Sarebbe il capolavoro della filosofia rendere evidenti i mezzi che la fortuna adopera per arrivare ai propri fini sull’uomo

SADE – LA FILOSOFIA: UN BORDELLO NEL BORDELLO


Sarebbe il capolavoro della filosofia rendere evidenti i mezzi che la fortuna adopera per arrivare ai propri fini sull’uomo, e così trarne piani di condotta che indichino a questo sventurato individuo bipede come procedere nello spinoso cammino della vita, e prevenire i bizzarri capricci di quella fortuna che è stata di volta in volta chiamata Destino Dio Provvidenza Fatalità Caso, denominazioni tutte tanto viziose quanto prive di buon senso, perché non apportano allo spirito che idee vaghe e puramente soggettive.

Se, benché pieni di un rispetto vano, ridicolo e superstizioso per le nostre assurde convenzioni sociali, ci è accaduto soltanto di incontrare rovi mentre i malvagi coglievano rose, uomini naturalmente viziosi, per volontà per gusto o per temperamento, non valuteranno, con buona verosimiglianza, più vantaggioso abbandonarsi al vizio che resistervi?
Non diranno, e con qualche apparenza di ragione, che la virtù, per bella che sia, si trasforma nel peggiore partito quando è troppo debole per lottare contro il vizio, e che, in un secolo assolutamente corrotto, come quello in cui viviamo, la cosa più sicura è fare quello che fanno gli altri?

D’altra parte, quelli un po’ più filosofi, se così si può dire, non diranno, con l’angelo Jesrad di Zadig, che non c’è male da cui non nasca bene, e che per questo è lecito abbandonarsi al male tanto quanto vogliamo, dato che di fatto il male non è che uno dei modi per fare il bene?
Non aggiungeranno, e con qualche fondatezza, che risulta indifferente al piano generale che il tale o il talaltro sia buono o cattivo, e che per questo, se la sventura perseguita la virtù e la prosperità accompagna il crimine, e crimine e virtù sono uguali di fronte alle intenzioni della natura, è infinitamente più saggio prendere partito tra i malvagi che prosperano piuttosto che tra i virtuosi che vanno in rovina?

È, ormai non lo nascondiamo più, per confermare questi sistemi che ci accingiamo a narrare al pubblico la storia della virtuosa Justine. È essenziale che gli sciocchi la smettano di incensare questo ridicolo idolo della virtù che non li ha ripagati finora che a colpi di ingratitudine, e che le persone dotate di spirito e di ingegno, quotidianamente dedite per principio alle non comuni delizie del vizio e della sregolatezza, si rassicurino di fronte ai meravigliosi esempi di felicità e di prosperità che li accompagnano quasi inevitabilmente nella strada dissoluta che hanno scelto.

Certo è spaventoso dover dipingere, da una parte, le tremende sventure di cui si serve il cielo per affliggere la donna dolce e sensibile che rispetta, come meglio le riesce, la virtù; dall’altra, l’influenza delle prosperità su coloro che la tormentano o la mortificano.
Ma l’uomo di lettere, sufficientemente filosofo per affermare il vero, sovrasta queste contrarietà e, per necessità crudele, strappa spietatamente con una mano i superstiziosi ornamenti con cui la stupidità abbellisce la virtù, e con l’altra mostra sfrontatamente, all’uomo ignorante e perciò ingannato, il vizio coronato dal fascino e circondato dalle gioie.

(Sade, La nouvelle Justine)

***

Il carattere propriamente originale dell’opera del marchese di Sade non si esaurisce in una serie di nozioni di pura erotologia. I suoi due romanzi più importanti, Justine e Juliette, hanno il carattere del romanzo se non «a tesi», almeno «di idee», il cui fine è dimostrare due cose: in primo luogo che l’adesione all’ateismo integrale comporta, e tanto più rende obbligatoria, una amoralità assoluta (è la conseguenza negativa della sua tesi); e in secondo luogo lo svilupparsi, per mezzo dei suoi personaggi, di una metafisica della prostituzione universale come conseguenza positiva dell’ateismo.

