La sofferenza è una prova altissima che Dio riserva ai servi di cui è fiero. (Gen 22). 

Oggi milioni di persone subiscono gravissimi tormenti in mancanza di cure adeguate. Alleviarne il supplizio è un esigenza che rientra nella tutela de diritti umani.

Il servo conosce la sofferenza nelle sue forme più terribili e scandalose. Come dice Isaia essa ha compiuto su di lui tutte le sue devastazioni e lo ha sfigurato a tal punto da non provocare neppure più la compassione. Cristo è l’uomo dei dolori, in cui si incarna la misteriosa figura del servo sofferente, sensibile a ogni dolore umano. La sofferenza, dice Giovanni, è beatitudine perché prepara ad accogliere il Regno, permette di “rivelare le opere di Dio” (9,3). Gesù “si turba” al pensiero della passione, il suo dolore diventa angoscia mortale, concentra tutta la sofferenza umana possibile, dal tradimento fino all’abbandono di Dio. Questo momento coincide con il dono espiatorio della sua vita, per il quale è stato inviato nel mondo secondo gli eterni disegni del Padre (Atti 3,18)

Se per i cristiani la sofferenza è un atto che Dio ci chiede per poter ambire al regno dei cieli, non così per gli antichi greci.  

La grandezza dei Greci, scrive Nietzsche, consiste nel fatto che hanno avuto il coraggio di “guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e le atrocità dell’esistenza” senza lenirli con speranze ultraterrene. Ciò fu loro possibile a partire dalla concezione che avevano della natura. Non creatura di Dio regolata dalla sua provvidenza, ma sfondo immutabile “che nessun Dio e nessun uomo fece”, dove il ciclo governa il generarsi e il dissolversi di tutte le vite, secondo necessità. I greci prendono sul serio la morte, pensano che al pari degli animali e delle piante, l’uomo nasce, cresce e muore. Il dolore che non ha nessun significato nel mondo greco, è semplicemente ciò che accade nella vita, e nei confronti del dolore gli atteggiamenti da assumere sono quelli di reggerlo e di astenersi da tutte le lamentazioni. Il detto storico: substine ed astine, reggi il dolore e astieniti dalla lamentazione.

Dunque il dolore.

Il dolore e i rimedi per non lasciarsi sopraffare accompagnano la storia dell’uomo da migliaia di anni. Come lo sappiamo? Da testimonianze  che risalgono addirittura a 6.000 anni prima di Cristo, si tratta di reperti archeologici che suggeriscono come la popolazione della valle di Nanchoc in Perù e altre parti dell’America Latina avessero già le idee abbastanza chiare sul dolore. Lo placavano (o cercavano di farlo) masticando foglie di coca. Anche Persiani ed Egizi avevano imparato a classificare diverse tipologie di dolore, da quello urente per esempio, qualcosa che ti brucia dentro, a quello provocato da chi ti colpisce con un coltello, al dolore dei calcoli renali. E quando non si trova una causa? Allora si pensava che il dolore venisse da demoni, fantasmi e persino dagli dèi; questo però non impedì a quelle popolazioni di cercare un rimedio: magia, fatture, preghiere soprattutto.

Così gli Egizi, e i Sumeri prima di loro, scoprivano le proprietà antidolorifiche dell’oppio e lo impiegavano per malattie gravi e altrimenti incurabili, ma anche per cose da poco, le coliche addominali dei neonati per esempio; e poi – davvero incredibile a pensarci oggi – per «facilitare il passaggio all’aldilà». Nessun faraone si sarebbe mai fatto seppellire senza  il suo corredo di papaveri di oppio. Omero conosceva bene l’oppio e le sue virtù (cos’altro avrebbe potuto mettere Elena, figlia di Zeus, nel vino di Telemaco che poté attenuare l’angoscia dei ricordi?). Ma ci volle la lungimiranza di Ippocrate per contestare le cause soprannaturali alla base della sofferenza e riconoscerne invece il legame con le malattie, e darne un’interpretazione nuova.

Il dolore è anche utile.

Un neurone.

Il dolore è spiacevole, si capisce – sosteneva Ippocrate – ma è anche molto utile, rappresenta un segnale d’allarme che qualcosa non va e ci dice anche dove non va, da che parte, in che organo. Così Ippocrate istruirà generazioni di medici all’arte della diagnosi, che comincia da due domande «ti fa male?» e poi «dove ti  fa male?». Si parte sempre da lì. Insomma, c’è persino qualcosa di buono nel dolore. È un avvertimento prezioso perché sapere cosa ci fa male aiuta a capire perché questo succede e che malattia si nasconde dietro quel dolore.

