Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?

Odi profanum vulgus et arceo.

 

 

Odio il volgo profano e lo respingo, dice Orazio (Odi, III, 1) giudicandolo indegno di accedere al tempio dell’arte. Atteggiamento di sprezzante orgoglio intellettuale comune a molti poeti. Chiedendo il popolo che da una sua tragedia venisse tolta una certa frase, Euripide entrò in scena per precisare che lui scriveva per istruire il popolo, non per essere istruito da lui.

Parla da saggio ad un ignorante

ed egli dirà che hai poco senno.

Euripide, Le Baccanti

 

   Amareggiato per l’incomprensione dei compaesani, Giacomo Leopardi si sfoga ne Le ricordanze:

Né mi diceva il cor che l’età verde

sarei dannato a consumare in questo

natio borgo selvaggio, intra una gente

zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

argomento di riso e di trastullo,

son dottrina e saper.

   La plebe è «di stravaganze avida» (Parini), «vogliosa e timorosa delle novità» (Tacito), «ciarliera e maligna» (Quintiliano), «non bisogna gioire del suo favore né dolersi del suo disprezzo» (Seneca). Dopo tanti giudizi antidemocratici, vogliamo rifarci un po’ la bocca? Lasciamo gli scrittori classici e ascoltiamo i parlatori contemporanei, i candidati che sulle piazze tengono comizi elettorali. Quello che Orazio chiamò vulgus profanum, per l’aspirante al parlamento diventa il popolo sovrano.

 

 

 

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