Attraverso le sue figure egli descrive esperienze per sé incomunicabili nel doppio senso del termine: estranee come era d’obbligo alle nozioni della psicologia completamente razionalista del suo secolo, ma perfettamente accessibili a tutti i praticanti del vizio di ogni epoca.
Se i manuali del vizio formano dalla notte dei tempi un genere particolare ma universalmente diffuso, nessuno però aveva ancora pensato, prima di Sade, di interpretare simili esperienze sui generis, né di costruire una teoria filosofica del vizio sotto forma di un’antropologia, di una scienza dell’uomo che veniva alla luce da un principio contraddittorio: il godimento nella distruzione dell’oggetto del godimento.

Sade era troppo legato intellettualmente al proprio secolo per accorgersi della profonda affinità fra questo campo di ricerche e le religioni delle civiltà scomparse. Tuttavia, la sua potenza immaginativa non volle accontentarsi dell’ascolto dei frequentatori di case chiuse e degli amatori di una pornografia tradizionale.
Per Sade, il desiderio è assoluto: inseparabile dal fatto di esistere, il desiderio è nondimeno sfida a tutto ciò che esiste; e tutto ciò che esiste non potrà mai appagare il desiderio. Qual è dunque il suo rapporto con la prostituzione?

La prostituzione è la messa in comune, imposta o deliberata, dell’io. Dio era stato il garante dell’identità dell’io, della sua proprietà, della sua intimità; se Dio non è, allora gli esseri devono reciprocamente appartenersi, e si appartengono tanto virtualmente quanto concretamente per realizzare il supremo godimento: cioè la distruzione dei loro limiti individuali, sia quelli sociali che quelli morali.
Tale è il tema fondamentale di questi due romanzi che, se esibiscono un’intenzione filosofica, non vengono meno, d’altra parte, ai loro caratteri di romanzo. Perché questo?

Sade non costruisce un’utopia della prostituzione universale. Tutt’al più descrive un’utopia della trasgressione, anzi un’utopia del crimine. La sua immaginazione si muove in funzione degli interdetti, dei tabù di una determinata società, in un determinato tempo. Perfettamente cosciente del carattere aleatorio delle idee che avanza, lo è anche dell’effetto romanzesco che può e che sa sviluppare. Il suo fantasma ideologico lo interessa soltanto per gli sconvolgimenti che deve suscitare, e non in vista di un sistema accolto pacificamente e senza contrasti.

È per questo che, tanto nel suo vocabolario quanto nelle sue messinscene, conserva un’orditura convenzionale, che sta ai suoi personaggi distruggere o difendere. Se tutto deve confluire in una messa in comune degli individui, essa potrà enunciarsi e verificarsi soltanto attraverso le nozioni, i tabù che trasgredisce, cioè attraverso un sommovimento adulterato degli individui affondanti in una totale indifferenziazione dei sessi, innalzata così a legge di comunicazione degli esseri.
Da qui si deve partire per comprendere la distribuzione dei ruoli assunti dai personaggi: gli uni passivi e interdetti, gli altri attivi e trasgressivi. Ma, invece di attenersi a una distribuzione schematica dei ruoli, Sade descrive la loro natura già divisa all’interno – quella dei passivi attraverso la disintegrazione del loro io, della loro coscienza, e quella degli attivi attraverso la rincorsa a nuovi tabù, a nuovi imperativi dettati dalle loro trasgressioni.

I personaggi di Sade rispondono in tal modo a una triplice preoccupazione ideologica, psicologica, romanzesca. Vere e proprie idee in atto, le loro evoluzioni conservano un carattere didattico suscettibile di portare l’eventuale «discepolo» a interrogarsi sulle proprie inclinazioni, sulle proprie forze, sulle proprie debolezze prima di adottare ciò che pensa di mettere in pratica. Anche per questo motivo essi tendono a raggrupparsi in società a carattere massonico e iniziatico nel gusto dell’epoca.

