«Così era dolce dormire in quell’alba di febbraio, nella dolce grande città di Milano. E continuare a dormire, insieme, anche con la nuca forata dai proiettili».
Giorgio Scerbanenco
Alto, dinoccolato, di una magrezza quasi spettrale, Giorgio Scerbanenco, nei primi anni Cinquanta, faceva regolarmente la sua comparsa al più famoso caffè milanese, Biffi, in Galleria (ora sostituito da una paninoteca), verso l’una di mattina, dopo aver finito di battere a macchina le quindici cartelle del romanzo a puntate che avrebbe portato qualche ora più tardi alla redazione di «Annabella» in piazza Carlo Erba, sede a quei tempi della Rizzoli.
Lì al Biffi, in piedi davanti al banco, sorseggiava lentamente un paio di pernod in compagnia della donna che allora divideva la sua vita in un appartamentino affacciato su via Orefici e di qualche amico nottambulo. Pagava sempre lui, perché guadagnava assai più degli altri, ma soprattutto perché generoso per indole, splendido addirittura: era capace di affittare una grande macchina con autista (non guidava, non aveva nemmeno la patente) e di offrire qualche fine settimana principesco in un lussuoso albergo della Riviera a due o tre amici, traduttori o redattori di case editrici, come lui – ma senza il suo talento – sicuri di potersi presto affrancare da un lavoro di routine per scrivere in proprio un romanzo “vero”.
Col suo sorriso vagamente ironico, gli occhi chiari un po’ sporgenti, Scerbanenco ascoltava, faceva un commento, ordinava un nuovo giro di pernod tenendo fra le lunghe dita da pianista una sigaretta inglese, mentre al Biffi entrava qualche coppia elegante reduce da una cena dopo teatro, o Alberto Mondadori in compagnia di Arturo Tofanelli.
Era, questo Vladimir Giorgio Scerbanenco, nato a Kiev nel 1911, un personaggio straordinario – sin dall’inizio – era stato il romanzo della sua vita.
Il padre, ucraino, professore di latino e greco in un istituto superiore di Kiev, aveva portato con sé nella sua città, da una vacanza italiana, una ragazza romana di cui si era innamorato. Si sposarono, nacque il piccolo Vladimir, ma dopo qualche tempo la donna – consumata dalla nostalgia – tornò a Roma col bambino e per un certo tempo perse i contatti col marito, che scomparve durante la Rivoluzione d’ottobre. Una puntata a Odessa di madre e figlio, alla disperata ricerca di notizie, si rivelò inutile e anche pericolosa. Non rimase che il malinconico ritorno a Roma e, qualche anno più tardi, il trasferimento a Milano, che offriva maggiori opportunità di lavoro al giovane Vladimir, che nel frattempo aveva adottato il suo secondo cognome sostituendo la K di Scerbanenko con la c.
E a Milano la sua storia, che farebbe la gioia di un biografo americano, si arricchisce di svariate esperienze: tornitore alla Borletti – ma esile, secco come un grissino si ammala ai polmoni e viene ricoverato nel sanatorio di Cuasso al Monte, nel Varesotto. È in seguito milite della Croce Rossa, poi contabile in una grande azienda e in quel periodo si sposa, ma il matrimonio non durerà a lungo. Infine, l’incontro con Cesare Zavattini, che gli pubblicherà su «Piccola», un rotocalco d’anteguerra, una novella, facendolo in seguito assumere in redazione.
Va detto che, sin dall’infanzia, Scerbanenco aveva mostrato un’istintiva facilità di scrittura; inoltre, era un lettore accanito e, dopo il suo turno di lavoro alla Borletti, divorava i romanzi presi in prestito alla biblioteca del Castello Sforzesco. Così, dopo la sua prima novella pubblicata, incoraggiato da Zavattini, cominciò a dedicarsi assiduamente alla narrativa. Il genere era quello definito “rosa”; ma in realtà questo aggettivo un po’ dequalificante, legato a certa letteratura di consumo, riguardava piu1 le testate alle quali Scerbanenco collaborava, che lo stile e il modo che gli erano propri, con venature realistiche, a volte amare e anticonformistiche. Ebbe successo fin dall’inizio con il suo primo romanzo, Il terzo amore, ed è con la Rizzoli che percorse tutta la sua carriera di giornalista e di scrittore, tranne una breve parentesi mondadoriana: in un lunghissimo arco di tempo che va dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta pubblicò numerosi romanzi in cui l’amore era sì l’elemento portante (però rinnovato nello stile e nelle situazioni rispetto ai modi tradizionali del genere), e in più con consistenti apporti “gialli” e con qualche incursione nella fantascienza.
Contemporaneamente, Scerbanenco conduceva due rubriche di grande successo sui settimanali «Bella», a firma Valentino, e «Annabella», con lo pseudonimo Adrian. Le due rubriche, di colloqui con i lettori, si staccavano nettamente dal tono mieloso salottiero per lo piu1 in voga nei giornali “rosa” per assumere un tono umano, a volte doloroso e amaro, che affrontava i problemi propostigli, spesso angosciosi, quasi fossero (e in parte lo erano) suoi personali.
