Sembrava bellezza un libro di corpi emotivi che si muovono tra le altezze e le cadute dell’anima

Nel suo nuovo romanzo, Sembrava bellezza, Teresa Ciabatti maneggia con maestria una materia complessa e sfuggente: il tempo. Tempo che passa, che invecchia, che sforma, che cambia. Tempo che uccide, in alcuni casi, che regala più vita, in altri.

Il tempo impietoso che scivola tra le dita e non si fa trattenere. Quasi mai.

In questo viaggio a ritroso scopriamo la storia di tre donne, una delle quali, quella che dice “io” in maniera spavalda, è la scrittrice protagonista, e tante altre ne incontriamo. Sono madri, figlie, sorelle, amiche.

 

IL LATO OSCURO DELLA BELLEZZA

 

Tre donne le cui vite si sono intrecciate in maniera indissolubile durante l’adolescenza.

Un periodo della vita che ha posto un marchio su ciascuna, destinato a imprimersi nel corpo, nell’animo e a comandarne per sempre le esistenze.

Livia, una ragazza talmente bella esteticamente da fermare lo sguardo a quello splendido guscio che la racchiude; nessuno capace di coglierne i lati oscuri che ne lordano il cuore, nessuno pronto ad allungare una mano per salvarla. Nessuno capace di oltrepassare il muro della bellezza.

Federica, una sorella vittima di un contesto familiare, divisa tra spirito di rivalsa, necessità di attenzioni o semplice desiderio di evasione.

E poi, lei, la voce narrante, la scrittrice in prima persona: prima un’adolescente minata da complessi fisici e contrasti familiari, corrosa dalla ricerca dell’accettazione da parte del prossimo, poi una donna che non ha ancora appianato i conti col passato, che lotta ancora oggi come ieri per trovare un punto di equilibrio con gli altri e con se stessa.

Un viaggio introspettivo su due piani temporali, una lenta e tagliente presa di coscienza giunta alle soglie dei cinquant’anni.

Il tempo presente come frutto maturato dalle scelte del passato, un frutto irto di spine che non si possono più estirpare ma con cui bisogna convivere.

È un’analisi impietosa e senza i veli del perbenismo quella proposta dall’autrice, una voce graffiante che tenta di espellere anni di rancori, di desolazione, di mancanze, di lacerazioni, per portare alla luce quella adolescente sepolta da strati di infinita incomprensione e inadeguatezza.

Una scrittura a scatti che non presta il fianco al fronzolo narrativo, che rispecchia la durezza dei pensieri e delle immagini che emergono dall’oscurità.

Una storia che grida voglia di liberazione ma con la lucida consapevolezza che la strada richiede un lungo e tortuoso percorso.

La trama del romanzo

Ad accoglierci tra le pagine di questo romanzo è una donna, una scrittrice, che dopo essersi sentita ai margini per molti anni ha finalmente conosciuto il successo. Vive un tempo ruggente di riscatto, che cerca di tenersi stretto ma ogni giorno le sfugge un po’ di più. Proprio come la figlia, che rifiuta di parlarle e si è trasferita lontano. Combattuta tra risentimento e sgomento per il tempo che si consuma la coglie Federica, la più cara amica del liceo, quando dopo trent’anni torna a cercarla. E riporta nel suo presente anche la sorella maggiore Livia – dea di bellezza sovrannaturale, modello irraggiungibile ai loro occhi di sedicenni sgraziate -, che in seguito a un incidente è rimasta prigioniera nella mente di un’eterna ragazza. Come accadeva da adolescenti, i pensieri tornano a specchiarsi, a respingersi e mescolarsi. La protagonista perlustra il passato alla ricerca di una verità, su se stessa e su Livia, e intanto cerca di riafferrare il bandolo della propria esistenza ammaccata: il lavoro, gli amori. Livia era e resta un mistero insondabile: miracolo di bellezza preservata nell’inconsapevolezza? O fenomeno da baraccone? Avvolti nelle spire di un’affabulazione ammaliante, seguiamo la protagonista in un viaggio che è insieme privato e generazionale, interiore e concreto. E mentre lei aspira a fermare l’attimo per non perdere la gloria, la sorte di Livia è lì a ricordare cosa può succedere se la giovinezza si cristallizza in un presente immobile: una diciottenne nel corpo di una cinquantenne, una farfalla incastrata nell’ambra. “Sembrava bellezza” è un romanzo sull’impietoso trascorrere del tempo, e su come nel ripercorrerlo si possano incontrare il perdono e la tenerezza, prima di tutto verso se stessi.

