Una delle tendenze della nostra epoca è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta screditata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui.

Flannery O’Connor.

«Flannery è morta ieri». Con questo telegramma, il 4 agosto 1964 la madre della grande scrittrice americana, Regina O’Connor, informava William Sessions che la figlia era morta a 39 anni, stroncata dal lupus, malattia cronica e autoimmune che colpisce organi e tessuti divorando il corpo dall’interno.

Flannery O’Connor è uno dei problemi indubbiamente aperti della letteratura contemporanea. La sua grandezza è ancora motivo di imbarazzo per molti. Fosse un po’ meno grande, la si potrebbe sistemare nel loculo degli scrittori sudisti, oppure di quelli cattolici. Ma la O’Connor fu una che osò affermare di scrivere perché cattolica  e allora non sta bene nemmeno nella lista dei cattolici. È troppo. Seguire il suo pensiero significa uscire dal sentiero di una letteratura rassicurante, edificante – in una parola: dal sentiero di una letteratura etica – per entrare in una giurisdizione nella quale non si hanno più garanzie, dove le anime sono nude, esposte a ogni vento: la giurisdizione dell’essere. O, come la chiama Flannery: il territorio del diavolo. È questo passaggio da «essere» a «diavolo», uno dei tratti essenziali  che caratterizzano il suo genio letterario.

[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’096cde’]Un viso acuto e sensibile, bello forse un tempo, ma poi distorto dalla sofferenza fisica, una timidezza di portamento sorretto da due grucce che stava certo a significare coraggio.[/stextbox]

La vita di Flannery O’Connor non si presta ad appetitose biografie.

Nata il 25 marzo 1925 a Savannah nel cuore della Georgia protestante, dove la segregazione razziale era una cosa seria, vecchia capitale dello Stato del Sud degli Stati Uniti, cresciuta secondo una rigida educazione cattolica irlandese e questo non le aveva reso la vita facile. C’erano infatti tre gruppi, le tre “K”, che venivano costantemente perseguitati e a volte anche arrestati. Tradotti in termini correnti erano: i neri, gli ebrei e i cattolici.

Originariamente si chiamava Mary Flammery O’Connor, in seguito si cambiò nome perché, diceva, «chi avrebbe mai comprato le storie di una lavandaia irlandese?»era nata per scrivere, era una delle cose che chiedeva a Dio nel suo famoso Diario di preghiera, lei chiede essenzialmente tre cose: di essere una brava scrittrice, di essere una mistica e di conoscere la volontà di Dio. Fanno impressione le sue riflessioni sul dolore e sul desiderio di Dio «come un cancro», sapendo che solo quattro anni dopo le sarebbe stato diagnosticato il lupus. Si può dire che sia stata misteriosamente esaudita. Dio ha ascoltato le preghiere di Flannery e l’ha esaudita in tutto. È infatti durante la malattia che ha scritto i suoi testi migliori e più famosi. L’enorme sofferenza che ha patito l’ha avvicinata ancora di più a Dio, perché lei gli ha offerto completamente la sua malattia. Questo è incredibile, ma è sconvolgente anche il successo che hanno avuto queste preghiere.

All’interno di una lettera del 17 gennaio 1956 la scrittrice si descrive efficacemente in un ricordo biografico dagli echi biblici: «Ho fatto i primi sei anni di scuola dalle suore. […] Fra gli otto e i dodici anni avevo l’abitudine di chiudermi ogni tanto a chiave in una stanza e facendo una faccia feroce (e cattiva), vorticavo torno torno coi pugni serrati scazzottando l’angelo. Si trattava dell’angelo custode del quale, secondo le suore, tutti eravamo provvisti. Non ti mollava un attimo. Lo disprezzavo da morire. Sono convinta di avergli addirittura mollato un calcione finendo lunga distesa».

Flannery O’Connor rimase una bambina che scazzottava l’angelo custode (socking the angel) che però non la mollava un attimo. Ce lo conferma un suo saggio, frutto di una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte, nel quale sostiene che lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo […]. La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale (a kind of personal encounter)». Il testo funziona se è attiva questa lotta, che la O’Connor nomina in vari modi: wrestle, encounter, fino al termine socking, proprio dello slang. Leggere la O’Connor significa entrare nel ring delle sue pagine. Da dove nascono le sue storie? Che cosa le rende così intense? La sua scrittura è molto legata al reale, mentre è del tutto disinteressata ai labirinti della psicologia: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa».

[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’1a53d9′]In Iowa divenne amica di Robert Lowell, grande poeta statunitense (due volte premio Pulitzer, N.d.A.), e incontrò gli scrittori più importanti.[/stextbox]

Una volta la scrittrice si trovò a cena da Mary McCarthy, altra nota penna dei suoi anni, che le disse di considerare l’Eucarestia solamente come un «simbolo». La risposta della O’Connor fu netta: «Beh, se è un simbolo, che vada al diavolo (Well, if it’s a symbol, to hell with it)».

Visse dunque in una fattoria solitaria e impoverita della Georgia dove l’unico lusso era un allevamento di splendidi pavoni che Flannery amava, curava e mostrava con orgoglio agli ospiti, con loro compare spesso nelle rare fotografie che ci rimangono. Costretta dalla malattia ad abbandonare la carriera universitaria e la vita in luoghi più centrali rispetto alla produzione culturale americana, alternando periodi di dolore fisico e di pesanti cure mediche, ad altri ricchi di serenità.

