Se l’uomo avesse continuato a riconoscere i suoi limiti di fronte alla natura, oggi il mondo sarebbe diverso. Un viaggio tra la sapienza del limite greco e l’idea di dominio dell’uomo
SE LA NATURA FOSSE RIMASTA PHYSIS
Redazione Inchiostronero
Nel cuore della cultura occidentale si cela una frattura antica e profonda: quella tra la concezione greca della natura come physis – forza vivente, ordine immanente, principio autonomo – e la visione biblica che affida all’uomo il dominio sulla terra, investendolo di un’autorità che travalica il limite. Questo saggio esplora le radici di tale divaricazione, chiedendosi quale sarebbe stato il destino dell’uomo e del mondo se la natura fosse rimasta physis, ovvero se la prospettiva greca – fondata sul limite, sulla misura, sull’armonia tra umano e cosmico – avesse continuato a guidare la nostra civiltà. Attraverso un confronto tra ethos greco e teologia giudaico-cristiana, si analizza la trasformazione della natura da soggetto sacro a oggetto manipolabile, da alleata dell’uomo a risorsa da sfruttare. Dove i Greci ammonivano contro la hybris, la tracotanza di chi sfida l’ordine cosmico, il testo biblico proclama: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela». La riflessione si concentra sul passaggio da una saggezza ecologica, fondata sul riconoscimento del limite, a una volontà di potenza che giustifica ogni intervento sull’ambiente in nome di un mandato divino. In un mondo sempre più segnato da crisi ambientali e squilibri planetari, questa analisi vuole riscoprire l’antico senso della misura, domandandosi se non sia giunto il tempo di recuperare lo sguardo greco – non per nostalgia, ma per necessità. Rileggere physis significa rimettere in discussione la nostra centralità, riabitare il mondo come parte e non come padroni, immaginare un nuovo rapporto tra l’uomo e la terra che non sia più fondato sul dominio, ma sull’equilibrio.
L’uomo tra il limite greco e il dominio biblico
«Conosci te stesso» – ammoniva l’oracolo di Delfi – «e nulla di troppo».
In queste due sentenze scolpite nel marmo del tempio di Apollo si racchiudeva il senso della misura greca, la consapevolezza che l’uomo è fragile, finito, destinato a stare dentro un ordine cosmico più grande di lui. La Natura – Physis – non era un oggetto, ma un principio vivente, una forza generatrice autonoma, un insieme di leggi immanenti che regolavano il tutto. L’uomo, in essa, era parte, non padrone.

Per i Greci, violare questo equilibrio era la colpa suprema: hybris, tracotanza. E come tale, veniva punita non da un Dio esterno, ma dal cosmo stesso. Prometeo(1), che osa rubare il fuoco, viene incatenato alla roccia. Edipo,(2) che penetra il mistero, finisce cieco. L’ordine della Physis non tollera violazioni. L’etica nasce dal riconoscimento del proprio limite, non dal comando dall’alto. La saggezza è alleata della natura, non della volontà di potenza.
Tutto questo cambiò quando un’altra visione del mondo attraversò il Mediterraneo.
Il Dio della Bibbia, «creatore del cielo e della terra», affida l’universo all’uomo:
«Soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo…» (Genesi 1,28).
Lì, si compie una rottura. L’uomo non è più parte, ma fine del creato. Il mondo non è un ordine da rispettare, ma un dono da usare. La Natura diventa oggetto, materia, strumento. Inizia la lunga genealogia dell’antropocentrismo occidentale.
Ma è con Paolo di Tarso che questo schema si radicalizza. Paolo, e con lui gran parte del pensiero cristiano, opera un’ulteriore cesura: divide l’uomo in corpo e anima, natura e spirito, e assegna valore solo a quest’ultimo. «La carne ha desideri contrari allo Spirito» (Galati 5,17), scrive. La Physis, che per i Greci era sacra in sé, diventa inganno, caducità, tentazione. La salvezza non è più nella misura, ma nella trascendenza. L’anima deve liberarsi dal corpo come da una prigione.
Eppure, paradossalmente, questa “anima” l’aveva definita Aristotele. Ma in tutt’altro modo.
Per lo Stagirita, «l’anima è la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza» (De Anima, II,1): cioè è ciò che rende il corpo ciò che è, il principio interno del suo funzionamento. Non qualcosa da separare, ma da comprendere. L’anima non “abita” il corpo: è il corpo, in quanto vivente.
La teologia cristiana, nel tempo, deformò questa visione: l’anima divenne una sostanza autonoma, eterea, proiettata verso un altrove, estranea alla materia. Così, la natura – anche quella dell’uomo – fu disincarnata, e la Terra privata di ogni sacralità.
In nome dell’anima, il corpo fu mortificato. In nome del dominio, la natura fu asservita. E mentre i Greci temevano l’eccesso, la nuova visione lo legittimava come vocazione. L’uomo è a immagine di Dio, dunque signore della Terra. Il mondo è “altro da Dio”, dunque sacrificabile. Si può sfruttare, spezzare, bruciare: tanto la verità sta altrove.
È da questa radice che cresce, secoli dopo, la modernità. Cartesio, che dichiara «penso, dunque sono», separa la res cogitans dalla res extensa, lo spirito dalla materia, e sigilla l’antica frattura. Bacone(3) proclama che «la scienza deve strapparle i segreti» alla natura, come se fosse una donna da interrogare con la forza. L’uomo, da figlio della Terra, diventa suo carceriere.

(Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, 1607-1609)
Ma cosa abbiamo perso, in cambio del potere?

E proprio quando sembrava che la natura fosse ormai ridotta a cosa muta, ecco che la scienza ci sorprende: la Natura ci parla. Solo che non l’abbiamo mai ascoltata davvero.
Eppure, mai come oggi, la scienza – proprio lei, figlia della modernità – inizia a restituirci un’immagine della Natura molto più vicina alla Physis greca che alla materia morta cartesiana. Le foreste, ad esempio, non sono solo gruppi di alberi, ma comunità. Studi recenti hanno dimostrato che le piante comunicano tra loro, attraverso reti sotterranee di funghi – il cosiddetto “Wood Wide Web” – scambiandosi nutrienti, informazioni, persino “avvertimenti” in caso di pericolo. Alcuni alberi madri nutrono gli esemplari più giovani o malati, sacrificando le proprie risorse per garantire la sopravvivenza della collettività.
Non è poesia, è scienza. Eppure, è anche poesia: perché ci obbliga a riscrivere il nostro posto nel mondo. La Natura non è inerte. Non è silenziosa. Non è separata. È una forma di intelligenza diffusa, interconnessa, relazionale. Ed è proprio questa intelligenza che abbiamo ignorato, violentato, ridotto a “cosa”. Abbiamo parlato alla Natura come padroni, e lei ci ha risposto con la complessità di un ordine che non comprendiamo più.
Trattare la Natura come risorsa – e non come interlocutore – è stato il più grave errore di prospettiva della civiltà occidentale. Ma ora, forse, possiamo ancora imparare ad ascoltare. Non più per dominare, ma per coabitare.
La percezione del limite. Il senso di misura. Il rispetto per l’equilibrio. E con essi, anche la felicità sottile di sentirsi parte, non centro. Se la Natura fosse rimasta Physis, l’uomo sarebbe stato meno potente, ma forse più libero. Non padrone, ma fratello degli alberi, delle acque, delle stelle.
«Dove l’uomo misura, lì nasce la giustizia», scriveva Eschilo.
Noi abbiamo smarrito la misura. E ora, la Natura – da madre oltraggiata – si vendica.
L’uomo tra il limite greco e il dominio biblico
Il pensiero occidentale, nella sua versione più potente e insieme più tragica, nasce dalla promessa di salvezza per via di dominio. Liberare l’uomo dalla necessità, dalle paure, dalle superstizioni – ma a condizione di spezzare ogni vincolo con ciò che lo contiene: natura, corpo, il limite.
«Nel pensiero greco, il ‘limite’ (peras, πέρας) non è visto come un ostacolo negativo, bensì come una condizione fondamentale per la definizione e l’esistenza di ogni ente.»
«Non puoi aspirare all’infinito senza prima accettare la tua finitezza: ignorare il limite significa smarrire la misura dell’essere umano.»
Il risultato? L’uomo moderno ha vinto su tutto, tranne che su se stesso. Ha costruito città di vetro e acciaio, ha mappato il genoma, ha messo piede sulla Luna. Ma ha smarrito il proprio orientamento. «Tutto è possibile, dunque tutto è lecito» – così Dostoevskij (1821-1881) aveva già intravisto il vuoto che si spalanca quando ogni limite viene cancellato.