Sembrava bellezza è un romanzo sull’impietoso trascorrere del tempo, e su come nel ripercorrerlo si possano incontrare il perdono e la tenerezza, prima di tutto verso se stessi. Un romanzo di madri e di figlie, di amiche, in cui l’autrice, con una scrittura che si è fatta più calda e accogliente, senza perdere nulla della sua affilata potenza, mette in scena con acume prodigioso le relazioni, tra donne e non solo. Un romanzo animato da uno sguardo che innesca la miccia del reale e, senza risparmiare nessun veleno, comprende ogni umana debolezza.

Come inizia

 

Sembrava bellezza

Da cinque le ragazze si erano ridotte a quattro, e tutte, vive e morte, stavano diventando ombre.

JEFFREY EUGENIDES, Le vergini suicide

La paziente parla molto velocemente, d’impulso, e

(pare) senza discriminazione… cosicché l’importante e

il banale, il vero e il falso, il serio e lo scherzoso sgorgano

in un flusso rapido, non selettivo, quasi confabulatorio…

Può contraddirsi completamente nel giro di pochi secondi…

Dirà di amare la musica, di non amarla,

di avere un femore spezzato, di non averlo.

OLIVER SACKS, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello

    I fatti e le persone di questa storia sono reali.

       Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro.

La donna nella foto subiva le violenze del padre. Aggressivo, collerico, era con lei che sfogava la rabbia, così la definivano in famiglia dove tutti sapevano, e nessuno si ribellò. Passa una generazione, e il figlio minore lo racconta alla moglie che lo racconta alla figlia, me.

   Non ricordo il nome del mio bisnonno morto molto prima che io nascessi, né ho foto di lui.

   Se immagino mia nonna bambina vedo un uomo senza volto entrare in bagno (ai tempi non esistevano bagni), entrare in bagno e tapparle la bocca. Spesso, fantasticando, mi sono chiesta cosa facessi io a sette anni, l’età in cui mia nonna veniva violentata dal padre.

   Ai parenti che protesteranno – mai avvenuto un simile episodio nella nostra famiglia, questa è diffamazione – risponderò: avete ragione, era la nonna materna, una zia, la tata (nel 1955 da Brittoli, provincia di Pescara, arrivava a Roma una quindicenne con evidenti problemi fisici, quali deformità della gamba sinistra e di entrambi i piedi che la costringeva a pesanti scarpe ortopediche. La ragazza prestava servizio presso un anziano vedovo nel palazzo dove mia nonna – stavolta materna, sì – aveva il negozio di cappelli, via dei Prefetti 35. Tutti sapevano della giovane violentata. Per un periodo nessuno intervenne, finché un giorno mia nonna prese la ragazza e la portò a vivere con sé. Fu la tata di mia madre, poi mia e di mio fratello. Né nelle storie che raccontava per farci addormentare, né in seguito nelle chiacchiere quotidiane da quasi adulti, menzionò mai l’uomo che aveva abusato di lei. Alla sua morte, l’anziano le destinò una somma di denaro che lei accettò).

   Un fatto di cronaca recente si sovrappone a queste vicende per similitudine di circostanze, e di vittime: donna di sessant’anni, affetta da lieve ritardo mentale, provincia di Treviso.

   Attirata con un tranello nella cascina del cognato, il medesimo la sequestra. Prigioniera nel pollaio, viene picchiata e stuprata. Nutrita ad acqua e pane. Lasciata sul terriccio fra i suoi escrementi e quelli delle galline. Frattanto il carceriere le sottrae la carta BancoPosta per prelevare la pensione di invalidità, quattrocento euro. Prima che la vittima riesca a fuggire, prima che una notte prenda coraggio spinta dal pensiero del figlio lontano a cui sotto minaccia è stata costretta a scrivere il messaggio “Vado a vivere in Romania, non cercarmi” – riferirà la stessa agli inquirenti –, pochi giorni prima l’uomo le taglia i capelli col trinciapollo.

   Da maschio, dice lei vedendosi in uno specchio dopo la fuga, scoppiando a piangere. Decide allora di indossare uno zucchetto di lana.

   Ho visto la morte in faccia, dirà agli inquirenti in riferimento al taglio dei capelli – il momento peggiore.

   Non la violenza, non le botte. O gli escrementi, la fame, il freddo.

   Come funziona la mente umana.

   Funziona in modo differente per ciascuno di noi in base al percepito, e anche alle caratteristiche fisiche. La stessa esperienza ha tante versioni quante le persone che l’hanno vissuta.

   Ognuno individua dolore e gioia dove non li individuano gli altri. Addirittura il piacere risiede in luoghi diversi, anfratti emotivi a seconda della persona. È forse il piacere, tra i sentimenti umani, il mistero più grande.