Un amica così la ricorderà: «Sempre con un giubbotto di jeans, al lavoro sugli ultimi capitoli di Wise Blood, aveva già trovato e padroneggiava temi e stilemi suoi, sapeva che non avrebbe preso marito, che sarebbe stata una sudista, scandalosa e disciplinata». E la sua vita: «Unica compagnia quella della madre autoritaria, indomabile, che si lamenta perché nessuno l’aiuta e detesta il lavoro di Flannery, anche se ne è colpita, e spera di vederla sistemata».

Un medico che le ha detto che non aveva aspettative di vita; poi le nuove medicine. La madre che la costrinse a fare un bagno a Lourdes. In seguito,  un miglioramento, spacciato per miracolo.

E lei muta, come farà spesso con i visitatori, esposti a un clima opaco di tensione. «Vengo da una famiglia dove l’unico sentimento rispettabile da mostrare è l’irritazione. In qualcuno questa tendenza provoca orticaria, in altri letteratura, in me l’una e l’altra cosa», diceva.

«Credo che in modo brusco, sprezzante eppure modesto e completamente privo di pretese sapesse quanto era brava. Aveva sempre avuto il carattere di una creatura imperiosa, decisa, arguta, cosciente di essere destinata a vivere con dolore e convinzione. Le carte sembrano predisposte a suo netto sfavore, ma in realtà ha fatto ciò che aveva deciso di fare e non mi viene in mente nessuno meno passivo e condizionato di lei». Così si esprimeva Robert Lowell nei riguardi della O’Connor.

In una lettera a Ben Griffith, che gli aveva inviato un racconto in lettura, scrisse: «scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore, di mostrarle: mostri queste cose e non avrà bisogno di dirle. (show these things and you don’t have to say them)».

Per cui: se un personaggio ha un carattere legnoso deve avere una gamba di legno; se poi la personalità cambia, allora deve arrivare un ladro a rubargli quella gamba. Così avviene nel racconto Good Country People Brava gente di campagna. Dio è un dato dell’esperienza, non un’intuizione della mente o dello spirito: nello splendido racconto The Turkey Il tacchino, è addirittura rappresentato da un tacchino a cui un undicenne sta dando la caccia.

[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’0a4aab’]Il male l’avrebbe attaccata al ritorno a casa nel Natale del 1950.[/stextbox]

Dopo nove mesi d’inferno dentro e fuori l’ospedale di Atlanta non riesce più a salire le scale e la madre decide il trasferimento ad “Andalusia” la casa di campagna da poco ereditata a cinque miglia da Milledgeville. Sarà definitivo. La malattia è un dono del Signore accolto come «una pallottola nel fianco», strizzando forte gli occhi riuscirà a vederlo come una benedizione.

La vera ispirazione dell’artista è una miccia stretta e sfrigolante. Flannery «sta in piedi in mezzo al fuoco, e crepita – cervello, muscoli, giudizio e volontà, al lavoro, sempre al lavoro». Lo confermerà in punto di morte: «Quanto mi piace lavorare […] mi sono divorata quell’oretta come fosse filet mignon». Si è forse risparmiata la grande popolarità che può spingersi alle tazze da caffè con tua effige sopra e molto molto oltre. «Io lotto solamente con la lingua, e con una certa povertà di mezzi nell’usarla, ma questo è né più né meno quello che devi fare se vuoi scrivere». – per poi scendere con grazia nell’agone.

Tutti coloro che conoscevamo Flannery restarono però sconvolti quando alla sua morte Elizabeth Bishop, considerata una dei maggiori poeti americani, che non era affatto religiosa ma scambiava molte lettere con lei, scrisse come necrologio sul New York Review of Books: «Finché la letteratura americana sopravviverà, anche le storie di Flannery O’Connor sopravviveranno». Anche Robert Giroux, della casa editrice che l’aveva sempre pubblicata a 93 anni, prima di morire, disse: «Siamo rimasti tutti sorpresi da come la sua reputazione è cresciuta, cresciuta, cresciuta». Nel 1994, il premio Nobel Kenzaburo Oe, scrittore non certo cattolico, ha ringraziato pubblicamente Flannery per i suoi scritti. Anche Cormac McCarthy ha ammesso quanto deve a Flannery. Ma non solo gli scrittori ne hanno parlato così.

La O’Connor scrisse 32 racconti, 2 romanzi, alcune prose d’occasione e più di 100 recensioni di libri per due giornali locali, mentre affrontava la battaglia contro la malattia.

Oggi avrebbe 93 anni.

 

BIBLIOGRAFIA

Romanzi:

“La saggezza del sangue”   (Wise Blood, 1952), trad. di Marcella Bonsanti, con una nota di Fernanda Pivano. Garzanti, Milano, 1985; con prefazione di Fernanda Pivano e postfazione di Luca Doninelli.  Garzanti, Milano 2002, 2010

The Violent Bear It Away, 1960), trad. di Ida Omboni, Einaudi, Torino, 1965; Longanesi, Milano, 1969; con introduzione di   Marisa Caramella. Einaudi, Torino, 1994; Einaudi, Torino, 2008

“Il volto incompiuto”. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere. Flannery O’Connor. Curatore: A. Spadaro. Traduttore: E. Buia, A. Rutt. Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli. Collana: I libri della speranza. Anno edizione: 2011. Formato: Tascabile. Brossura.

 “Diario di preghiera”. Flannery O’Connor. Traduttore: E. Buia, A. Rutt. Editore: Bompiani. 

“Sola a presidiare la fortezza. Lettere”.  Flannery O’Connor. Curatore: O. Fatica.Traduttore: G. Granato.Editore: Einaudi. Anno edizione: 2001. Formato Tascabile..

4 Commenti

  1. VIJAY PANARA

    9 Febbraio 2018 a 18:08

    very good content thank you

    rispondere

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