Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina? Mors tua vita mea

 

F. Leighton, Eracle lotta con Thanatos per il corpo di Alcesti (1869)

Quante volte, magari storpiandola, abbiamo detto questa locuzione, mòrs tùa vìta mèa. La tua morte è la mia vita, ciò che per te è la rovina per me è la salvezza. È la massima che meglio rispecchia l’egoismo umano, l’istinto di conservazione, il quale, se necessario, non esita a calpestare ogni vincolo di parentela, ogni rapporto di amicizia. In Alcesti, tragedia di Euripide, il re di Fere, Admeto, colpito da un morbo che non perdona, ottiene dagli dèi la grazia di non morire, purché trovi qualcuno disposto a morire al suo posto. Admeto si rivolge fiducioso ai genitori, vecchi come sono dovrebbero accettare il cambio, oramai hanno poco da perdere. Ma quelli non vogliono nemmeno sentirne parlare, la vita è cara a tutti, ai padri non meno che ai figli, ed essi non intendono rinunciare ai loro ultimi anni. Soltanto la giovane sposa, la tenera Alcesti, si offre di morire per il marito, da lei amato fino all’estremo sacrificio. Senonché poco dopo le esequie arriva Ercole (DEUX EX MACHINA), che scende nell’Ade e riporta sulla terra l’eroica donna. Alcesti risuscitata torna dal marito e riprende la vita di sempre. Ma che vita poteva mai essere, al fianco d’un simile egoista?

Al giorno d’oggi, mors tua vita mea pesca nel fondo dell’inconscio, dell’individualismo di cui siamo pregni, e ci fa desiderare che se aspiriamo a un posto, a una vittoria, ad un concorso, basterà augurarsi la di lui dipartita e così diverremo i primi della lista.

 

 

 

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