   Così mia nonna paterna, malata di Alzheimer, verso la fine non riconosceva nessuno. Chiunque andasse a trovarla veniva scambiato per il padre. Babbo, diceva. E al momento dei saluti: non lasciarmi. Il padre era l’unica persona che invocava.

LIBRO PRIMO

1

Quando mi chiedono cosa si prova a essere famosi, e io rispondo niente, sto mentendo. Voi non immaginate lo stordimento, l’ebbrezza di fronte al pubblico che applaude. Su un palco, dietro un leggio, al di qua di un tavolo, davanti a un microfono come stasera.

   Non credo di essere la migliore, dico. Solo una persona normale, una donna come tante. Sorrido, inclino la testa. Ho grande fiducia nel genere umano, questo sì, continuo, tutto dipende da noi, coltivare il bene significa raccogliere il bene – e qui sto davvero recitando, mentre le luci dietro la telecamera irradiano la mia persona, facendo di me una figura evanescente. E io guardo dritto, proprio a voi che mi vedrete da casa, tutti voi al di là dello schermo.

   Fermiamoci a questo momento preciso, dicembre 2018. Chi sono io, nella sala comunale al cospetto di un pubblico e della telecamera della televisione locale, le cui riprese saranno messe in rete.

   Dalla tv ho scoperto di essere diventata bella. Non lo sono mai stata, come il romanzo a cui devo la fama racconta indugiando sull’impatto con la realtà di una mente alterata che si sente splendida, amatissima – me stessa adolescente, me stessa bambina.

   Nello schermo contemplo un’altra me che ha vinto l’inadeguatezza. Dimagrita, capelli del castano biondo scelto dal parrucchiere per meglio illuminare il viso. Sebbene abbia denti bianchi, valuto uno sbiancamento. Più bianchi. E poi? Come intervenire per rimanere a questo istante perfetto? Botulino.

   Ecco chi sono innanzitutto: una persona di successo.

   Vado dal parrucchiere. Compro vestiti, scarpe. Chiedo informazioni su possibili sconti: se un personaggio noto (personalità che va a incontri pubblici venendo fotografata magari non singolarmente, magari in gruppo), se quel personaggio decide di farsi vestire da un unico marchio, non avrebbe diritto a un cinquanta per cento, o addirittura a una sponsorizzazione?

   Viaggio. Parlo nelle città d’Italia, come stasera in questa sala comunale, dove qualcuno dal pubblico urla: sei grande.

   Davanti a una telecamera, dietro un leggio, succede che il pensiero vada a chi non mi ha compresa. Riappaiono i venticinque volti adolescenti, occhi azzurri, apparecchi ortodontici, denti perfetti, lentiggini, guance scavate, guance piene, capelli schiariti dal sole, gonne al ginocchio, gambe snelle, liceo Goffredo Mameli, Parioli, Roma. Sotto il canestro del cortile, la foto di classe che mostra le venticinque creature che siamo e che, di anno in anno – riprendiamo le foto, disponiamole in ordine cronologico –, si trasformano, raggiungono la forma adulta.

   Passano trent’anni, e l’ultima in alto a sinistra della foto cambia posizione. Una forza centripeta la spinge al centro, la luce su di lei, e voi in ombra.

   Come si diventa scrittori? chiedono dal pubblico. Sacrificio, dedizione, ribatto – la telecamera sempre a riprendere. Aggiungo: insieme a un po’ di egoismo a cui questo mestiere spesso costringe, la famiglia per esempio, di certo avrei potuto passare maggior tempo con mia figlia – e su questo, solo su questo, sono sincera.

   Quindi riprendo a mentire. Che città sorprendente, voglio tornare, tornerò, prometto a vanvera.

   Tutto un fingere, non vedere l’ora di andarsene.

   Eccomi, bardata nel cappotto troppo leggero, ad attraversare la piazza deserta nella notte sottozero, ad avvolgere la sciarpa sciolta e risciolta dal vento. Eccomi nella stanza d’albergo, sguardo alla finestra, alla valle col chiarore sul fondo, forse un campo sportivo da cui provengono urla giovanili. Deve essere in corso un allenamento. Se solo mi vedeste, lettori, se mi vedeste ora in pigiama di pile, continuereste ad amarmi?

   Col successo ho dovuto allontanare persone.

   Parenti e amici di colpo pressanti.

   Gente mai vista che sostiene di essermi cugino di secondo grado, zio. Sconosciuti che si complimentano, la storia commovente nella quale si sono identificati, per concludere: vorrei raccontarti la mia infanzia di persona.

   Vecchi compagni di scuola. Sì, i ragazzi del liceo Goffredo Mameli, sezione C, sono tornati.