Il contesto intellettuale contemporaneo costringeva Sade a razionalizzare fenomeni altrettanto intraducibili nel linguaggio e nelle norme del suo tempo. Ma queste norme si disintegrano sotto la pressione dei fenomeni che Sade introduce in letteratura. Ciò che il linguaggio del senso comune intende per «passione» non ha, di fatto, niente in comune con il contenuto che Sade attribuisce a questo stesso termine.
Le passioni sono ai suoi occhi soltanto perversioni rese innocue da quelle norme in uso che contribuiscono all’inganno universale, tanto sul piano della conoscenza quanto su quello della morale. Solo una critica delle norme metterebbe a nudo la discendenza dell’inganno dal gioco oscuro della perversione.

Tuttavia, lungi dal forgiarsi una terminologia adeguata, dal ricercare concetti che testimonino la distruzione della ragione, Sade si limita a fare opera di romanziere esprimendosi per mezzo di personaggi che parlano il linguaggio «normale» del suo inconfessato pubblico contemporaneo, di cui essi non sono peraltro che un sogno a occhi aperti.
Nei loro lunghi discorsi, la ragione è invocata e il senso comune è sollecitato soltanto perché chi parla possa farsi un’idea del proprio caso, dell’anomalia che rappresenta. Questa idea è possibile solo attraverso il linguaggio delle norme ricevute da cui continua a dipendere.

Ma, sia che voglia parlare soltanto prima di cedere a un impulso, sia che lo voglia fare dopo averlo placato – non per portare circostanze attenuanti ma per meglio realizzare nella parola ciò che non è stato possibile nei gesti – egli testimonia la preoccupazione non morale ma intellettuale dei personaggi di Sade, presso i quali la parola crede ancora di poter strappare alla schiavitù delle passioni degli atti liberamente pensati.
Anche il perverso si vuole e si crede «ragionevole», anche il perverso non saprebbe mai ammettere la propria intrinseca mostruosità – benché ne faccia uso scientemente per terrorizzare i difensori delle norme – cercando al contrario quelle che potrebbero corrispondere al suo sistema incomprensibile, alle quali obbedisce con altrettanta «ragione» ma in un modo contraddittorio, dal momento che le enuncia secondo le regole ricevute.

Di fatto, sembrerebbe che, se questi atti non avessero significato ai suoi occhi, sia pure il senso del non senso stesso, egli non potrebbe spingersi così oltre. In tal modo il ragionamento con cui il perverso introduce le sue azioni si ripercuote sul suo modo di usare la propria anomalia, così come questa agisce sull’uso che egli fa qui della sua ragione.
Dal che nasce come un’obbligazione contratta nei confronti dell’idea, mentre all’origine non c’era che il bisogno di soddisfare un cieco impulso. Ma, più questa idea gli sembrerà ragionevole alla luce dei suoi sillogismi, più l’aberrazione gli sembrerà necessaria, più la perversione sembrerà il giusto e degno compimento, perché l’anomalia non potrà mai esaurire l’idea che progetta.

Tra i suoi personaggi di ineguale importanza, Sade ha affidato l’avventura delle sue idee a due figure femminili perché le sostenessero, ciascuna alla sua maniera, una subendole, l’altra sperimentandole: sono le due sorelle Justine e Juliette in cui pare riconoscersi interamente, preferendole ai personaggi maschili.
Narrare le vite parallele di due ragazze ugualmente belle ma di temperamento diverso, che, gettate in situazioni analoghe, reagiscono ciascuna secondo princìpi e umori opposti, presentava senza dubbio un grande interesse morale e un sicuro vantaggio per le sue dimostrazioni. Per di più, è evidente che, identificandosi con i suoi due personaggi femminili, provando personalmente su di sé tutte le emozioni che una donna può provare, il creatore di Justine e Juliette attingeva nel proprio fondo, così come in quelle delle sue esperienze eterosessuali, la sostanza delle due figure.

Nel personaggio di Justine, Sade potrebbe avere espresso i tormenti e le amarezze della propria coscienza, le umiliazioni, le prepotenze subite a causa della propria sincerità. Di fatto, la sorte di Justine, che personifica la morale cristiana, vissuta con l’ingenuità della propria sensibilità, potrebbe, mutatis mutandis, rappresentare la sorte di colui che, per aver tratto tutte le conseguenze morali dalla sua professione di ateismo, si vedrebbe esposto a tutte le persecuzioni da parte di una società apparentemente cristiana.
È tuttavia nel seno di questa società che si evolve Justine, nel seno di questa società di cui, con la sua onestà, crede di fare il gioco. Ora, precisamente questa società non esiste, non più di una natura umana «normale».

