Per Irene Ochoa la vita è ormai insostenibile, non può più andare avanti così, Marcos l’uomo che ama, non è più lo stesso da quando un errore sul lavoro lo ha cambiato

  

«La paura appartiene solo a chi ha qualcosa da perdere» penso, «e io ho già perso tutto.» Né paura, né speranza, nei suoi occhi c’era solo una profonda tristezza.
Questo ci viene raccontato nei primi capitoli.

Per Irene Ochoa la vita è ormai insostenibile, non può più andare avanti così, Marcos l’uomo che ama, non è più lo stesso da quando un errore sul lavoro lo ha cambiato. L’uomo era un brillante avvocato e con la prospettiva di una carriera ricca di successi, purtroppo però ha gestito male dei clienti importanti e ha perso la credibilità nello studio dove lavora. Marcos, però in ufficio è sempre lo stesso; certo tutti lo evitano e ha delle mansioni semplici, ma ha mantenuto la sua dignità non lasciando la soddisfazione ai colleghi di vederlo in difficoltà. Be’ a dire il vero, la dignità l’ha persa la prima volta che ha alzato le mani su Irene, ogni sera dopo il lavoro si presenta a casa ubriaco e la picchia.

Fino a che un giorno la donna decide di ucciderlo, è l’unico modo per salvarsi da lui, sa bene che prima o poi lui l’avrebbe ammazzata e inscena quello che sembra essere un incidente domestico.

Irene Ochoa, è una donna fredda e cinica, anche se capisce quello che ha fatto, non ha rimorsi e non si fa problemi a ottenere il suo scopo, cioè quello di farla franca.
«Quando aveva varcato la linea invisibile che separava la sua vita precedente da quella attuale?»
È qui che entra in gioco il commissario David Vázquez mentre Irene passa in secondo piano. Avrei voluto poter domandare a Lezaun perché non abbia lasciato Irene come protagonista del romanzo.

David, ci viene descritto come un uomo sulla quarantina, alto, magro, atletico, appassionato di sport e soprattutto single. Quando si trova davanti Irene per la prima volta, dimentica il suo ruolo di commissario e nota solamente quanto lei sia bella e in forma.

L’uomo oltre a risolvere questo caso, deve fare i conti anche una serie di omicidi violenti ed efferati, che stanno accadendo tra alcuni pellegrini durante il Cammino di Santiago.

La trama del romanzo 

Per Irene Ochoa le violenze del marito Marcos sono diventate una routine infernale. Per sopravvivere alle mura della casa di Pamplona, sempre più soffocanti, vede un’unica soluzione, quella estrema. Un mercoledì sera Marcos rientra più ubriaco del solito e si addormenta sul letto; il suo corpo verrà estratto ore dopo tra le macerie fumanti dell’incendio. Irene ha inscenato un perfetto incidente domestico, ma c’è qualcosa che sfugge al suo controllo: quella stessa notte conosce David Vázquez, l’ispettore messo a capo delle indagini, e scivola in una relazione con lui tanto appassionata quanto pericolosa. Per tenersi stretti sia il nuovo amante sia la libertà, Irene dovrà sbarazzarsi di chiunque possa collegarla all’incendio. David, mentre il quartiere di Gorraiz è ancora sotto shock per l’incidente, si trova invece alle prese con il caso più difficile della sua carriera: una serie di omicidi brutali tra i pellegrini del Cammino di Santiago.

Come inizia

  • Per Eva e Iker,
  • la luce che guida i miei passi

1

La luce del sole inondava il salone. Sui raggi, a stento filtrati dalle tende, migliaia di minuscoli granelli di polvere danzavano impazziti. Estranea a tutto ciò che la circondava, Irene si fregava nervosamente le mani, seduta sul bordo del divano, tentando di mettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Stringeva le labbra con forza, tenendo a freno l’intenso tremore che scuoteva il suo corpo, osso contro osso, in una sinfonia travolgente che sembrava non avere fine. Non avvertì il colpo di aria fredda che le arrivò dalla finestra socchiusa, né il lontano cinguettio di uno stormo di uccelli che, in fuga dal caldo, facevano di nuovo rotta verso Nord. Quello era il giorno, decise. Domani sarebbe stato troppo tardi. Marcos non si ubriacava molto spesso, di solito nel fine settimana, ma oggi, pur essendo mercoledì, era arrivato a casa barcollando, con una bottiglia di rum goffamente nascosta all’interno della sua logora valigetta nera. Puzzava di alcol e di sudore. Senza alcun dubbio, qualcosa era andato male in studio.