   Nei letti, sotto maschi eccitati, io vedo loro, tutti loro che non mi hanno amata, imprimendo sulla mia persona fragile un marchio. Dunque: non è di quei ragazzi, degli ex compagni di scuola, la colpa dell’infedeltà, di me che ho iniziato a tradire mio marito? Non dipende forse dall’adolescenza l’adulto che sei?

   “Ho sentito che nevica”, messaggio sul telefono.

   Raggomitolata sotto le coperte, sparite le urla giovanili in lontananza, rispondo: “Al momento niente neve”.

   E vorrei aggiungere: vieni a prendermi. A prescindere dal mittente, parlando a una qualsiasi persona in pena per me, maschio, femmina, figlia, amante: siamo ancora giovani, talmente giovani. Tutta questa tenerezza sprecata, quanta tenerezza a sperdersi qua sotto. Portami via (e qui immagino un maschio).

   Pensate pure che questa storia sia iniziata il giorno in cui nel letto l’uomo sposato chiedeva: lasceresti tuo marito per me? Pensatelo, sbagliate.

2

La luce del giorno illumina lo sfasciacarrozze – mattina. Altro che vallata sconfinata, urla giovanili. In questa desolazione l’unico rumore è lo schianto di lamiere.

   E no, non ha nevicato. Niente neve a Cagliari. Vi chiederete perché la scrittrice di fama, la donna biondo castana dal guardaroba fornito, non sia a New York, a Parigi, bensì a Cagliari.

   In questi anni – per l’esattezza tre dall’uscita del libro – ho girato l’Italia forzando la natura sedentaria pur di mantenere il ruolo di primo piano. E che fosse un ruolo di primo piano lo confermava il numero di telefonate a cui non rispondevo, la casella di posta intasata di inviti. Le persone del passato – ripeto, sottolineo. Va bene, di ex compagni di scuola ne era ricomparsa solo una, bastava. Quell’una avrei piegato a valere per tutti.

   Ottobre – adesso siamo a dicembre, tenetelo a mente –, Federica (di cui non dirò il cognome poiché trattasi di personaggio reale) rientrava nella mia esistenza con un lungo messaggio nel quale manifestava la gioia di avermi ritrovata, i pensieri che ha avuto per me negli anni. L’orgoglio leggendo del mio successo, vedendo la persona importante che sono diventata, del resto lei lo ha sempre saputo che ero speciale.

   Breve cenno alla madre morta, al padre che mi legge sui giornali – anche lui orgoglioso! Va per i novanta, pieno di acciacchi, pover’uomo, la sua non è stata una vita facile.

Se avessi vent’anni. Se il successo fosse arrivato a vent’anni mi sarei ubriacata, drogata, avrei illuso ragazzi, usandoli per brevi periodi allo scopo di accrescere la mia vanità. Sarei stata rincorsa da giovani maschi. Tutti a desiderarmi.

   Invece ne ho quarantasette e a cercarmi sono cinquantenni alle prese con genitori in fin di vita, se non morti. Gente a cui si infiammano gomiti, bloccano schiene, adulti insoddisfatti, separati, intenzionati a rifarsi una seconda vita, figli a cinquant’anni. Sotto psicofarmaci, stressati come me che perdo sangue. Ciclo sballato, penso, vedendo la macchia. Che vuoi che sia un po’ di sangue, lungi da me redigere la storia del mio ciclo, vi basti sapere che non ho mai segnato la cadenza. Colta ogni volta alla sprovvista, macchio lenzuola, sedie. Andando indietro nel tempo risento la voce di mia madre: come una bestia, dice. Parliamo tuttavia di una donna semplice, nonostante la laurea in Medicina – a proposito di sangue, sangue plebeo scorre nelle sue vene: non butta gli avanzi, rifà il letto da sola. E sempre a quel tempo, il tempo del liceo, noi che ci trasferiamo a Roma, esplodeva la vergogna: perché era capitata a me una madre inadeguata, talmente diversa dalle altre madri da portarmi a dire: vengono le mie amiche, chiuditi in camera.

   Tu che non hai la pelliccia (ce l’hai, ma non la indossi), che non metti gioielli, e quelli non li hai sul serio – te li sei venduti, scoprirò dopo la tua morte. Tu che un giorno con il buco dei denti caduti – inutile giurare che è stata una dimenticanza, lo hai fatto intenzionalmente –, quel giorno, col buco dei denti che ostini a non farti impiantare, non hai soldi, dici, aprirai la porta alle due ragazze che chiedono di me e, spalancando bene la bocca, risponderai: non c’è.

   Una delle due si chiama Federica, e andrà in giro a dire che tu, mamma, sei una barbona.

È con Federica dunque che ho più conti da pareggiare, e è da lei che, a ottobre, arriva il messaggio.