Fedele a questa illusione, Justine diventa il pretesto e il punto di partenza per lo sviluppo di tutte le turpitudini, di tutte le perversioni, di tutti i crimini, cioè di tutte le «anomalie». Anzi, è per effetto di questa sua illusione, di questa sua purezza, in qualunque luogo essa appaia, che Justine scatena il male nei diversi personaggi che incontra.
L’attrazione che esercita sugli uomini e sulle donne le procura la conoscenza, da parte degli altri, di nuove forme di perversione; tuttavia, i dilemmi che le suscita la sua purezza d’animo in ogni nuova situazione la rendono complice dei crimini perpetrati intorno a lei.

Justine personifica dunque da sola il tabù indispensabile per l’impresa sadista. L’azione si svolge a partire dalla situazione esistente, a partire dalle norme costituite, a partire dalle istituzioni: si tratta di oltraggiarle all’interno stesso del personaggio femminile che ne è il portavoce senza sosta provocato, violentato e spesso piangente.
Mostrando Justine sempre uguale a se stessa dal primo stupro fino alle peggiori turpitudini, Sade riesce a sfruttare con tanto maggior vigore lo sgomento e la miseria di una coscienza ridotta alle sue estreme difese, là dove si vede toccata nell’inviolabile possesso di sé, nella rappresentazione che l’io si fa della propria integrità, quando la coscienza rimane sempre inseparabile dal corpo perduto ai suoi occhi, benché i riflessi carnali minaccino di tradire la sua intimità. Questa vive nel rischio dell’alienazione dell’io da sé, dunque della perdita della propria identità.

Justine fa in tal modo esperienza della coscienza infelice per non aver voluto ammettere la realtà assoluta del male nella propria carne né la perversità nella propria natura: poiché il lato più tremendo delle sue umiliazioni è di provare a sua volta i godimenti interdetti che le vengono inflitti dai suoi carnefici.
Questo è il fine dell’operazione sadista sperimentata sul personaggio di Justine. L’originalità consisteva nel dipingerla in modo tale che il lettore potesse seguire il ripercuotersi di ogni operazione nella coscienza dell’eroina fino a vedere Justine, ormai fuori di sé, attaccarsi ai princìpi della propria coscienza: «Sempre in bilico fra vizio e virtù, bisogna dunque che la strada della felicità non si apra mai, per me, se non concedendomi alle infamie!».

La figura di Juliette, concepita molto più tardi di quella di Justine, è anche per questo più complessa: la prospettiva di Justine era quella della vittima nella sua illusione delle istituzioni e delle norme. La prospettiva di Juliette è quella dei carnefici e dei mostri nelle cui mani si trovano le istituzioni sfruttate ai fini delle loro anomalie.
Juliette, anche lei, vuole restare uguale a se stessa, ma nel crimine, e solo dopo averne percorso la strada. Dal momento che per lei e per i suoi compagni bisogna a ogni occasione concedersi per godere della trasgressione tanto sulla propria persona quanto su quella degli altri, bisogna che ci sia, d’altra parte, la rappresentazione di una continuità che esige una regolarità del proprio darsi.

A sua volta, il piacere nella trasgressione si istituisce come una legge. Juliette finisce così per professare il codice di una nuova morale, quella della Società degli Amici del Crimine. Juliette abbraccia la prostituzione non per necessità né per semplice ricerca del piacere, ma come una incessante testimonianza dell’ateismo integrale. Essa si prostituisce e si presta a ogni mostruosità soltanto per dimostrare in tal modo l’inesistenza di un Dio garante della morale e dell’integrità dell’io. Contemporaneamente rifiuta il rispetto, la venerazione con cui le istituzioni pretendono di circondare la donna, e che ai suoi occhi rivestono l’aspetto delle catene e della schiavitù. […]

La sfrenata ricerca del godimento che procura l’atto di trasgredire gli interdetti e le norme, e che obbliga a sostenere una lotta senza quartiere contro i ritorni di sensibilità sotto forma di rimorsi fino a formarsi una coscienza apatica, questo genere di esercizio sviluppa poco a poco in Juliette un’energia virile per mezzo della quale non soltanto finisce per identificarsi coi suoi compagni maschi, ma per superarli: in quanto donna, oggetto della loro aggressività, essa interiorizza la loro violenza, la loro crudeltà fino a farne il proprio volere.