   Come tante altre volte, neanche la guardò con i suoi occhi appannati da ubriaco, aperti quanto basta per distinguere, tra i fumi dell’alcol, la realtà che lo circondava. La evitò in cucina, da dove uscì con un bicchiere in mano, camminò a zig-zag per il corridoio, tentando di mettere a fuoco gli angoli e le porte, e riuscì a raggiungere la camera. Si lasciò cadere sul letto senza togliersi le scarpe, accese il televisore con il telecomando e si versò il primo bicchiere di rum, senza ghiaccio né Coca-Cola, niente che ammortizzasse l’anelato effetto anestetizzante del quale i suoi sensi avevano bisogno.

   Irene lo osservò per qualche istante dalla porta, con la mano serrata sul telaio di legno. Furono pochissimi secondi, appena un battito d’ali, ma bastarono perché lui avvertisse la presenza della moglie. Nell’uomo che trasudava alcol e bile da tutti i pori non c’era più niente del ragazzo che la faceva impazzire con i suoi baci; niente del giovane avvocato attraente e audace. Una promessa del diritto, che era riuscito a portarla all’altare malgrado tutte le sue reticenze rispetto al matrimonio. Il soggetto che la scrutava adesso dal letto non aveva niente a che vedere con Marcos.

   «Che hai da guardare, cretina? Non dovresti neppure essere qui. Dovresti essere morta». A stento fu in grado di balbettare le parole, ma il messaggio era chiaro. Ogni sillaba distillava odio, ogni goccia di saliva le sputava addosso un insulto, una minaccia per nulla velata.

   Dopo questo saluto, Marcos tornò a concentrare la propria attenzione sullo schermo e continuò a bere dal bicchiere che teneva in mano, mentre lei faceva un rapido passo indietro, appartandosi immediatamente dalla sua visuale. Respirò a fondo, appoggiata alla parete del corridoio, riprendendo fiato e recuperando il battito normale. Sentì il tintinnare della bottiglia contro il bicchiere quando Marcos si versò una nuova razione e avvertì, nel silenzio seguente, come l’alcol si faceva strada, scendendo dalla gola allo stomaco.

   Rifugiata in cucina, Irene capì che non aveva altra scelta: doveva agire. Le sue braccia avevano ancora i segni che le avevano lasciato le dita di Marcos quando l’aveva scrollata con forza. Aveva incise nella memoria le immagini delle ultime botte. Sentì ancora i pugni del marito contro il suo ventre; la punta della sua scarpa che le lacerava di nuovo la pelle della schiena mentre, la stessa mano che un tempo l’accarezzava, l’afferrava con violenza per i capelli, trascinandola a terra e obbligandola a gattonare, a supplicarlo di mollare la presa, di lasciarla vivere. Chiuse gli occhi con forza e scosse la testa per scacciare i colpi, le grida e gli insulti. Non era il momento delle lacrime. Asciugò con la mano le gocce salate che le velavano lo sguardo e strinse i pugni. Conosceva perfettamente le abitudini di suo marito. Avrebbe continuato a bere fino a cadere in un sonno semicosciente, con la mente persa tra i fumi dell’alcol. La tranquillità sarebbe durata tre o quattro ore, e poi, si sarebbe svegliato, affamato e di cattivo umore. Se l’avesse trovata in casa, si sarebbe sfogato picchiandola. E se invece non c’era, la sua rabbia sarebbe aumentata ad ogni secondo di assenza, per poi esplodere, più tardi, con una sberla sonora sulla porta, alla quale sarebbero seguite altre decine di colpi appena avesse varcato la soglia.

