tanto, come da un singhiozzo importuno, per poi riprendere più sonoro di prima.

Quelli delle risaie la chiamavano la stagione dei “burach”. Il riso è un cereale generato dal fiato muffoso e umido del Tropico. Tutto nelle risaie ha risalti esotici, non esiste altra cultura agricola che abbia riti e ritmi paragonabili ai suoi. In quei giorni le risaie sono uno sterminato specchio rilucente anche quando le sovrasta un cielo di cemento. I germogli di salice e pioppi, la lieve lanugine verde del riso, appanneranno ben presto la lucentezza argentea dell’acqua, e la risaia sarà un’altra cosa, pronta per essere mondata. A maggio sono già interamente verdi è da quel momento che entrano in scena le mondine.

Mondine, mondine e ancora mondine in quello sterminato confine che è il Monferrato, dove per circa quaranta giorni queste donne animavano quegli acquitrini in un vociare malinconico dei loro canti.

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’eb1a63′ bcolor=’3′]Sciur padrun da li béli braghi bianchi, fora li palanchi, fora li palanchi,

sciur padrun da li béli braghi bianchi, fora li palanchi ch’anduma a cà.”[/stextbox]

«Stop! Stop!», griderebbe oggi, dentro un megafono, Giuseppe De Santis mentre, dietro la macchina da ripresa, girava le scene di Riso amaro, uno dei massimi capolavori del cinema italiano, che pone al centro della scena le classi popolari e ad esse si rivolge in un dialogo ideale, denunciando lo sfruttamento della manodopera femminile e minorile, nell’ambito di un rispetto inossidabile per il mondo del lavoro. È in quelle terre del vercellese che fu girato. Silvana Mangano, che interpretava il ruolo di una delle tante mondine, con quella maglia dallo scollo a V, immortalata dal bianco e nero, ha creato il prototipo della maggiorata italiana, facendo sognare mezza Italia.

Oggi, quelle risaie piemontesi. dall’inizio della primavera fino a estate inoltrata, regina incontrastata del territorio – dove operano regolarmente quattromila aziende agricole – è l’acqua, distribuita e amministrata grazie a un complesso meccanismo di ingegneria e architettura idraulica composto da canali artificiali, sbarramenti, bacini, edifici di presa e snodi di cui il Canale Cavour – importante opera risalente alla seconda metà dell’Ottocento ancora oggi considerata tra le più rilevanti realizzate nel settore dell’ingegneria idraulica a livello europeo – rappresenta la struttura principale.

Al termine dell’interminabile e monotona parentesi invernale, il primo personaggio a fare la sua comparsa nelle risaie, è l’acquaiolo. Un lavoro che è rimasto immutato nel tempo, anche se di cambiamenti rapidi che hanno interessato la risicoltura ce ne sono stati, ma non hanno toccato la centralità dell’elemento acqua e delle complesse competenze necessarie a chi deve concretamente gestirlo. Egli doveva garantire a tutti l’acqua, nei tempi e nelle quantità opportune: questo è il compito apparentemente semplice che svolgeva l’acquaiolo, con un corso di formazione fulmineamente condensato in poche, secche informazioni: fa’ rendere l’acqua il più possibile, non litigare con gli utenti, evita che sorgano grane. Gli orari è lui a darseli in base al suo lavoro. Ogni giorno percorre chilometri – a piedi e in bicicletta – lungo le rive dei fossi, con l’osservazione scrupolosa di ogni più lieve crescere o decrescere dell’acqua. Perché l’acqua andava divisa affinché irrigasse i campi dei proprietari terrieri. “Per il Condominio la roggia era santa: prima di tutto c’era l’acqua”, e i sancta sanctorum erano le traverse di derivazione, ancora all’inizio costruite – come nel Medioevo – con fascine, terra e pietre, ed il partitore, cioè l’opera idraulica dove le acque derivate dovevano (ancora oggi lo stesso venerabile edificio svolge il suo compito) essere scrupolosamente divise secondo i diritti di ognuno, grazie a paratie regolabili o a bocche fisse in pietra che assicuravano con rigore una quantità fissa e costante d’acqua “La pietra doveva piangere sempre”.

Un compito difficile, manuale, ci si aiutava solo con pochi strumenti: un tridente, un badile e un falcetto, gli inseparabili strumenti di lavoro, e per velocizzare i continui spostamenti tra i campi usavano la bicicletta percorrendo i sentieri ricavati sugli argini più ampi e solidi. Il lavoro dell’acquaiolo veniva appreso in casa, tramandato da una generazione all’altra. Sapevano interpretare i movimenti dell’acqua e ne prevedevano il comportamento, conoscevano a perfezione il percorso di una roggia e il grado di permeabilità di ogni terreno e, non di meno, osservando con occhi lungimiranti il movimento delle nuvole e fiutando il vento, intuivano, sbagliando raramente, l’avvicinarsi di un temporale. Il loro apporto è stato imprescindibile fino agli anni Sessanta del Novecento quando cioè non si usavano diserbanti e le erbe infestanti erano combattute anche con la gestione dell’altezza dell’acqua. Non di rado era anche un pescicoltore e un allevatore di rane i “burach”.

L’acquaiolo aveva contatti giornalieri con gli agricoltori, e con gli utenti delle acque, tutti erano in campagna a lavorare fin dal mattino, ognuno nella sua terra. Tutti i giorni giravano, parlavano con tutti, sentivano di cosa avevano bisogno, le loro ragioni, e poi decidevano. Loro le bocchette dei fossi non le toccavano, era un compito demandato a loro, l’importante era dare a tutti l’acqua giusta. Il difficile cominciava dopo la metà di giugno, quando l’acqua calava, e le necessità crescevano. Le mondine – per esempio – non potevano lavorare nelle risaie mezze asciutte: le radici delle erbe strappate venivano su con della terra attaccata, che senz’acqua non si poteva lavare, e i mazzi di giavone diventavano così pesanti da rallentare troppo il lavoro. A volte erano costretti anche a bagnare il grano. In quei momenti allora era un gioco difficile da fare con la poca acqua disponibile, cercando di non scontentare nessuno: sollevare o abbassare pochi centimetri la paratoia all’inizio della roggia voleva dire prendere una decisione vitale per molti.

