Veronica Pivetti: Attrice, doppiatrice, conduttrice televisiva e radiofonica. È conosciuta dal grande pubblico per il film di Verdone “Viaggi di nozze”, la conduzione insieme a Raimondo Vianello ed Eva Herzigova del Festival di Sanremo e molte fiction di successo, fra cui “Commesse”, “Il maresciallo Rocca”, “Provaci ancora Prof!” e “La ladra”. Nel 2013 Mondadori ha pubblicato…
Ho smesso di piangere. La mia odissea per uscire dalla depressione. Nel 2017, sempre per Mondadori, pubblica Mai all’altezza.
Nella vita di una persona ci sono alcuni piccoli episodi, apparentemente insignificanti, che però determinano in modo decisivo la persona che diventerai. Veronica Pivetti va alla ricerca di questi eventi che hanno segnato la sua vita, e probabilmente quella di molte altre donne. Dietro a un’infanzia meravigliosa, un’adolescenza potabile e una giovinezza serena c’è un casino infernale e traumi da vendere. Traumi di tutti i giorni. Casalinghi, ruspanti, quasi banali, spesso ridicoli. Apparentemente.
Le prime righe del libro
Per una bambina di sette anni avere il trentasei di piede nel 1972 era come avere due teste o la barba.
Oggi le giovani generazioni sfoggiano stature e misure stupefacenti, ma una volta non era così. I bambini erano bassi e le bambine più basse ancora.
Poi c’ero io.
La più alta della classe, sempre, irrimediabilmente fuori misura. Il consolante detto “altezza mezza bellezza” dev’essere stato coniato anni dopo, quando ormai non mi serviva più, perché quando ne avrei avuto bisogno non c’era, o, comunque, non l’avevo mai sentito. Forse mi era stato tenuto nascosto da quelle mezze cartucce invidiose delle mie compagne di scuola, sulle cui teste svettavo di dieci centimetri, anche quindici.
Oggi sono molto orgogliosa del mio metro e settantacinque, ma allora ero una creatura che avrebbe fatto la sua figura solo nel bar di Guerre Stellari, se all’epoca fosse già arrivato sugli schermi.
Nonostante ciò, essere alta non mi dispiaceva del tutto. Ne apprezzavo la rarità e guardare il mondo da lassù era una goduria. È una goduria.
Ma braccia e gambe lunghe comportavano anche mani e piedi extra, e questo creava qualche problema. Sciocchi schemi ottusi e razzisti imponevano regole indiscutibili e una bambina coi piedoni era, come minimo, strana.
(Non ci dimentichiamo che, fino a poco tempo fa, la mano sinistra era “la mano del diavolo” e la vita dei mancini, appunto, un inferno.)
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nonostante le sembianze da cavalletta, ero molto portata per la danza classica, che adoravo. Quando salivo sulle punte con le braccia in terza posizione diventavo alta due metri e sembravo un cavatappi, ma ero anche insospettabilmente armoniosa. Avevo iniziato a ballare con una maestra spagnola molto bellina ed estremamente materna, la signorina Vargas, che mi aveva preso sotto la sua ala esortando i miei genitori a iscrivermi, addirittura, alla scuola della Scala. Niente meno.
Naturalmente i miei si erano ben guardati dal farlo, non volendo prendere una decisione così importante (definitiva, direi) al posto mio, che, in fin dei conti, ero davvero molto piccola. La vita dei ballerini (così si favoleggia) è una vita di sacrifici e di rinunce e mamma e papà rifiutarono, forse saggiamente, di assumersi questa responsabilità. Li capisco, naturalmente, e li ho amati e odiati per questa scelta. Anzi, non scelta.
Ora, com’è ovvio, penso che se avessi preso quella strada sarei stata immensamente felice, brava e celebrata, ma è un classico rimpiangere ciò che non si ha e non si è.
Magari, invece, sarei finita a sgambettare in un angolo buio del palcoscenico mentre, al centro, una splendida étoile illuminata da un ciclopico occhio di bue mandava in estasi un pubblico ebbro di ammirazione. Non lo sapremo mai.
