” La circolarità è forse la cifra più netta del pensiero di Eliot; si respira un’aspirazione alla nascita, al ritorno, la formazione di una spiritualità nella desolazione sacrificale del deserto. “Prega per noi ora e nell’ora della nostra nascita.”
Particolare è l’incipit della Terra desolata, una sorta di maledizione alla primavera (Aprile è il mese più crudele, genera lillà da terra morta), sino all’elogio inaspettato dell’inverno, che “ci mantenne al caldo, ottuse con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una vita misera.” Salta agli occhi l’analogia con l’Europa orientale e la Russia, il cui inverno di materialismo ateo e collettivista ha paradossalmente conservato lo spirito profondo dei popoli, sino alla rigenerazione successiva, al contrario dell’Occidente guasto, irrimediabilmente ferito da un altro materialismo, quello consumista e individualista.
La speranza, tuttavia, balugina tra i frammenti della desolazione, in cui, simile al risorto di Emmaus, qualcuno ci affianca silenzioso: “chi è il terzo che sempre ci cammina a fianco? / Se io conto, ci siamo soltanto io e tu insieme /Ma se io guardo innanzi a noi per la strada bianca/ c’è sempre un altro che ti cammina a fianco. Dello stesso anno della Terra desolata è un’altra lirica, Gli uomini vuoti. Non c’è più lo sguardo che vede l’Altro, ma riaffiora l’uomo del presente corrotto, vuoto, impagliato. “Siamo gli uomini vuoti/ siamo gli uomini impagliati / che appoggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia” Un’umanità transumante senza forma, ombre senza colore, paralizzate, dai gesti meccanici.
Colpa della vita condotta nella dialettica del profitto e della perdita, la triste partita doppia tesa al conseguimento dell’Avere che li ha privati dell’anima. Il corpo non è che un guscio sostenuto con i puntelli dell’impagliatura, ovvero i riti, i miti, le sciocche credenze della società guasta. Sono venuti meno gli occhi, il mezzo per stabilire la conoscenza diretta del mondo, e di sé per mezzo del mondo. Nell’ultima parte, un barlume di speranza riappare, ma resta un girotondo, poiché “fra il gesto è l’atto cade l’Ombra, perché Tuo è il Regno”, invisibile agli uomini vuoti, impagliati, senza occhi, lontani dalla trascendenza, incapaci di vedere immersi nella greppia quotidiana. Il poema termina con una lucida epigrafe della modernità, un verso ripetuto tre volte: “È questo il modo in cui il mondo finisce/ non già con uno schianto ma con un piagnisteo.”
L’itinerario di Eliot ha molto in comune con un opera assai popolare della letteratura inglese, quella sorta di preghiera penitenziale che è il Viaggio del Pellegrino di John Bunyan, contemporaneo di Milton. Tutta l’opera successiva è impregnata della fede riconquistata, a partire dal colto Animula del 1930, amplificazione del canto XIV del Purgatorio, in cui Marco Lombardo prende posizione sul tema della libertà e del libero arbitrio, ricordando vigorosamente le responsabilità umane, non divine delle colpe degli uomini.
Un discorso a parte meritano i Cori della Rocca, spesso trascurati dalla critica, l’opera militante dell’intellettuale cristiano. Come nella tragedia greca, essenziale è il ruolo del coro, contrappunto e voce morale di un’epoca che si è liberata di Dio. L’invenzione infinita, l’esperimento infinito, portano conoscenza del moto, non dell’immobilità; conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio. Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo. “Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza”. Pure, gli uomini delle periferie cui si rivolge Eliot, non ne vogliono sapere: abbiamo troppe chiese e troppo poche osterie. La società si è costruita su valori di individualismo estremo, che hanno condotto alla perdita di ogni senso di comunione, perfino di convivenza e vicinato. L’estraneità degli alveari urbani e suburbani ci frusta e Eliot si chiede: Ma voi avete edificato bene, che ora sedete smarriti in una casa in rovina?
In un coro successivo, si celebra la ricostruzione di Gerusalemme sotto la dominazione persiana, “con una spada in mano e la cazzuola in un’altra”. La vita è lotta, dunque, innanzitutto nella dimensione spirituale, dimenticata la quale l’umanità smarrisce se stessa: “Là dove non c’è tempio non vi saranno dimore. / Sebbene abbiate rifugi e istituzioni/ alloggi precari dove si paga l’affitto.” Il settimo coro enuncia una verità drammatica, peculiare del mondo contemporaneo. Gli uomini evitano le scelte, né accettano né negano Dio, semplicemente lo ignorano. Hanno spostato l’oggetto dell’adorazione, il Denaro, il Potere, e prima la Classe o la Razza. C’è una terzina potente e indignata nel settimo coro: “quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere”.
Folgorante è anche il giudizio sul presente: gli uomini d’oggi non “deporranno la croce, perché mai l’assumeranno.” E comunque, la Chiesa, la Rocca, ma anche la Straniera, dov’è? La risposta di Eliot è un’angosciosa domanda su cui meditò Luigi Giussani: è l’umanità che ha abbandonato la chiesa, o è la chiesa che ha abbandonato l’umanità? Deserto e vuoto, e tenebre sopra la faccia dell’abisso. Ma la vita si rigenera, si ricostruisce, sempre nascono nuovi edifici. La conclusione della Rocca è quanto di più religioso sia stato scritto da un poeta nell’ultimo secolo: “e noi ti ringraziamo che la Tenebra ricordi a noi la luce, o Luce invisibile”. Purché la caverna di Platone non abbaia completamento accecato gli uomini vuoti, gli uomini impagliati.