   Marcos non era stato sempre così. Il suo “periodo no” era cominciato quando lo studio nel quale lavorava aveva perso diversi clienti importanti. Lui era stato accusato di non aver saputo gestire adeguatamente le questioni legali che doveva controllare. Un paio di cattivi consigli nel momento peggiore, e in ufficio era diventato poco più di un estraneo. Coloro che erano sempre stati i suoi compagni di avventura, colleghi nei successi, amici nei momenti belli, fecero legna dall’albero caduto. Le battute di cattivo gusto e le insinuazioni di incapacità ben presto lasciarono spazio alle accuse dirette. Non tardarono a dividersi il suo portafoglio clienti e affidargli cause che avrebbe potuto risolvere anche uno studente del secondo anno. Allora, l’alcol era sembrato il sostegno perfetto per sopportare le umiliazioni, un bastone al quale appoggiarsi e mantenersi in piedi fino a quando fosse uscito dal fosso. La sera, sempre più spesso tornava a casa con mezza bottiglia di rum nascosta nella valigetta. Abbandonava l’ufficio a testa bassa, con il cuore ridotto a uno straccio e un enorme buco nero nello stomaco. Seduto al volante della sua auto, si riscaldava lo spirito con il primo sorso. La bottiglia si vuotava rapidamente dopo essersi chiuso alle spalle la porta del garage. Beveva da solo e in silenzio, nascosto tra le ombre del parcheggio, sentendo montare l’ira verso i suoi colleghi, per scaricarla più tardi sulla schiena di sua moglie. Anche così, mai nessuno lo aveva visto barcollare per strada. “La dignità” pensava “è l’unica cosa che mi resta”. E ogni giorno entrava in casa ubriaco ma a testa alta.

   Irene si sentiva impotente, non sapeva come aiutare un marito che non voleva essere aiutato. All’inizio, Marcos ignorava suppliche e rimproveri. Poi, cominciò a risponderle con rabbia quando lei gli chiedeva di smettere di bere e gli faceva notare come si era ridotto. Presto arrivarono gli insulti e qualche spintone nel corridoio quando lei si frapponeva sul suo cammino tra la cucina e la camera da letto. Un giorno, Marcos lasciò che l’ira s’impadronisse definitivamente di lui e le diede uno schiaffo sonoro, un colpo secco che ancora le risuonava nella testa. Lungi dal pentirsi, lui scoprì con soddisfazione che si sentiva meglio. A quel primo colpo ne seguirono molti altri. Centinaia. Ma oggi sarebbe finito tutto.

   Attese paziente e in silenzio che il rum sortisse il suo effetto soporifero. Il rumore del telecomando che cadeva a terra indicò che stava già dormendo profondamente. Adesso nulla sarebbe stato in grado di svegliarlo.

   Si diresse rapidamente verso la stanza e aprì la porta con cautela. Puzzava di alcol. Controllò che, in effetti, suo marito avesse gli occhi chiusi. Non percepì in lui altro movimento che il lento salire e scendere del suo petto. L’abito grigio, impeccabile al mattino, era sudicio e spiegazzato. Si era allentato il nodo della cravatta che cadeva flaccida sulla camicia. Sotto le ascelle e sui polsini vide ampie macchie di sudore, cerchi scuri che rendevano volgare quel tessuto caro. Come in altre occasioni, non si era neanche tolto le scarpe. Il lucido nero con cui era solito rendere brillanti le calzature aveva lasciato un’impronta scura sulla coperta.