A Roma, Traiano, Adriano e Marco Aurelio consumavano oppio quanto vino, ma anche la gente comune aveva accesso all’oppio, in un dolce,  una specie di marzapane fatto di miele, frutta e fiori, incluso il frutto dei papaveri da oppio. Nei secoli successivi la storia dell’oppio si integra con i fondamenti della farmacologia moderna. C’erano a Bagdad (nel 900-1000 dopo Cristo) farmacie famosissime: «Gli ammalati vengono da noi per il dolore o perché hanno paura – scrive Avicenna(1)– l’oppio funziona per tutti e due ma ci vuole grande prudenza». Il problema era proprio quello, la variabilità della potenza sedativa da pianta a pianta, così l’effetto antidolorifico dell’oppio era imprevedibile. Finché un farmacista tedesco, Friedrich Sertürner(2), dai papaveri da oppio ottenne la morfina, più potente e più affidabile dell’oppio, che divenne presto, ed ancora oggi, il cardine delle cure per alleviare il dolore dell’uomo.

A metà degli anni Sessanta Melzack(3) e Wall proponevano che fosse il midollo spinale l’arbitro del dolore, che funzionava un po’ come un cancello che si apre e si chiude per lasciare che stimoli dolorosi dei nervi periferici arrivassero al cervello o impedissero che questo succedesse. Sarà vero? Probabilmente no, ma questo ha influenzato moltissimo gli studi successivi. Che hanno anche ricevuto a metà  degli anni Settanta un grande impulso  dalla scoperta che l’organismo di ciascuno di noi sa sintetizzare i suoi oppiacei per difendersi naturalmente dal dolore; li hanno chiamati encefaline o endorfine, le fabbricano le cellule del cervello. Queste sostanze funzionano legandosi a certi recettori che, manco a dirlo, sono gli stessi che utilizza la morfina per placare i dolori.

Adesso, grazie a tomografia a emissione di positroni e risonanza magnetica funzionale, siamo persino in grado di vedere le aree del cervello che si accendono quando proviamo dolore e di capire come questo sia influenzato dai nostri stati emotivi, e da quanto ci aspettiamo possa essere intenso il dolore che proveremo in base alle esperienze precedenti. Solo un anno fa si è capito perché i maschi e le femmine – dei topi perlomeno – non provano dolore allo stesso modo e perché gli antidolorifici non hanno lo stesso effetto in ciascuno di noi. È una questione di ormoni e poi di cellule del cervello che insieme formano la micro-glia(4) e c’entra persino il sistema immune, che contribuisce alla sensazione di dolore solo nelle femmine. E c’è chi (si tratta di casi rarissimi) il dolore non lo sente proprio a causa di una mutazione in uno o in qualcuno dei geni che sembrano coinvolti nelle sensazioni dolorose.

Il gene o i geni del dolore.    

Il gene o i geni sono almeno mille. Ma in una pletora del genere, come li si trova quelli importanti? Una strada è quella di studiare il dolore in certe malattie rare che si manifestano in poche famiglie, chi si ammala di queste malattie può avere diverse manifestazioni cliniche associate a dolore. Prendiamone una tanto per fare un esempio, ha un nome difficile “eritromelalgia”(5), ci sono 30, forse 40 famiglie nel mondo in cui si è manifestata questa malattia che è dovuta alla mutazione del gene responsabile di un eccesso di attività in uno dei tanti canali del sodio. Chissà che un giorno gli scienziati non riescano a modulare l’attività di questa proteina; si potrebbe così arrivare a un farmaco capace di controllare il dolore a carico dei nervi periferici, quelli di chi soffre di diabete per esempio, senza gli effetti negativi dei farmaci che usiamo oggi (sonnolenza, confusione e assuefazione per esempio). Gli altri tentativi – quelli che pretendevano di trovare il gene giusto studiando il Dna di un gran numero di pazienti che hanno dolore – non hanno portato a niente di concreto ed è difficile pensare che in futuro ci saranno risultati interessanti da queste ricerche.

Corteccia cingolata.
Regione del talamo.