L’intera opera di Eliot è attraversata dalla certezza che vi è un ordine oltre la dissoluzione, il cui culmine poetico sono i Quattro Quartetti, una successione di meditazioni teologiche e cosmologiche. Trovata la fede, la ricerca procede sui suoi fondamenti, rivisitando i luoghi significativi per il poeta, inseriti nel tempo e nello spazio concreto, se davvero vuole comprendere il senso della propria presenza del mondo, concepirne la permanenza fuori dallo spazio e dal tempo. Un’operazione assai diversa dalla constatazione della “gettatezza” (geworfenheit) esistenziale di un Martin Heidegger. “Essere consapevoli significa non essere nel tempo/Però solo nel tempo può l’attimo nel roseto / …/ e essere ricordato. ”
La profondità dei Quartetti (intitolati a luoghi legati alla vita del poeta) muove dall’indagine sulle contrapposte filosofie di Eraclito e Parmenide. Per l’uno, l’essenza delle cose è il divenire, per l’altro il reale “è”, poiché se fu non è, e così non è se dovrà essere in futuro. (Frammenti). In Eliot la soluzione è nella bellezza dell’arte, la quale, pur inserita nel tempo, è immagine dell’eterno, misura ordinatrice, non esoterica ma non immediatamente rivelata, intuita, attinta con occhi immateriali. Un altro tema cui non è estranea la fede è il ritorno, il compimento del ciclo, tanto in termini spirituali che materiali.
Ne è simbolo il Quartetto East Coker, dal nome del villaggio inglese da cui partirono per l’America gli antenati del poeta, a cui egli fa ritorno sino a farne il luogo della sua sepoltura: “nel mio principio è la mia fine e nella mia fine è il mio principio”, in epigrafe il motto della dinastia cattolica degli Stuart. In un altro quartetto, Dry Salvages, viene introdotta l’immagine del fiume – probabilmente il Missouri della sua infanzia – simbolo del tempo distruttore, rammemoratore di cose che non durano, strumento infido di commerci fini a se stessi. Ma il fiume procede verso l’eternità rappresentata dal mare; ancora il motivo della purificazione rappresentato dall’acqua, con una elevata preghiera alla Vergine, figlia del suo figlio in termini danteschi, affinché con la sua purezza pontificale, punto di incontro, ponte tra il tempo, l’uomo e il divino, interceda in favore di tutti coloro che solcano il mare dell’esistere, compresi quelli che hanno fatto naufragio.
Thomas S. Eliot fu anche un grande animatore artistico, dominò per decenni il panorama culturale inglese, e la funzione catartica dell’arte fu una costante del suo orizzonte. L’arte deve determinare una serenità complessiva volta a favorire un ordine della realtà. Critico intransigente della società contemporanea, di cui antivedeva gli sbocchi nichilisti ed egoistici, pubblicò anche un saggio intitolato L’idea di una società cristiana. Testo dalle ambizioni politiche più che filosofiche, enuncia con precisione le idee che hanno compromesso la nozione di cristianità, quelle democratiche e quelle liberali. Queste ultime hanno costruito una società in cui l’uso delle risorse naturali (e delle persone degradate a risorse umane) si è trasformato in sfruttamento a vantaggio di pochi; le prime, lungi dal rappresentare un’alternativa esistenziale, propongono di estendere all’infinito il medesimo sfruttamento. Una marmaglia, spiega, non cesserà di essere marmaglia perché è ben nutrita, ben alloggiata e ben disciplinata. Si avvertono gli echi dell’avversione eliotiana allo stalinismo e al nazismo. Per contro, la sua idea di tradizione è, per così dire, dinamica: “La tradizione, da sé sola, non è sufficiente; deve essere criticata continuamente e aggiornata sotto la supervisione di ciò che io chiamo ortodossia. “
In conclusione, un’opera di straordinario rilievo artistico e di elevata tensione morale, la cui lettura ci sentiamo di consigliare, specie nelle edizioni con testo a fronte, al fine di apprezzarne, per chi è in grado, il terso, classico inglese. Quella di Thomas Stearns Eliot fu una vita di altissime, energiche prestazioni intellettuali al servizio di una visione spirituale dell’uomo, intimamente cristiana. Molto originale è la ragione del suo rifiuto della riforma protestante, considerata un’aberrazione dottrinale, aver proceduto da un’unica rivelazione a tante spicciole rivelazioni quanti sono gli uomini che scelgono di leggere le scritture.
L’approdo fu il canone di una cattolicità diffusa, intesa come tragitto verso l’unità morale del popolo cristiano, innanzitutto delle genti europee che accolsero il messaggio dell’uomo di Nazareth. Unita alla portentosa eredità di Atene e al rigore romano, ne fecero la civiltà comune di un continente oggi morente, terra guasta, desolata di uomini vuoti, impagliati per aver smarrito se stessi insieme con il loro Dio.
Copertina flessibile: 62 pagine Editore: Createspace Independent Pub; 2 edizione (30 dicembre 2012) Collana: Transference