   Irene chiuse la finestra e abbassò la persiana. La luce proveniente dal corridoio era più che sufficiente per vedere con chiarezza senza dover accendere le lampade. Erano da poco passate le sei di un bel pomeriggio di giugno e il sole brillava ancora con forza. Pur essendo certa che neanche un terremoto sarebbe stato capace di svegliarlo, fu attenta a non far rumore quando tirò fuori dal cassetto del comodino un portacenere, un pacchetto di sigarette e un accendino. Aprì il pacchetto con mano tremante, tolse il cellofan e la carta argentata. L’accese e aspirò avidamente, come aveva visto fare mille volte suo padre, tentando di contenere la nausea che le produceva il fumo scendendo nella gola. Consumata metà della sigaretta, sistemò il portacenere sul letto, alla portata della mano di Marcos, che continuava a russare estraneo a tutto. Poi lasciò il mozzicone direttamente sul copriletto. Attese qualche istante, fino a vedere delle scintille arancioni che cominciavano a estendersi a poco a poco, in circolo, sulla stoffa, intorno alla sigaretta accesa, producendo un denso fumo nero. In realtà, temeva che la fiamma, ancora piccola, si consumasse prima di far bruciare tutto il letto, o che Marcos si risvegliasse per il caldo e il fumo e riuscisse a uscire dalla stanza. Per lei sarebbe stata la fine. In preda a un panico momentaneo, e malgrado suo marito fosse ancora immobile e russasse sempre più forte, decise di aiutare le scintille della sigaretta dando fuoco con l’accendino all’angolo del copriletto dal lato in cui di solito dormiva lei.

   Marcos, sprofondato nel suo sonno etilico, mosse appena la testa e si riaddormentò a bocca aperta. Alcune ciocche di capelli gli caddero sugli occhi. Lui alzò una mano e tentò di scostare i capelli dal viso, ma il braccio ricadde sul corpo, con la mano sul fianco, come se cercasse qualcosa nella tasca dei pantaloni. La coperta continuava a bruciare senza produrre fiamme, ma il fumo ormai riempiva metà della stanza e iniziava a circondare il corpo inerte di suo marito. La nube nera si arrampicava lentamente sulle gambe, con volute rotonde e minacciose che arrivavano sempre più in alto, rubandogli l’ossigeno, ingoiandogli la vita.

   Per un secondo, davanti agli occhi di Irene passò l’immagine di un Marcos sorridente e felice. Ricordò le loro passeggiate mano nella mano, sentì sulla pelle il calore del suo sguardo, la passione delle sue carezze. Poi lo contemplò, steso sul letto, incosciente, ubriaco e sporco. Guardò le sue dita lunghe e curate e l’ombra di un sorriso si affacciò sulle sue labbra nel ricordare l’imbarazzo di suo marito la prima volta in cui lei aveva insistito per fargli le unghie, un’abitudine intima che ripetevano con una certa continuità: lui seduto sullo sgabello del bagno, coperto solo da un asciugamano umido e caldo dopo una doccia, mentre lei, seduta di fronte, gli limava le unghie, tagliando le cuticole, spandendo la crema sul palmo della mano, sul dorso, dito dopo dito. Pensò di tirarlo fuori da lì, di chiamare i pompieri e, semplicemente, chiedere il divorzio. Ma il dolore dei suoi lividi la riportò alla realtà. Lui l’avrebbe uccisa piuttosto che consentirle di andarsene. Le sue parole non davano adito a dubbi. Proprio l’ultima volta, l’aveva guardata negli occhi, fisso, senza battere ciglio, e le aveva detto che non poteva andarsene e che l’avrebbe uccisa se ci avesse provato. Nient’altro. E lei gli aveva creduto. La decisione era facile: o io o lui. E aveva scelto.

   Una vampata di calore la scosse dai suoi pensieri. Il fumo l’avvolgeva. Lasciò rapidamente la stanza senza voltarsi indietro. Non c’era più spazio per il pentimento. Chiuse la porta con decisione e corse in bagno a prendere degli asciugamani. Li mise a terra, chiudendo la fessura sotto la porta, impedendo al fumo ogni via di fuga, e attese con la mano fermamente poggiata sulla maniglia, attenta a ogni suono proveniente dalla stanza. L’odore era sempre più forte, ma non si sentiva niente. Quanto tempo avrebbe dovuto attendere prima di avere la certezza che Marcos non si sarebbe più alzato? Cinque minuti? Dieci?

