”Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?
Faber est suae quisque fortunae.
Ciascuno è fabbro, artefice della propria fortuna. Così la pensavano gli antichi, attribuendo all’individuo, al suo libero arbitrio, la piena facoltà di costruire, nel bene e nel male, il proprio avvenire.
Ma sull’argomento i pareri divergono. Pessimista nero il Leopardi, che così chiude il Canto notturno d’un pastore errante nell’Asia:
- Forse in quale forma, in quale
- stato che sia, dentro covile o cuna,
- è funesto a chi nasce il dì natale.
Pessimista fino all’insulto Voltaire, che nel Dizionario filosofico chiama «imbecilli» coloro secondo i quali «l’uomo saggio fa da sé il proprio destino». E allora, tutto è già prestabilito da fato, dagli dèi? Un comodo alibi, per l’umanità. Ma gli dèi si difendono per bocca di Giove, che nel primo libro dell’Odissea protesta:
- Incolperà l’uom dunque
- sempre gli dèi? Quando a sé stesso i mali
- fabbrica, dei suoi mali a noi dà carico
- e la stoltezza sua chiama destino.
Giove non ha tutti i torti. Quando le cose ci vanno male, la colpa è del cielo, del destino; quando vanno bene, il merito è nostro. Certo, avere alleato il destino conta parecchio, perché, come osserva un distico romanesco
- La spintarella che ce dà il destino
- ce trasforma er deserto in un giardino.
La migliore soluzione è, in ogni caso, un pacato sorridente fatalismo. Un signore si rallegrava col comandate di un veliero per il coraggio con cui abitualmente affrontava le insidie del mare.
«È il mestiere di famiglia» rispose modesto il capitano.
«Suo nonno com’è morto?» domandò l’uomo di terra.
«In un naufragio.»
«E suo padre?»
«È finito a picco.»
«E lei continua a navigare?»
«Certamente. Adesso risponda lei. Suo nonno, com’è morto?»
«Nel suo letto.»
«E suo padre?»
«Anche.»
«E lei tutte le notti continua ad andare a dormire?»