Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?

Parce sepulto.

 

 

Perdona al sepolto. Nel terzo libro del poema virgiliano, Enea, per velare di fronde l’altare del sacrificio a Giove, svelle da terra un arbusto e subito dai rami esce un lamento. È la voce d’un morto, il troiano Polidoro, tramutato per macabra metamorfosi in sterpi: «Perché. Enea, ti accanisci contro un infelice? Parce sepulto, abbi pietà d’un morto, evita di contaminare le tue mani pie».

   Oggi con parce sepulto intendiamo che è ingeneroso coltivare risentimento per i torti ricevuti da chi non è più. Se non è cavalleresco insultare un assente, è addirittura vile insultare un «assente definitivo» qual è un defunto. Oltre il rogo non vive ira nemica, ammonisce Vincenzo Monti nella Bassvilliana. Nell’ossario di Custoza, teatro di due battaglie del Risorgimento, si legge:

   Nemici in vita

   morte li adeguò

   pietà li raccolse.

   Sconfitto da Cesare a Farsalo, Pompeo si rifugiò in Egitto presso Tolomeo XIV, il quale per ringraziarsi il vincitore fece tagliare la testa a Pompeo e gliela spedì, assieme al suo anello. A quella vista, Cesare pianse.

   Sentimenti d’umanità che spuntano sempre dopo, quando i destinatari non sono più in grado di apprezzarli.

 

 

 

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