   La porta emanava un calore intenso, e lei quasi non riusciva più a impugnare la maniglia. Ritirò la mano, nervosa, e cominciò ad agire velocemente. Raccolse gli asciugamani e li sistemò di nuovo in bagno. Quando tornò davanti alla porta della stanza vide il fumo uscire dalla fessura in dense ondate, come acqua che si spandeva, per poi rientrare in camera, assorbita dal vuoto. Ebbe la sensazione che la morte le mostrasse la lingua, burlandosi di lei. Mentre correva verso il salone, sentì strani suoni provenire dall’interno, scricchiolii secchi senza eco che facevano tremare le pareti. Prese la sua borsa e si affrettò a uscire in strada. Il piccolo giardino della villetta era circondato da una siepe alta. Lei e Marcos l’avevano piantata poco dopo il matrimonio per poter uscire nudi in giardino e sdraiarsi sul prato a prendere il sole, parlare sottovoce e accarezzarsi guardandosi negli occhi fino a quando il desiderio li guidava sul letto, dove potevano passare pomeriggi interi a fare l’amore. Adesso, la siepe serviva solo a nascondere la sua paura, la sua umiliazione, il sangue, i lividi e le sbronze di suo marito.

   Si fermò un attimo per respirare e calmarsi. Controllò che da fuori nulla facesse sospettare ciò che stava accadendo all’interno. Per fortuna, la sua casa era l’ultima di una serie di villette a schiera. Non aveva vicini a sinistra, e a destra viveva una famiglia i cui figli avevano un’agenda di attività extrascolastiche talmente fitta che non arrivavano mai a casa prima delle nove di sera.

   Lanciò un rapido sguardo alla strada. Non c’era nessuno sul marciapiede, e le case limitrofe erano silenziose. Il sole l’accecò per qualche secondo, sorprendendola con lampi di luce inattesa dopo l’oscura agonia che si era lasciata alle spalle. Un fruscio vibrante raggiunse le sue orecchie, seguito dall’inconfondibile scricchiolio sordo che aveva sentito un momento prima arrivare dalla stanza. Dopo un istante di silenzio, una forte esplosione rischiò di scaraventarla a terra. L’onda espansiva la colpì alla schiena e mandò a vuoto il tentativo di aprire la porta del giardino. Si chinò istintivamente, coprendosi la testa con le mani. Una enorme fumata nera si alzò sull’edificio, portando con sé ogni traccia di vita rimasta in quella che era stata la sua casa. Sentì l’inconfondibile rumore dei vetri delle finestre che andavano in pezzi. Una fitta pioggia di vetri seguì la fumata, che si allontanava già, sospinta dalla brezza. La calma con la quale il fumo passeggiava per il cielo contrastava con ciò che accadeva pochi metri più in basso. Le fiamme, fino ad allora imprigionate fra le quattro pareti della camera da letto, avevano trovato una via di fuga e viaggiavano libere per la villa, alimentandosi, voraci, di tutto quello che aveva significato qualcosa per lei.

   Si riprese rapidamente e si allontanò. In pochi passi raggiunse l’auto. Salì senza esitare, accese il motore e partì. Non poté evitare una smorfia che voleva essere un sorriso nel ricordare il giorno in cui le botte e le umiliazioni l’avevano fatta gridare. Allora Marcos le ricordò che il bello dei quartieri residenziali è che restano praticamente deserti nelle ore centrali della giornata, e quindi nessuno avrebbe sentito le sue urla. Quel giorno fu un vantaggio per lui, adesso lo sarebbe stato per lei.

