Una lingua morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina? Hic manebimus optime

  

Dipinto di Paul Jamin, che ritrae Brenno, capo dei Galli, e parte del bottino ottenuto dai Romani dopo il sacco di Roma. 18 luglio del 387 a.C.

Qui resteremo benissimo, ottimamente. Nel 390 a.C., incendiata Roma dai Galli, alcuni senatori proposero di trasferirsi a Veio, ma Furio Camillo cercò in ogni modo di dissuaderli e fu fortunato, perché in suo aiuto intervenne uno di quei fatti casuali, futili, ai quali nessuno attribuisce importanza, e pur tuttavia contengono segnali forieri, per chi sa interpretarli, di provvidenziali illuminazioni. Avvenne dunque che un centurione, transitando per il foro con i suoi soldati, esclamasse all’improvviso: «Sìgnifer, stàtue sìgnum, hic manebimus optime, alfiere pianta l’insegna, qui resteremo benissimo». Udita questa frase, i senatori unanimi vi ravvisarono un auspicio favorevole, come un suggerimento del cielo, e d’accordo con la plebe Roma non fu abbandonata. Il concetto venne parafrasato da Vittorio Emanuele II quando, dopo il solenne ingresso in Roma capitale, disse: «A Roma ci siamo e ci resteremo». Il ministro Quintino Sella, nel cortile delle Finanze sorto nella via Venti Settembre, per dove erano passati i bersaglieri di Porta Pia, voleva erigere una statua raffigurante un legionario romano che pianta in terra la lancia, con la scritta Hic manebimus optime. Poi non se ne fece nulla. Meglio così. Il monumento poteva prestarsi alle ironie dei romani. Nel palazzo delle tasse, nessun contribuente può dire manebimus optime.

 

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