Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina?

Summum ius summa iniuria.

 

Estrema giustizia, estrema ingiustizia. La formale e cavillosa interpretazione delle leggi produce risultati di palese iniquità, e ciò accade quando la giurisprudenza, questa scienza delle virgole, guarda più alla lettera che allo spirito del testo. Scrive Cicerone nel De officiis (1,10): «Si commettono spesso ingiustizie a causa d’una cavillatrice, troppo sottile e in realtà maliziosa interpretazione delle leggi. Di qui il notissimo detto summum ius summa iniuria. A questo proposito, si commettono molte ingiustizie anche nella vita pubblica; come per esempio quel tale che, avendo stipulato col nemico una tregua di trenta giorni, di notte ne devastava i campi, con la scusa che nell’accordo si parlava di giorni, non di notti (allude al re di Sparta Cleomene, ndr).»

   In un altro passo, Cicerone prospetta l’ipotesi di un tizio che, in pieno possesso delle sue facoltà mentali, ci consegni in deposito una spada, e dopo qualche tempo venga a riprendersela, mostrando evidenti segni di pazzia. Dobbiamo dargliela? No, per carità. Perché se da un punto di vista del puro diritto l’arma appartiene al pazzo, il consegnargliela sarebbe un gesto di criminale incoscienza. Per rispettare un astratto ius, un astratto diritto del proprietario della spada, recheremmo iniuria (in ius = contro il diritto) al diritto di vivere di coloro che il pazzo, appena impossessatosi della spada, comincerebbe a sbudellare.

 

 

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