”Quello più celebre sicuramente riguarda “La Signora”, l’affascinante e peccaminosa Monaca di Monza dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, che ha ispirato libri, film, dipinti e fumetti, tra ricostruzioni storiche e interpretazioni pruriginose.
Ma nel corso dei secoli si è sviluppata un’abbondante produzione storico-letteraria su amori illeciti nei conventi, molti dei quali riconducibili a fatti reali.

Gli scandali che coinvolgono religiosi hanno sempre sollevato indignazione, ma esercitato un certo fascino sull’opinione pubblica. E appunto sugli uomini di lettere. Giovanni Verga nella sua Storia di una capinera (1870-1871) narra l’amore impossibile di Maria, costretta come un uccello in gabbia alla vita monastica, per il giovane Nino: una passione che la porterà alla follia e alla morte. Il libro rievoca l’innamoramento dell’autore per una giovane educanda del monastero in cui era suora sua zia. Realmente accaduta è la vicenda cui si ispira Denis Diderot nel libro La monaca (uscito postumo nel 1796), in cui la ribelle Suzanne, rinchiusa in un convento contro la propria volontà, racconta le violenze subite e le molestie sessuali a opera di una superiora. E ancora: esplicito è il titolo L’inferno monacale, di Arcangela Tarabotti, monaca e scrittrice della prima metà del Seicento, anch’essa condannata alla vita claustrale. La sua condizione non le impedì di pubblicare libri e avere frequentazioni, seppur dietro la grata, con intellettuali, politici e dame influenti del tempo. In effetti all’epoca, a Venezia e non solo, i parlatori dei conventi somigliavano a salotti ed erano spesso frequentati dai cosiddetti “monachini”, gentiluomini che con vari pretesti visitavano le monache per corteggiarle.
Roma e le sue tante prostitute.
Città santa ma anche luogo di postriboli e salotti compiacenti. In pieno Rinascimento le prostitute erano circa 7mila su 50mila abitanti. Nel 1566 Pio V decise di cacciarle, ma dovette desistere perché tra le meritrici e protettori se ne sarebbero dovute andare in 25mila. Meglio, si pensò, di regolamentare e far pagare le tasse. Le prostitute vennero così chiamate “donne curiali”, perché dipendevano dalla Curia che rilasciava licenze per l’esercizio della professione e incassava parte degli introiti: con essi i papi finanziarono opere pubbliche come il Borgo Pio e il restauro del Ponte Santa Maria.Sesso e inquisizione
Alcune vicende, invece, più che le pagine dei romanzi finirono per riempire carte processuali. Basti pensare al polverone sollevato dalla principessa Katharina von Hohenzollern. Lo scandalo, nella Roma di metà Ottocento, sfociò in un processo presso il tribunale della Santa Inquisizione, nonostante i tentativi della Chiesa di soffocarlo. Questi i fatti: entrata in monastero di propria volontà, dopo una vita come moglie e madre, la nobildonna, influente e vicina ad alti prelati e al papa stesso (Pio IX), lanciò varie accuse alla consorelle. Compreso il tentativo di avvelenarla per farla tacere su ciò che di turpe accadeva nel convento di sant’Ambrogio. Ma che cosa accadeva, esattamente?
Le monache veneravano come una santa, anche dopo la sua morte, una badessa già condannata dall’Inquisizione per “affettata (cioè falsa, simulata, ndr) santità”; si celebravano riti di iniziazione saffica; la giovane e bella madre vicaria andava in (finte) estasi, aveva le visioni e di queste si serviva per manipolare le persone, seduceva le novizie e intratteneva rapporti “biblici” con un esterno e con un gesuita. I padri confessori sapevano, si prestavano al gioco e tacevano. C’erano tutti gli ingredienti per uno scandalo che infatti coinvolse novizie, badesse e alte gerarchie ecclesiastiche. Come finì? I colpevoli vennero condannati, anche se non sempre con giustizia e severità. Anzi, i “pezzi grossi” la passarono liscia. La sentenza non fu resa pubblica, né si seppero i nomi degli inquisiti, ma la stampa liberale dell’epoca venne a conoscenza del fattaccio e ne riferì ampiamente.