Altri studiosi hanno seguito una strada diversa, avrebbero voluto provare a togliere il dolore intervenendo direttamente sull’area del cervello che si attiva quando si sente male. L’idea era buona, ma la cosa è complessa perché la sensazione di dolore non è associata a una regione sola del cervello, ma a numerose aree che fra l’altro dialogano tra loro, questo rende tutto, ammesso che sia possibile, ancora più complicato. Una di queste aree è la corteccia pre-frontale – che è anche la sede dei processi cognitivi più sofisticati – ma ci sono anche il  talamo, la corteccia cingolata anteriore, l’insulina e altre aree ancora. Queste aree si attivano quando si ha la reazione spontanea di allontanare le mani dal fuoco se si sente caldo, ma sono anche le regioni coinvolte nelle emozioni; insomma, nessuna di queste aree serve solo a sentire dolore, tutte hanno anche altre funzioni, tutte estremamente complesse; quella di avvertire e governare il dolore è solo una delle tante. E così quella di intervenire sulle aree del cervello per togliere il dolore resta una chimera.

Insomma, è quasi impossibile ma, per quanto sia difficilissimo, i ricercatori vanno avanti. Con un limite però che condiziona fin dall’inizio tutti questi studi: saremo mai capaci un giorno di stabilire in modo obiettivo quanto dolore prova una certa persona? Nessuno può ancora dirlo, ma chissà che non ci si arrivi davvero. Certo sarebbe molto prezioso per tutti gli studi pensati per lenire le sofferenze poi per lo sviluppo di nuovi farmaci, ma anche per sapere quanto soffrono le persone che non sono in grado di esprimersi: i neonati per esempio o le persone in coma o quelle affette da demenza.

L’effetto placebo.

Qualche volta persino delle pillole inerti possono far passare il dolore, si pensava fosse tutto illusorio ma adesso le cose stanno cambiando. Un po’ anche per merito di Jon Levine, un neuroscienziato dell’Università di San Francisco negli Stati Uniti che, quasi quarant’anni fa, infondeva soluzione salina a pazienti che dovevano essere operati, dicendo loro però che si trattava di morfina, e molti sostenevano di non aver provato dolore. Poi quei ricercatori hanno fatto una cosa abbastanza sofisticata: hanno aggiunto naloxone, che blocca l’azione della morfina legandosi ai recettori per  gli oppiacei del cervello. A quel punto gli ammalati tornavano a provare dolore.

Com’è possibile? La questione è che, quando si inietta un placebo, il cervello si organizza per rilasciare oppiacei endogeni di cui fanno parte, come abbiamo visto, anche le endorfine. Queste si legano ai recettori degli oppiacei nelle aree del cervello coinvolte nel provare dolore. E le endorfine non sono le uniche sostanze nell’effetto favorevole del placebo, ci sono anche gli endocannabinoidi che si legano agli stessi recettori dei costituenti psicoattivi della cannabis. E vale lo stesso per la dopamina. E non basta, certe volte il placebo riduce i livelli di prostaglandine, limitando la vasodilatazione che è anche in parte responsabile del dolore. La liberazione di questi ormoni insomma fa parte della risposta psicologica dell’ammalato all’idea di essere trattato. E la cosa più stupefacente è che tutto questo si può misurare, di nuovo con risonanza magnetica funzionale. Quando si somministra placebo certe aree del cervello che si attivano in seguito al dolore tornano silenti, per lo meno in alcuni casi.

Come applicare tutte queste conoscenze alla pratica clinica.

Sono state tentate varie strade, la più convincente è di spiegare agli ammalati candidamente quello che conosciamo oggi sull’effetto placebo e far capire loro come ci siano forti basi biochimiche che spiegano la risposta al placebo. Se tutto questo è vero (il malato può sperimentarlo su se stesso), si spiegherà che l’impiego del placebo può ridurre la necessità di ricorrere ai farmaci. Per qualche paziente sapere che sta prendendo il placebo e avere informazioni corrette sui suoi possibili effetti reali, e non illusori, lo rende più consapevole del ruolo della propria mente nel controllare il dolore e riesce persino a cambiare il suo rapporto con il dolore.  L’effetto placebo non è mai stato preso troppo sul serio, adesso per molti pazienti potrebbe diventare quasi il primo tentativo, prima ancora di dover ricorrere ai farmaci per lenire le sofferenze.

Quanti hanno dolore nel mondo.