   Tutto questo si svolgeva due mesi fa, con me che progettavo di prendere tempo prima di rispondere, magari dopo altri tentativi a vuoto da parte sua. Sensazione a essere ignorati, amica?

   Facendo un esame di coscienza la mia intera vita va letta sotto la luce del desiderio di rivalsa. Ogni rapporto, dentro e fuori casa, ha preso la forma del torto da vendicare. Cos’è del resto il romanzo che mi ha dato fama se non una vendetta contro i miei genitori morti? E contro me stessa – se solo voi detrattori foste in grado di leggere le metafore, sforzatevi.

   Non che tutto sia metafora. Non lo è lo sfasciacarrozze su cui si affaccia la stanza, non questa città, Cagliari, non lo sono io appena sveglia a raccogliere gli effetti personali da riporre nel trolley. Men che meno la persona che continua a scrivermi.

   “Vengo a prenderti in aeroporto?”

   “Ho intervista” rispondo.

In quanto scrittrice affermata, collaboro con varie testate giornalistiche, in particolare con un quotidiano nazionale per il quale intervisto personalità come attori e intellettuali. Spesso sono le personalità stesse a chiede chiedere di me.

   Ce l’ho fatta – parlo agli ex compagni di scuola, in un discorso interiore che dura da anni, in una fantasia che me li riporta davanti, ricchi, superbi.

   Assemblaggi di ormoni addomesticati, niente in loro era fuori controllo, addirittura gli appetiti, al pari dei desideri, tanto da desiderarsi tra loro in un’istintiva difesa della stirpe.

   Parlo a voi, di continuo a voi, immaginazione, sogno – capita di sognarvi, piccoli egoisti, quanto eravate pericolosi nell’incapacità di prevedere le conseguenze delle azioni, agire incoscienti, ridere leggeri.

   Qualcuno potrebbe obiettare che sono passati troppi anni per serbare rancore.

   E allora io – sempre nella fantasia – raddrizzo le spalle, schiarisco la voce, dico no. Impossibile dimenticare, dico. Come cancellare il momento in cui candidata a rappresentante di classe contro due emarginate (Ciriello di Napoli, Curcio diabetica), sicura di vincere, sulla lavagna vicino al mio nome non compare alcuna x?

   Quando sarebbe svanito il ricordo di me sulla scalinata della villa cinquecentesca, di me in abito lungo ad accogliere gli invitati per festeggiare i diciott’anni, e non arriva nessuno, quando si sarebbe rimarginata la ferita? (Nella realtà qualcuno si presentò, quindici/venti persone su duecento invitate, e la villa sembrava vuota, e io nei giardini, nei saloni, grassa.)

3

Esiste una foto dove siamo io, Federica, Livia, Simona. Alle nostre spalle Massimo, e un biondo di cui non ricordo il nome.

   Abbiamo sedici anni, Livia diciassette. Deve essere un mese prima della sparizione, l’ultima foto di Livia prima della sparizione.

   Ma rimaniamo su di me, la me alla sinistra di Federica.

   Chi sono al tempo? Un’adolescente di provincia trasferitasi in città per la separazione dei genitori. Padre notabile di paese (avvocato, medico, poco conta), madre nullafacente.

   Chi sono io nella scuola del quartiere residenziale popolata da figli di professionisti? Chi se non una ragazzona triste, impaurita, complessata, derisa, rabbiosa, piena di rabbia tanto da urlare: vado a scuola, e faccio una strage, mamma. Se a quei tempi ci fosse stato internet, se il bullismo fosse stato codificato, sarei finita in un carcere minorile, o in un istituto rieducativo, anziché essere l’individuo sgraziato che alza il telefono, compone un numero: tu non mi conosci, io ti amo, dice. O anche: suo figlio si droga. Telefonate anonime. Insulti, dichiarazioni d’amore al di qua di una cornetta.

   E per un periodo la persona di fianco a me è Federica.

Provando vergogna per casa mia (vivevamo con la nonna come i poveri, i meridionali), ero io ad andare da lei.

   Distesa sul tappeto azzurro di camera sua, Federica sospirava: certe volte vorrei fuggire dall’altra parte del mondo, tipo Alaska.

   Giorni, mesi. Noi chiuse in camera.

   Era questa l’adolescenza? I film parlavano d’altro: dov’è il sesso praticato nelle macchine? E i tentati suicidi sventati dagli innamorati? Le pasticche di Xanax ingurgitate a barattoli, e i tagli sulle braccia? Dove sono i pericoli di morte, le violenze nei sottopassaggi, le molestie familiari, le pillole del giorno dopo (all’epoca non esistevano)? Dov’è tutta la droga che ci avete promesso? Quando arrivano i maschi in questa nostra storia?