Ciò che restava esterno alla personalità di Justine diventa implicito in quella di Juliette. Ciononostante, l’energia e il suo imperativo di trasgressione delle norme prevalgono alla fine sullo scopo della ricerca, rovesciando la posizione iniziale: il godimento. Questo è diventato soltanto un mezzo e un segno atto a verificare la capacità di energia dell’anima. Nel godimento dell’orrore e della malvagità, l’anima deve provare che l’energia è al suo massimo. […]

Che cos’è l’anomalia, la perversione, la mostruosità? Un’organizzazione nociva e contraria alla conservazione della specie.
Che cos’è l’ateismo? Un atto di ragione, secondo il quale la credenza nell’esistenza di Dio, la religione, i suoi dogmi, le sue istituzioni sarebbero cose ugualmente nocive alla conservazione della specie. la ragione stessa e le sue norme costituiscono dunque ciò che garantisce questa conservazione e l’uso della ragione non è universalmente valevole se non quando coincide con una definizione dell’uomo.
Ma se è conforme alla ragione così definita negare l’esistenza arbitraria di un Dio, come può questa pratica della ragione pervenire agli atti più mostruosi e, per essere integrale, approdare alla mostruosità integrale, dunque al trionfo dell’anomalia? Il moralismo ateo non perdonò mai a Sade di avere soltanto aperto questa prospettiva.

Ancora di più – obietterà questo moralista nel suo linguaggio – non esiste forse un’anomalia stridente tra la ragione e il desiderio mai soddisfatto dai più mostruosi godimenti come appare in Juliette? La religione, al contrario, non è forse legata al desiderio, non è forse il prodotto del suo inappagamento e, dal momento che reprime il desiderio nel sensibile per estenuarlo nello spirito e nell’immaginazione, non risponde, in quanto anomalia collettiva e individuale, a un istinto di crudeltà e di crudele godimento che la ragione condanna in nome dell’umanità? Perché gli adepti della crudeltà non dovrebbero trovarsi a loro agio? Ed essi lo sono, infatti, che lo confessino o no, come Sade ha mostrato in Justine. In quale altro luogo, il godimento della bestemmia, del sacrilegio, della violenza e della malizia, troverebbe libero corso? (Che la bestemmia, il sacrilegio e altre trasgressioni costituiscano da sole delle espressioni e dei fenomeni di natura religiosa, ecco ciò che non poteva apparire con tutta evidenza agli occhi di una forma di ragione che escludeva la contraddizione).

Ora, la storia di Juliette dimostra che la mostruosità viene ammessa solo come testimonianza di ateismo e l’ateismo viene voluto solo come motivo razionale della perseveranza nell’anomalia. È per questo che i personaggi di Sade scelgono i perversi tra i perversi, come dire che riconoscono i sodali: quelli che soffrono passivamente la loro natura anormale e quelli che l’affermano in modo tale che il vuoto lasciato dall’assenza di Dio venga immediatamente colmato dalla mostruosità integrale.
Ma questa attitudine «pre-niciana» – nella misura in cui la mostruosità integrale preluderebbe al Dionisismo di Nietzsche – non rimane isolata nel contesto nozionale nel quale si sviluppano i personaggi di Sade, ricoprendo una contraddizione inerente ai concetti di cui Sade si serve per pensare ed esprimersi.

Redazione

(Klossowski, Justine e Juliette)

 

 

 

 

 

Approfondimenti del Blog

Il marchese de Sade, tra scandalo, perversione e letteratura

 

Carica ulteriori articoli correlati
Carica altro Redazione Inchiostronero
Carica altro FILOSOFIA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Controllate anche

«ELOGIO DELLA SARTINA»

Il pretesto di questo articolo, che avevo in mente di scrivere già da un po’ di tempo... …