Una lingua “morta” che però continua a godere di ottima salute. Quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina? Tu quoque brute, fili mi

Vincenzo Camuccini – La morte di Cesare (1804-1805). Galleria Nazionale d’Arte Moderna (wikipedia P.d.)

   Anche tu, Bruto, figlio mio. Frase pronunciata da Giulio Cesare quando, colpito dal pugnale dei congiurati, ravvisò tra gli aggressori Marco Bruto, figlio di Servilia, sua amante. In Bruto i repubblicani esaltarono l’idealista restauratore delle antiche libertà, calpestate da Cesare; Dante vide semplicemente un traditore, e lo collocò, assieme all’altro congiurato. Cassio, e a Giuda Iscariota, nelle tre bocche di Lucifero, che li maciulla per l’eternità:

  • De li altri due c’hanno il capo di sotto,
  • quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
  • vedi come si storce, e non fa motto!;
  • e l’altro è Cassio, che par sì membruto.

                                           INF. XXXIV, 64-67

   Si usa la locuzione abbreviata «Tu quoque» per esprimere addolorata sorpresa nei confronti di chi, da noi beneficato, ci ripaga con l’ingratitudine.

 

 

 

 

 

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