   Due adolescenti sovrappeso che ragionavano tra di loro, pativano l’isolamento. Due adolescenti sovrappeso ma di piglio, che sullo stesso tappeto su cui giacciono a lamentarsi si rianimano: se la vita va male a noi, che vada male anche agli altri.

   E allora piombare in camera di Livia, recuperare il cartoncino tra i tanti, su cui verificare il luogo della festa.

   Cercare sull’elenco il telefono del Circolo.

   Alzare la cornetta, comporre il numero: c’è una bomba, evacuate il locale.

   Sul tappeto azzurro chiudere gli occhi, immaginare: individui ammassati verso l’uscita, urla che si accavallano. Chi inciampa, cade. Aiuto, implorano vocette infantili, e noi – sul tappeto azzurro, galleggiare –, noi soddisfatte di avervi smascherati, ragazzi pavidi.

   Queste le scene di disastro che prendono forma nelle nostre menti sadiche quanto innocenti nella misura in cui non accade niente, mai niente per l’intera adolescenza, mentre le feste alle quali non siamo invitate procedono.

   I tentativi di ribellione finiscono in un nulla di fatto (fosse già accaduta Columbine, fosse già esistito un capostipite, sarebbe bastato per dare la stura a noi, frustrate, in attesa di esplodere, dateci una pistola, una bomba).

   Sul tappeto azzurro incrociare le braccia, sentirsi uguali, almeno tra noi. Emarginate nello stesso modo.

   Invece siamo diverse, Federica – vorrei dire le volte che il pensiero va al domani –, tu non conoscerai esclusione, giacché figlia di amici, di amici di amici, quando non di parenti; tu che entri nei circoli, in particolare il Circolo della Caccia a cui a me è impedito l’accesso, e ti siedi sui divani, e, pur tacendo – permetterti di tacere! –, rimani una di loro. Nell’immaginazione scatto in piedi: non fingerti me – dito puntato –, con tua madre che ha tutti i denti, non come la mia, costretta a vendersi pezzi etruschi perché mio padre non le passa soldi rendendoci poveri, di colpo poveri, che ne sai tu di miseria, privazione, futuro incerto, Federica.

   Sul tappeto di camera tua io voglio essere te, dammi la mano.

Di certo eravamo nel medesimo spicchio di umanità quando si spalancava la porta, e irrompeva Livia.

   Al cospetto dell’essere biondo ammutoliamo – ed è il ricordo più vivido del periodo di amicizia con Federica, delle giornate trascorse da lei. L’apparizione, all’improvviso, della sorella.

   La porta si spalanca dopo la festa da noi inutilmente sabotata (scartata la bomba, abbiamo optato per un discreto: buonasera, la mamma della festeggiata è morta, può informare la ragazza?).

   Per la precisione la porta si spalanca la mattina seguente, e appare Livia che ordina di non disturbarla, è rientrata all’alba, senonché squilla il telefono, e lei, biondissima, stanchissima: non ci sono per nessuno, dice.

   Nessuno nessuno? chiede Federica.

   Ma Livia è già scomparsa verso camera sua, giornate di sole, nottate di stelle, amori, cosa mai può succederle di brutto.

   Pronto, risponde Federica.

   Sono Massimo, c’è Livia?

   Gambe lunghe, fianchi stretti, non c’erano state lezioni di danza né ore di sport a forgiare quel fisico perfetto. Tutta natura, seno compreso.

   Eccola ancora lì, in quel corpo aggraziato. Livia.

   Seno perfetto, dicevamo. Non cotone, non calzini – eravamo noi a inzeppare i reggiseni di calzini. La protuberanza di carne che sobbalzava a ogni movimento era tanto vera per lei, per il mondo, quanto dolorosa per noi appena sbocciate, dai seni piccoli, asimmetrici nel mio caso, così asimmetrici da richiedere camuffamenti, golfoni. Creature in formazione, esseri sghembi speranzosi di assestamento (non si pareggiasse con la crescita – aveva detto l’endocrinologo –, sarebbe da operare. E io nuda che tento di coprirmi con le braccia, sguardo fisso a terra per non vedere nello specchio quella cosa malformata).

   Marchiate a fuoco, noi.

   Questo eravamo di fronte a Livia, e i residui di lei non facevano che ricordarci la differenza. Capelli biondi nel lavandino, assorbenti interni abbandonati ai nostri sguardi di adolescenti avvezze agli esterni, causa diceria: l’interno svergina.

   Bastava entrare nel bagno in comune, o nella stanza. Aggirarsi tra le sue cose, afferrare un oggetto toccato da lei per rammentarci che eravamo figure secondarie; se qualcuno avesse girato un film, saremmo state le comparse della magnifica vita di Livia. Immaginiamo la protagonista che corre su una spiaggia, figuriamocela su un’altalena, capelli al vento, a piroettare su una pista di pattinaggio.