Sono almeno un miliardo di persone e parliamo solo di chi soffre per malattie croniche: il dolore quando non passa mai ti toglie il sonno, il desiderio di stare con gli altri, la possibilità di lavorare, la voglia di vivere in una parola. E qui medici, infermieri e la società tutta hanno una grande responsabilità. Vorremmo prevenire l’abuso di questi farmaci ed è certamente giusto, ma non possiamo continuare a tollerare persone che soffrono inutilmente. Dobbiamo entrare in un altro ordine di idee tutti: politici, chi governa la sanità. Intellettuali e gente comune. Ci vogliono un’altra responsabilità e un livello di attenzione completamente nuovo, che riconosca l’alleviare i dolori come parte dei diritti umani.

Noi almeno gli antidolorifici li abbiamo e ce ne saranno sempre più; una di queste molecole, la deidrocoribulbina, per esempio oggi si estrae da un’erba cinese che là si usava contro il dolore da centinaia d’anni, adesso sappiamo che quel composto si lega ai ricettori della dopamina ed è persino più potente degli oppiacei. Ma ci sono al mondo milioni e milioni di persone che sui farmaci per lenire il dolore non possono contare nemmeno se stanno malissimo, nemmeno nei centri di cure palliative. O perché deve loro vivono farmaci non ce ne sono proprio o perché non si hanno abbastanza soldi per comprarli. Tutto questo non lo possiamo  accettare, anche se succede lontano da noi.

NOTE

  • (1) Ibn Sinā, più noto in occidente come Avicenna (Afshona, 980 – Hamadan, giugno 1037), È stato un medico, filosofo, matematico e fisico persiano. I suoi lavori più famosi sono Il libro della guarigione e Il canone della medicina, anche conosciuto come Qānūn (in Occidente Canone). Fu una delle figure più note nel mondo islamico; in Europa Avicenna diventò un’importante figura medica a partire dal 1000, scrivendo importantissime opere rimaste incontrastate nello studio della medicina per più di sei secoli. È considerato da molti come “il padre della medicina moderna”. George Sarton, storico della scienza, ha indicato Avicenna come: “il più famoso scienziato dell’Islam e uno dei più famosi di tutte le razze, luoghi e tempi”.
  • (2) Friedrich Wilhelm Adam Sertürner(1783-1841).È stato un farmacista tedesco. Isolò la morfina dall’oppio e scoprì così una nuova classe di farmaci: gli alcaloidi. Nel 1805 trovò nell’oppio un acido libero (acido meconico). Riuscì a isolarlo e ad analizzarne le proprietà. Poco dopo scoprì la morfina (da Morfeo, dio greco del sonno), “il principio sonnifero” come si chiamava allora. Nel 1831 ricevette il Premio dell’Accademia Parigina per aver scoperto una nuova classe di farmaci: gli alcaloidi. Nel 1841 morì di un’infezione febbrile a Hameln.
  • (3) Ronald Melzack, (1929). È uno psicologo canadese e professore emerito di psicologia alla Mc Gill University. Nel 1965, lui e Patrick David Wall rivoluzionarono la ricerca sul dolore introducendo la teoria del controllo del gate sul dolore. Nel 1968, Melzack pubblicò un’estensione della teoria del gate control, in cui affermava che il dolore è soggettivo e multidimensionale perché diverse parti del cervello contribuiscono allo stesso tempo.
  • (4) Le cellule della glia, dette anche cellule gliali o neuroglia, sono cellule che, assieme ai neuroni, costituiscono il sistema nervoso. Hanno funzione nutritiva e di sostegno per i neuroni, assicurano l’isolamento dei tessuti nervosi e la protezione da corpi estranei in caso di lesioni. Per oltre un secolo, si credeva che non avessero alcun ruolo nella trasmissione dei segnali elettrici; recenti studi hanno screditato questa teoria, anche se il loro meccanismo di funzionamento non è stato ancora ben compreso.
  • (5) L’eritromelalgiao Malattia di Mitchell, conosciuta anche come acromelalgia è una rara sindrome da vasodilatazione parossistica da aumento della temperatura cutanea con arrossamento dei piedi e, meno di frequente, delle mani. La malattia è stata descritta e denominata nel 1878 dal medico statunitense Silas Weir Mitchell. Nel 2004 l’eritromelalgia è divenuto il primo disordine umano nel quale è stato possibile associare una mutazione a carico dei canali ionici con dolore neuropatico cronico.
  • Fonte: Wikipedia. 

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