Il problema, però, rimanevano i piedi.
Troppo lunghi. Decisamente troppo lunghi.
Seconda elementare, in classe facciamo il dettato.
“Un giorno che non dimenticherò mai”, titolo che mi provoca un’immediata tabula rasa fino al momento di consegnare, quando so che mi verranno in mente almeno dieci giornate memorabili solo nell’ultimo trimestre.
Bussano alla porta e la testa dell’insegnante di danza fa capolino, sorridente come sempre.
Suor Giampaola, adorata maestra, ci esorta a salutare.
«Buongiorno signorina Vargas» recitiamo in coro alzando gli occhi dal foglio protocollo.
La signorina Vargas è qui perché bisogna ordinare le scarpe da punta per le bambine che seguono il corso di ballo. Esulto. Non vedo l’ora di indossarle, di ballare sul serio, come le ballerine vere, come la Fracci, e mi vanto anche un po’ di essere fra quelle che si cimentano con un’arte così raffinata. Secondo i miei calcoli, una bambina che fa danza classica ha una marcia in più rispetto a una che non la fa, i compagni di classe dovrebbero ritenerla più attraente, più desiderabile, più interessante. È meglio una nuvola in tutù piuttosto che uno gnomo in kilt, no?
«Adesso la signorina Vargas chiederà alle bambine del corso di danza il numero di scarpe e loro lo diranno a voce alta. D’accordo?»
Mi paralizzo. Ho sentito bene?
Dopo essere riuscita a glissare sul mio piedone per un intero anno con quelle insulse cenerentole delle mie compagne, ora mi tocca dichiararlo davanti a tutti? Anche davanti ai maschi? A voce alta? Diventerò automaticamente un pagliaccio, un bersaglio, un fenomeno da baraccone.
Se per un istante mi sono sentita in cima al mondo, ora striscio come un lombrico.
Cosa darei per essere alta venti centimetri di meno e avere due piedi normali anziché due valigie.
Dal primo banco si alza la vocina di Serena, la più bassa della classe. Maledetta. Che numero avrà? Ventotto? Ventinove?
«Ventisette» annuncia tranquilla, inconsapevole della fortuna che ha a essere una nana. E pensare che la guardo sempre con un’ombra di sufficienza.
Di fianco a lei, Cristina Colombo, bassina e baffuta, sbandiera un regolarissimo «Ventisei e mezzo». Cazzo. Tutte rachitiche queste stronze, beate loro.
Una sequela di «Ventotto» e «Ventinove» mi riempie le orecchie. Al «Trenta» di Francesca Ferrari quel coglione di Marco (detto Marcolino perché è un tappo) ghigna. Testa di cazzo. Cosa c’è da ridere su un normalissimo trenta?
«Barbara Bonoldi?»
«Ventinove e mezzo.»
«Elena Argenti?»
«Ventotto.»
«Claudia Pezzella?»
«Trentuno.»
Risatine.
Dei deficienti ridono di un trentuno.
«Simona Brizzi?»
«Ventisette e mezzo.»
«Veronica Pivetti?»
Silenzio.
La signorina Vargas mi guarda affettuosa.
Taccio, ma so che sbaglio. Ogni secondo che passa crea una morbosa aspettativa su quello che dirò.
Silenzio. Tensione.
Ok.
«Trentasei» confesso.
Un boato accoglie la mia dichiarazione. Tutti si scompisciano, ilari e feroci, qua e là sento ripetere: “Trentasei?”.
Ostento indifferenza, anzi, sorrido, come se trovassi divertente essere sbeffeggiata. Intorno a me, bambini e bambine si sganasciano mentre suor Giampaola fatica a mantenere l’ordine.
Come avevo previsto sono lo zimbello.
E questo è solo l’inizio.
Da Ibs, libri.
“Mai all’altezza. Come sentirsi sempre inadeguata e felice”
Veronica Pivetti
Editore: Mondadori
Collana: Ingrandimenti
Anno edizione: 2017
Pagine: 160 p. , Brossura
EAN: 9788804633549