Nel mondo della Physis, la libertà non era illimitata, era situata. Nascere uomo significava accettare la propria parte: non più, non meno. La giustizia cosmica – la Diké la dea greca della giustizia, figlia di Zeus e Temi. – era equilibrio, non volontà. L’agire umano si armonizzava all’essere. «L’uomo giusto è colui che si adatta all’ordine del mondo», scriveva Eraclito. Non lo cambia, non lo violenta. Lo abita.
Ma nel mondo generato dalla visione biblica, la giustizia è obbedienza al comando, e il comando è dominio. La tecnica moderna ne è solo il compimento più estremo: ciò che Dio ha affidato simbolicamente all’uomo, la scienza l’ha trasformato in potenza effettiva. Oggi possiamo davvero soggiogare la Terra. E lo stiamo facendo: plastica nei mari, foreste rase al suolo, ghiacciai che si sciolgono, animali estinti ogni ora. Non più metafore, ma dati. E il silenzio di Dio – che nell’Antico Testamento parlava – ora è assordante. La Physis tace, o meglio: grida, ma non l’ascoltiamo.
«Soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo…» scriveva in (Genesi 1,28): parole che, oggi, suonano più come un monito che come un comando divino. Guardando la Natura devastata, sfruttata, ridotta a cosa, è inevitabile chiedersi dove abbia avuto origine la legittimazione di un dominio senza freni.
I Greci ci avevano avvertiti. “Nulla di troppo” (Mēden agan), ammoniva il tempio di Apollo a Delfi, mentre l’altro precetto, “Conosci te stesso” (Gnōthi seautón), ricordava all’uomo di non oltrepassare i confini della propria condizione mortale. La physis non era da soggiogare, ma da comprendere e rispettare: violarla significava commettere hybris, e la giustizia cosmica – dike – avrebbe ristabilito l’ordine con severità.
L’uomo greco non era signore del mondo, ma parte di un tutto ordinato, figlio del limite e non del privilegio. Forse è proprio in questo sguardo antico che potremmo ritrovare una via per risanare il legame spezzato con la Terra.
Eppure, qualcosa sta cambiando. Lentamente, per necessità più che per saggezza, riemerge il bisogno di un nuovo sguardo. La crisi climatica non è solo ecologica: è ontologica. Ci costringe a porre di nuovo la domanda originaria: chi è l’uomo? Un dominatore? Un custode? O un essere che ha confuso la libertà con l’impunità? Siamo costretti a riscoprire l’antica verità greca: non si può oltrepassare ogni limite senza conseguenze.
Prometeo ritorna, ma questa volta non come eroe del progresso, bensì come monito. «Io ho donato il fuoco, ma non ho insegnato come usarlo», sembra dirci ora. La tecnica moderna si è fatta fiamma instabile, che consuma senza misura, cieco, privo di ethos. È una ‘tecnica alla Eraclito’ solo in apparenza: somiglia al suo fuoco in continua trasformazione, ma ne ha perso il logos, cioè la legge interiore, la coerenza cosmica. Dove Eraclito vedeva tensione feconda, l’uomo moderno impone una volontà di dominio che rompe l’armonia. La tecnica, senza ethos, diventa hybris.”
O forse no. Forse è tardi. Ma anche la disperazione ha la sua dignità, se genera lucidità.
Serve una nuova alleanza con la Terra, ma non fondata su un ecologismo di superficie. Serve una metanoia: un cambiamento dello sguardo, del desiderio, del senso. Serve tornare alla Physis, non come nostalgia, ma come orizzonte possibile. Riscoprire che la natura non è uno scenario, ma un interlocutore. Che l’intelligenza non è solo calcolo, ma anche ascolto. Che l’anima non è disincarnata, ma vive nel respiro degli alberi, nel sangue, nel suolo.
Perché se la Natura fosse rimasta Physis, forse oggi saremmo meno ricchi, ma più vivi.
Meno longevi, ma più presenti. Meno liberi – nel senso illusorio della tecnica – ma più reali.
Epílogo
Tutto è cristianesimo, persino l’ateo che si crede libero ne porta l’impronta. Le leggi, la morale, perfino la scienza obbediscono alla sua struttura: c’è il peccato, la redenzione, il progresso come salvezza. E se anche la ribellione è scritta nel suo linguaggio, allora non siamo liberi. Siamo solo eretici dentro una fede che non riusciamo a estirpare.

Voci che restano
- «La Natura ama nascondersi.»
Eraclito - «Conosci te stesso e nulla di troppo.»
Massime delfiche - «La scienza deve torturare la natura per strapparle i suoi segreti.»
F. Bacone - «La carne ha desideri contrari allo Spirito.»
Paolo di Tarso, Lettera ai Galati 5,17 - «Tutto è possibile, dunque tutto è lecito.»
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov - «L’uomo giusto è colui che si adatta all’ordine del mondo.»
Eraclito - «Le piante ci insegnano che la vita non si impone: si intreccia.»
S. Mancuso - «Forse la salvezza non è nel dominio, ma nell’ascolto.»
(riflessione finale dell’autore)
Per approfondire
- Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante, Laterza
- Peter Wohlleben, La vita segreta degli alberi, Garzanti
- Emanuele Coccia, La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Il Mulino
- Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di Natura, Einaudi
- Ivan Illich, Nemesi medica, Red Edizioni
- Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia
- Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi
Approfondimenti del Blog

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