Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?

Ab uno disce omne.

 

Nella reggia di Didone, il profugo Enea racconta, in lacrime, l’inganno del greco Simone, che aveva convinto i troiani a portare in città il colossale cavallo di legno. Il discorso di Simone, attore consumato, è un capolavoro di astuzia dialettica e i troiani abboccano allo spergiuro, credono veramente che i greci, stanchi e sfiduciati, abbiano fatto vela verso la patria, e che il cavallo, lasciato sul lido come dono espiatorio alla dea Minerva, proteggerà Troia, se verrà introdotto nelle mura. A questo punto Virgilio commenta sdegnato, per bocca di Enea

àccipe nunc Dànaum insìdias et crìmine ab uno

disce omnes

apprendi ora le insidie dei Greci e da un solo crimine conoscili tutti (Virgilio, Eneide, II). Per Virgilio, Simone è il simbolo della perfidia greca. Siccome lui è fraudolento e spergiuro, tutti i greci lo sono. Tale generalizzazione, che estende a un’intera collettività il comportamento d’un singolo, è un procedimento arbitrario, respinto dalla logica. Ma il sentimento, la fantasia poetica. Hanno delle ragioni che la ragione non conosce. Analogamente, se vediamo un friulano un po’ alticcio, diciamo che tutti i friulani sono ubriaconi; se un napoletano è pigro, deduciamo che tutti i napoletani sono pigri; se un siciliano è mafioso, tutti i siciliani sono mafiosi. Ma qui non c’entra l’empito del sentimento né la trasfigurazione poetica. C’entra la pigrizia mentale, il conformismo delle idee ricevute.

 

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