Una lingua morta che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?

Memento mori

 

   Nel Genesi, cacciando l’uomo dal paradiso terrestre, Iddio sentenzia: «Con il sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto, polvere tu sei e in polvere tornerai» (III, 19). Durante i conviti gli antichi egizi facevano entrare nella sala da pranzo una bara. Pacuvio, governatore della Siria sotto Tiberio, interrompeva le gozzoviglie per inscenare il proprio funerale, e i compagni cantavano al finto morto «Egli fu, or non è più». Il pensiero della morte incombente eccitava i pagani, scettici sull’al di là, a godere intensamente le gioie dell’al-di-qua.

Nella cena del Satyricon di Petronio, Trimalcione per indurre gli amici a non perdere tempo fa entrare un piccolo scheletro d’argento, snodabile, lo getta sulla tavola, gli fa assumere le più strane posizioni, commentando:

La cena di Trimalcione

«Ahi sorte umana, crediam d’esser molto e siam nulla;

né più che un lieve soffio è l’esistenza.

In preda all’Orco, questo sarà di noi tutti l’aspetto:

dunque viviamo, finché si può godere.»

 

   Diverso è il discorso per i cristiani. Chi crede in una vita ultraterrena è spinto, dal pensiero della morte, a bene operare per conquistare il premio futuro. Incontrandosi nelle loro celle, i frati trappisti si scambiano il saluto Memento mori, ricordati che devi morire. Uno studente maldestro tradusse: «Ricordati di morire», lasciando intendere che gli smemorati sono immortali.

 

 

 

 

 

 

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