Dietro allo scandalo e dietro al processo che ne seguì c’erano, però, non tanto questioni e motivazioni morali, quanto lotte tra correnti teologiche e di politica ecclesiastica. La stampa liberale, d’altra parte, poteva sfruttare l’affaire in funzione antipapale: non dimentichiamo che il potere temporale del papa ostacolava l’unificazione italiana. Ma questa è un’altra storia.
Complotti
Notizie di scandali in seno alla Chiesa trovarono terreno fertile, in Italia e in Europa, negli ambienti anticlericali dell’inizio del XX secolo. Nel 1907 la vicenda del collegio salesiano Don Bosco di Varazze (chiuso di recente) fece scoppiare violenze e moti contro la Chiesa che la stampa socialista sfruttò a dovere. Un giovane collegiale di ottima famiglia francese denunciò messe nere, orge tra frati, suore di un convento vicino e giovani convittori. In effetti, su alcuni ragazzi furono trovate tracce di sevizie e pi d’uno dei religiosi incriminati fece perdere le proprie tracce.
Sempre in quegli anni non mancarono altri episodi scabrosi a Torino, Milano, Brescia, Verbania. Tutti contribuirono ad alimentare fantasie su complotti massonici, sempre in funzione anticlericale, ma tra le mura dei conventi si nascondevano davvero tante sciocchezze?
Il problema era reale, e nascondeva una questione sociale. Sì, perché in passato vestire l’abito monacale era sovente una scelta obbligata, dovuta più a ragioni economiche e sociali che a una sincera vocazione.
Tutto ai maggiori
Era infatti a causa del cosiddetto maggiorasco (o maggiorascato) che molti figli di nobili erano destinati alla vita monastica, anche senza vocazione. Era un istituto di diritto successorio di origine spagnola e si affermò soprattutto nel XVI secolo. Il figlio maggiore ereditava l’intero patrimonio famigliare, mentre ai cadetti veniva imposta la carriera ecclesiastica o quella militare. Alle femmine, se non si sposavano perché prive di dote, restava solo la prima alternativa. Divenne una consuetudine in uso fino al XIX secolo: praticata da molte nobili famiglie, era finalizzata a conservare integra la ricchezza del casato.
Ma una dote era richiesta anche per entrare in convento: il governo veneziano, nel XVII secolo, arrivò a stabilirne l’ammontare. Ben sapendo che la maggior parte dei giovani prendevano i voti per forza, la Serenissima cercò di mitigare la regola degli ordini per rendere la vita più sopportabile, mentre la Chiesa la voleva rigida e severa.
Tra le donne curiali, erano ricercatissime le “onorate puttane”, le cortigiane brillanti e colte conversatrici, amanti della musica e della poesia, maestre nei piaceri. La loro vita era un costante contendersi favori dei potenti e si sfidavano a colpi di lusso anche alle messe nella chiesa a loro riservata, la Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio. Arrivavano con paggi e fantesche al seguito e si schieravano nelle prime file, per non distrarre i fedeli. Accorgimenti che non diminuivano la calca di ammiratori.
Così, teoria e pratica spesso non coincidevano. Le famiglie e la Chiesa, consapevoli della monacazione forzata, esercitavano pressioni sulle giovani infelici, perché a entrambi conveniva: il convento guadagnava con le doti, la famiglia manteneva infatti i beni e si sbarazzava di una zitella da mantenere. Perciò, se in convento si cedeva a qualche peccato carnale, spesso si fingeva di non vedere. Trasgressione e pratiche illecite nei conventi erano del resto la norma nel Rinascimento: alcuni monasteri venivano chiamati “aperti” perché ospitavano anche donne che volevano condurre una vita religiosa senza prendere i voti: ma erano più simili a bordelli che a conventi. Per questo gli Statuti criminali di Genova (del 1576) prevedevano pene severe, compresa quella capitale, e multe per chi avesse rapporti sessuali con suore o anche per chi entrasse in convento senza permesso. In caso di clausura, soprattutto, la “violazione” era considerata reato gravissimo. Con buona pace della Monaca di Monza e del suo amante.
Riccardo Alberto Quattrini