Un trattore per la semina del riso con sistema a spaglio

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’eb1a63′ bcolor=’3′]Oggi, invece, consulta il meteo e ci si muove a bordo di moderni mezzi agricoli equipaggiati con sofisticate strumentazioni, sensori intelligenti e rilevatori laser che rendono la sua attività più efficace e precisa ma decisamente meno romantica e creativa.[/stextbox]

Una cascina.

L’obiettivo comunque è sempre lo stesso cioè quello di garantire volume, altezza e ricambio d’acqua ottimali nelle risaie per trasformare un terreno brullo, arido e inanimato in una scintillante e quieta laguna dove, tra effetti ottici e riflessi di cielo, le grange, monumentali cascine produttive, sembrano isole incantate sorte da un mare calmo, placido, fermo. In primavera, inondato d’acqua e dal pulviscolo di mille nuvole leggere, riflette l’azzurro di un cielo che promette sogni; in estate, i germogli del suo frutto migliore lo trasformano in un mare verde imbevuto di buoni profumi che addolciscono l’aria e inebriano i sensi; in autunno, quando le giornate iniziano a cedere luce e invitano a sostare in luoghi caldi e accoglienti, risplende delle onde dorate delle messi mature; in inverno, quando i gesti perdono spensieratezza e allegria per diventare più severi e attenti, avvolto nella irreale iridescenza delle nebbie padane, si addormenta, ma, sotto il gelo pungente, già si prepara a rinascere. 

Negli anni ’50 e ’60, soprattutto nella Baraggia vercellese, segnano il passaggio da un mondo per molti versi ancora arcaico verso il progresso agrario: il giovane acquaiolo all’inizio del suo incarico deve ancora confrontarsi con le necessità dei numerosi mulini ad acqua che, oltre agli agricoltori, hanno bisogno della Roggia per lavorare. Lo sfondo sociale e economico è dominato dai delicati rapporti fra i vari detentori di diritti d’acque, che esercitano diritti propri da sempre o ereditati dalle famiglie nobili e dalle comunità che secoli e secoli prima le rogge le hanno scavate. Rapporti che non infrequentemente rischiano di andare in crisi, per le più svariate ragioni: manca l’acqua per siccità, la piena del torrente ha danneggiato la chiusa, qualche utente ha approfittato dell’acqua altrui. Per tutti gli acquaioli di quelle terre e di tutti i consorzi, sapevano che dovevano evitare che sorgessero questioni. Allora si mettevano d’accordo tra di loro, parlando: così i problemi si risolvevano senza tirare nella discussione gli utenti o i padroni.

Per arrivare a ciò, ripristina gli argini danneggiati durante la brutta stagione. In seguito, prosegue con la manutenzione dei fori di ingresso e di uscita di ogni camera, degli edifici di presa, delle traverse di derivazione, delle paratie e, infine, delle bocche di approvvigionamento che permettono di regolare il livello dell’acqua all’interno dell’appezzamento.

Un compito non facile, soprattutto in un quadro che non era quello della coltura intensiva di oggi: L’acquaiolo non doveva solo pensare alle risaie: c’erano anche le marcite, per esempio, o i prati, e ognuno aveva esigenze diverse. Poi anche i terreni erano diversi, qualcuno beveva di più, altri meno. Insomma, l’attenzione era sempre alta, non c’erano orari o momenti per potersi rilassare. Anche nel cuore della notte doveva correre, sotto la pioggia, a regolare le chiuse o a scaricare surplus di acqua che avrebbero potuto danneggiare fossi e risaie, e osservare, oramai per abitudine, e misurarne con l’occhio il livello. Quasi un’ossessione.

Tutto deve essere pronto per la fine di marzo quando l’acqua derivata dal complesso sistema di canali artificiali, unita a quella dei fossi di raccolta e delle risorgive, raggiunge i vivai dove, per salvaguardare i fondali e non danneggiare le piantine di riso, continuerà a scorrere, con un impercettibile ricambio, per fornire costantemente l‘ossigeno necessario alla loro germinazione e contrastare la putrefazione di sostanze vegetali.

 

È la superba inquadratura di un paesaggio agrario modellato da generazioni di contadini che si sono consumati negli stessi poderi e nella stessa campagna ostinatamente, per secoli. Un confortante disegno della natura, unico, inesauribile, accogliente, sorprendentemente morbido e seducente. Un’equilibrata e armonica geometria che fonde piccoli centri abitati, case sparse, ordinati filari di pioppi, cascine maestose, vestigia di antichi feudi con un numero infinito di ritagli d’acqua.

Il lavoro dell’acquaiolo è una professione che non sta in nessun manuale o corso di formazione. Una professione ereditata dalla lunga familiarità di quelle terre con l’acqua, fin dai tempi in cui il riso ancora non c’era (facciamoci caso: l’acquaiolo nel Vercellese risicolo è ancora il pradarö, l’uomo che guarda l’acqua nei prati) ma in cui rogge, fossi e fontanili già marcavano in modo indelebile il paesaggio agrario delle “terre d’acqua” di oggi.

Riccardo Alberto Quattrini

 

Immagine: Silvana Mangano in una scena di Riso amaro film del 1949 diretto da Giuseppe De Santis

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