   Nessuno a quel tempo avrebbe potuto sospettare come sarebbero andati realmente i fatti, che ci sarebbe stata un’ultima scena. Sempre a quel tempo, se qualcuno avesse voluto pensare alla conclusione della giovinezza di Livia, avrebbe immaginato il matrimonio. Colombe, petali di rosa.

   Ebbene no: in questa storia, in questa storia vera, non cade nessun petalo, nessuna colomba prende il volo come inizio di nuova vita.

Nella mia personalissima ricostruzione postuma, come la definivo con chiunque chiedesse di quella notte, l’ultima immagine di Livia è nella luce chiarissima. Chissà quale fu per gli altri. Sorella, genitori, amici, quale immagine trattennero di lei. Per nessuno sarebbe stata la stessa.

   Chiudo gli occhi, ogni volta che chiudo gli occhi da allora, Livia è nella luce, e un attimo dopo no. Monito che le cose belle durano poco, pensiamo alle farfalle, prendiamo le farfalle.

   Nel suo ultimo giorno da farfalla, Livia esce dalla luce. Esce dalla luce e si avvolge nell’asciugamano.

   Federica dice che le questioni con Massimo deve sbrigarsele da sola, lei non è la sua segretaria.

   Livia sospira. Sparisce.

4

Ignorando il dermatologo che le aveva proibito la lampada, Livia si era fatta regalare il lettino. La sua era una pelle sottile, i raggi UVA l’avrebbero danneggiata, rischiando di accelerare il processo d’invecchiamento. Voleva forse dimostrare trent’anni? Se aveva intenzione di rimanere giovane a lungo, si esponesse poco al sole, e quel poco con protezione totale.

   Al tempo però la parola invecchiamento suonava come allunaggio, guerra nucleare. Di conseguenza Livia non seguì le indicazioni. E poi: sai che significava essere l’unica della scuola a possedere quell’oggetto? Qualcuna aveva la versione facciale, di certo non il lettino, appannaggio esclusivo dei centri estetici. Le amiche la imploravano di usarlo, lei concedeva. Raramente, volendo essere l’unica abbronzata in ogni stagione.

   In verità, se mai ci fu minaccia alla sua bellezza, fu proprio il lettino programmato per un’ora, trenta minuti, venti, altri dieci, gli ultimi dieci.

   Spesso si bruciava la pelle che cadeva scoprendo carne viva, alla vista della quale la madre si agitava: ti sei deturpata.

   A ripensarla oggi era una prefigurazione di futuro.

   Livia che giocava con la sua fortuna, che si rovinava e rinasceva più bella, bella in eterno, Livia che attraversava il fuoco alla faccia nostra che dallo stesso fuoco eravamo marchiate (passato un altro anno il seno no, non si era pareggiato, anzi: quello destro era cresciuto. Che faccio? gridavo a mia madre. Sono un mostro, un fenomeno da baraccone).

Se ripenso a Livia, per le volte che ho ripensato a lei in questi anni, la rivedo emergere dal lettino, in quella che per me è l’ultima scena.

   La mente corre indietro, più indietro, ogni cosa s’illumina.

   Federica spalanca la porta della camera. C’è Massimo, annuncia.

   Digli che non ci sono.

   Ho detto che ci sei.

   Il lettino filtra luce come una capsula spaziale.

   Muoviti!

   Lo sportello si solleva, e nel bagliore luminescente si staglia Livia. Nella memoria – eccomi, alle spalle di Federica – lei è nuda, sopra e sotto, dove campeggia un cespuglio biondo (ulteriore evoluzione della regola che i figli dei ricchi sono biondi; qui i figli migliori dei ricchi sono biondi anche in mezzo alle cosce).

   E dunque, nel suo ultimo giorno da farfalla, Livia si alza dal lettino, prende l’asciugamano, si avvolge con un gesto annoiato. Sospira. Nella mia mente è dopo quell’istante che si perdono le tracce di lei. Che fine ha fatto, si chiederanno in molti. Cosa è successo alla ragazza bionda. Piangiamo, preghiamo.

5

Abbandonato il passato, torniamo al presente, alla professionista affermata che, atterrata da Cagliari, prende un taxi per raggiungere il luogo dell’intervista, albergo cinque stelle, centro storico. Soffermiamoci sulla persona seria che attende l’intervistata, la quale arrivando si scusa per il ritardo, quaranta minuti di ritardo, e lei risponde nessun problema, celando l’antipatia a pelle, definiamola pure insofferenza estesa alla categoria – non degli attori, bensì dei giovani, questi giovani arroganti dal successo improvviso che credono di avere il mondo in mano.