Allo stesso modo, anche nella narrativa per i medesimi due settimanali femminili Scerbanenco proponeva moduli nuovi e assai più realistici rispetto a quelli allora (e in parte ancora oggi) in voga. Non sorprende perciò il fatto che, approdando per un reve periodo alla Mondadori, pubblichi nel 1940 Sei giorni di preavviso, primo di una serie di cinque polizieschi che hanno per protagonista l’archivista della polizia di Boston, Arthur Jelling. L’eroe è un piccolo burocrate, timido, impacciato, con imprevedibili pudori: in un certo senso, una velata proiezione dell’autore stesso. L’esordio è condizionato dalle norme che il Ministro della Cultura Popolare emana per “proteggere” il lettore italiano dai pericolosi fermenti del romanzo giallo anglosassone, ma l’autore – anche in questo campo – riuscì a ritagliarsi un proprio spazio all’interno dei lacci della censura.
Subito dopo la guerra Scerbanenco tornò alla Rizzoli: a puntate sui periodici femminili o in volume nelle librerie, le sue storie avvincenti, solidamente costruite, ebbero successo di pubblico, ma non di critica: l’uomo (o la donna ) della strada si riconosceva tuttavia nei personaggi dei suoi romanzi, in cui apparivano temi talvolta sconcertanti per i tempi (si parlava in termini positivi di divorzio in La ragazza dell’addio) oppure profondamente sentiti, quali il dramma di Trieste e dei profughi giuliani in Anime senza cielo nel 1950 e Appuntamento a Trieste del 1953.
Nasceva intanto, negli uffici della Rizzoli dove entrambi lavoravano, una solida amicizia tra Scerbanenco e Oreste del Buono. Un’amicizia fondamentale per la svolta decisiva subita dalla produzione dell’autore intorno alla metà degli anni ’60.
Da tempo lo scrittore, pur modificandole in parte, soffriva le costrizioni che il genere rosa gli imponeva, così scrisse un libro completamente autonomo, Venere privata, e lo diede in lettura a Del Buono, che lo fece pubblicare da Garzanti (1966). Un romanzo destinato a lasciare una traccia nella nostra letteratura poliziesca, che inaugurò una serie di successo, non in Italia soltanto. Ora Scerbanenco non era più condizionato dal “lieto fine” e prese a lavorare con grande entusiasmo, rinnovando gli schemi del giallo italiano; diede vita a una figura di investigatore nella Milano “nera”, Duca Lamberti, medico radiato dall’Ordine per aver praticato l’eutanasia, che entrava a buon diritto tra i celebri protagonisti dell’indagine poliziesca.
Scerbanenco, come sempre, non depose una maschera (“rosa” in questo caso) per utilizzarne un’altra (“gialla” o “nera” secondo le definizioni di comodo): il suo mondo, fatto di gente comune, di sofferenza, di amore e di morte, viene soltanto illuminato da un’altra angolazione e la presenza di un personaggio femminile dello spessore di Livia Ussaro garantisce una sostanziale continuità con il passato.
Anche in questa sua nuova attività (liberatosi da impegni redazionali adesso lavorava quasi esclusivamente di notte), Scerbanenco svecchiava il genere del poliziesco all’italiana, sin allora di scarse tradizioni, inserendo robusti squarci realistici, che apparivano quasi rivoluzionari rispetto alla produzione consueta. Tanto è vero che proprio con lui si può dire nasca un autentico filone italiano ancorato al rapporto inscindibile detective/realtà metropolitana. A Venere privata seguirono via via Traditori di tutti, sempre nel 1966, che vinse il “Grand Prix de la Littérature policière” per la migliore opera tradotta in lingua francese, e poi I ragazzi del massacro (1969) e I milanesi ammazzano al sabato (1969); varie le versioni cinematografiche dei suoi romanzi, tra le quali va ricordata quella tratta dall’ultimo citato qui sopra che il regista Duccio Tessari (interpreti Raf Vallone e Frank Wolff) intitolò La morte risale a ieri sera.
Già da qualche anno Scerbanenco si era felicemente sposato con una redattrice di moda e aveva avuto due bambine: finalmente un periodo felice e disteso della sua esistenza, che purtroppo non era destinato a durare a lungo. Lo scrittore infatti moriva improvvisamente a 58 anni, lasciando un vuoto difficilmente colmabile e molti inediti: romanzi, due abbozzi di avventure di Duca Lamberti, riportati alla luce da Oreste del Buono, che contribuisce per alcuni anni a mantenere desta l’attenzione del pubblico sullo sfortunato scrittore. In ogni caso, la via a un giallo italiano è stata aperta: Antonio Perria, Franco Enna, Fruttero e Lucentini, ciascuno con un proprio stile e un proprio modo porteranno avanti questo genere che oggi vive più soltanto di importazione.
A tanti anni dalla sua morte i romanzi di Scerbanenco scivolano lentamente in seconda e terza fila. Perché in definitiva il problema è proprio questo: riconoscere, apprezzare e valutare criticamente la produzione di questo narratore che ha saputo costruire solide storie, non prive di una loro validità artistica. Con personaggi credibili, dialoghi serrati, ambienti sempre descritti con abilità e rigore, atmosfere che ricordano un certo cinema alla Duvivier, con sapori, odori, e pioggia… Scerbanenco ha inseguito e finalmente raggiunto il successo, ma non ha sacrificato su quell’altare più di quanto fosse consentito alla dignità di uno scrittore di razza.
BIBLIOGRAFIA