Tratti in comune col personaggio che interpreta? chiedo all’attrice giovane, giovanissima, da vicino ancor di più, talmente piccola da vicino. Chiudendo il collo della pelliccia, avvolta nella pelliccetta rosa lei dice: ho freddo, sono un tipo freddoloso, io.

   Comincia a coprirti le gambe, penso. Girare a gambe nude d’inverno, minigonna senza calze – vorrei infierire ma taccio, poiché non è mia figlia.

   Proseguo l’intervista, procedo con domande banali – sensazione a rivedersi sul grande schermo? –, a cui seguono risposte banali che avrei potuto scrivere da sola, sarei stata capace di riportare parola per parola tutto ciò che dice l’attrice evitando di incontrarla, la scontatezza dei ragionamenti, la semplicità insieme alla megalomania di questo essere dal successo passeggero, perché tutto finirà a breve, e nessuno si ricorderà di lei. Ragazzi con la voglia di apparire, attori, cantanti. Meno male che Anita è diversa, sempre avuto ambizioni alte, lei. I complimenti che riceveva da bambina: deve fare l’attrice. E che voce. Sì, mia figlia ha una voce bassa, da contralto, che se avesse voluto. Con i contatti miei e del padre, poi. Invece ha scelto la strada dell’impegno. Cosa vuoi fare da grande? Pediatra, rispondeva. Con gli anni: pediatra, insegnante, magistrato, veterinario – il suo amore per gli animali.

   Mia figlia avrebbe potuto essere la ragazza in pelliccia rosa, e non è.

   Questa ragazza che, rispondendo alle domande – come ci si sente a essere famosi a ventitré anni –, afferra un cuscino, lo porta in grembo, e io me la vedo – camere d’albergo –, me la vedo ad agguantare uomini. Sui letti, afferrare teste di maschi e portarli a sé, virago. Alzarsi, aggirarsi nuda, accendersi una sigaretta, benché non fumi – scopro durante l’intervista –, ma nella mia immaginazione esce in terrazzo, si accende una sigaretta. E non è mia figlia, per fortuna non è mia figlia questo essere rosa – fondiamola con la pelliccia, tutt’uno con la pelliccia – che tra una risposta e l’altra rivela di non aver fatto colazione. Certe volte dimentico di mangiare, dice, deve ricordarmelo lei – indicando l’addetta stampa. Non è mia figlia questa creatura a cui chiedo se voglia un tramezzino, qualcosa, e lei fa no con la testa.

In taxi pianifico una telefonata al giornale dove puntualizzare: che non succeda più. Datemi filosofi, intellettuali, gente del mio livello – rapido accenno a riconoscimenti personali quali premi e traduzioni all’estero.

   Al posto del giornale chiamo Anita, ben sapendo che non risponderà.

   Troppo presa dalle sue cose, la vita londinese di cui il padre conosce i dettagli, è con lui che si confida. E non da ora, già da bambina. Conflittuale con me, accomodante con lui. Certa che io gli mancassi di rispetto (leggi: lo tradissi. Lo capivo dagli sguardi, dalle frasi buttate là – dove sei stata, mamma? Sparita tutto il giorno – sorriso accusatorio). Smodatamente protettiva nei confronti del padre che, nella sua mente, avrei lasciato. Sorvoliamo sul dettaglio che le cose siano andate diversamente

 

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L’autrice

Teresa Ciabatti, nata e cresciuta a Orbetello, vive a Roma. Ha esordito nella narrativa nel 2002 con il romanzo Adelmo, torna da me (Einaudi), in cui compare già la tematica del difficile rapporto genitori-figli. Dal romanzo, storia di formazione di una ragazza in un gruppo familiare ossessivo e nevrotico, Carlo Virzì ha tratto nel 2006 il film L’estate del mio primo bacio. Tra i suoi romanzi: Il mio paradiso è deserto (Rizzoli), Tuttissanti (Il Saggiatore), Matrigna (Solferino). Con La più amata (Mondadori) è stata finalista al premio Strega nel 2017. Collabora con il “Corriere della Sera” e con “la Lettura”.

  

  • Sembrava bellezza
  • Teresa Ciabatti
  • Editore: Mondadori
  • Formato: EPUB con DRM
  • Testo in italiano
  • Cloud: Sì Scopri di più
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 457,47 KB
  • Pagine della versione a stampa: 240 p.
  • EAN: 9788835707080. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/sembrava-bellezza-ebook-teresa-ciabatti/e/9788835707080″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista €. 9,99[/btn]
  • Matrigna – Teresa Ciabatti.

    ”Dopo il successo de «La più amata», Teresa Ciabatti torna in libreria con un nuovo romanz…

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