   Era fuori, sempre più lontano, in un punto senza ritorno, e per un istante la paura le chiuse lo stomaco. Aveva le nocche bianche per la forza con la quale afferrava il volante. Una curva, un’altra un po’ più avanti e si trovò dinanzi i primi edifici della città. Accostò, spense il motore e si obbligò a respirare profondamente. Quando smise di sentire il cuore batterle con violenza, si guardò nello specchietto. Il volto che le restituiva lo specchio somigliava al suo, ma in realtà non era più lei. Senza rendersene conto, in un batter d’occhio, tutto era cambiato per sempre. Non trovò lo sguardo torvo degli psicopatici, non aveva la schiuma agli angoli della bocca, ma la donna nello specchio era, senza alcun dubbio, un’assassina. Si spostò i capelli dal viso, risistemandoli dietro l’orecchio, e osservò le profonde occhiaie che si disegnavano sotto i suoi occhi scuri. Era una donna molto attraente, benché non attraversasse il miglior momento della sua vita. Decisamente più alta delle sue amiche – superava l’ 1.75 –, si era mantenuta magra e in forma. La sua pelle chiara non si abbronzava mai, in estate diventava appena più scura, e questo le conferiva un aspetto fragile, subito smentito dalla determinazione del suo agire. Ciò che non riuscì a trovare nell’immagine riflessa dallo specchio fu la paura. “La paura appartiene solo a chi ha qualcosa da perdere” pensò, “e io ho già perso tutto”. Né paura, né speranza. Nei suoi occhi c’era solo una profonda tristezza.

   Mentre cercava dentro di sé un buon motivo per continuare a vivere, sentì ululare in lontananza il camion dei pompieri.

2

Jorge Azcona passeggiava tutti i giorni con il suo cane nei parchi che circondano l’urbanizzazione di Gorraiz. La passeggiata non aveva un orario fisso, dipendeva dai turni al lavoro nella fabbrica di automobili che occupava decine di chilometri quadrati alla periferia di Pamplona. Questa settimana aveva quello di notte, per cui quella mattina era stata sua moglie a portare fuori Rober e adesso, a metà pomeriggio, toccava a lui. Avanzava a passo lento, permettendo al suo cane di intrattenersi con le pietre e l’erba alta. Di tanto in tanto gli lanciava una lattina ammaccata che aveva trovato, e il cane correva in cerca del suo improvvisato giocattolo, che afferrava con i denti e consegnava soddisfatto al suo padrone, scuotendo con forza la coda per invitarlo a continuare il gioco.

   Jorge camminava con la corda e il guinzaglio in una mano e il telefono cellulare nell’altra, tentando di non pestare le deiezioni degli altri cani. Non aveva mai immaginato se stesso intento a raccogliere in un sacchettino la merda di un animale, ma allo stesso tempo odiava coloro che non lo facevano. Il cellulare emetteva un incessante ticchettio avvisandolo che aveva diversi messaggi da leggere su WhatsApp. La discussione sulla chat del suo gruppo di amici riguardava l’ora e il luogo in cui avrebbero pranzato il 6 luglio. Bisognava arrivare al chupinazo con la pancia piena di magras con tomate e la quantità di alcol necessaria a sopportare la calca impressionante della plaza del Ayuntamiento. In realtà Jorge preferiva appartarsi un po’ dal cuore della festa, ma non sarebbe stato certo lui a proporre per primo una simile diserzione, malgrado gli anni cominciassero a pesare più di quanto fosse disposto ad ammettere.

   Un intenso odore di bruciato lo spinse a fermarsi. Pensava si trattasse di qualche falò acceso dai ragazzi che giocavano in qualche terreno incolto. Si girò e si bloccò, inorridito, nello scoprire una densa nuvola di fumo che usciva dall’ultima villetta della calle Itaroa. Senza pensarci due volte, mollò il guinzaglio dell’animale per prendere il cellulare con entrambe le mani, convinto che altrimenti gli sarebbe caduto. Compose il 112, attese lo squillo e parlò nel modo più chiaro e rapido di cui fu capace appena rispose l’operatrice. Questa, con voce professionale, gli assicurò che i pompieri sarebbero stati lì nel giro di pochi minuti, gli chiese alcuni dettagli sulla localizzazione del fuoco e se ci fosse qualcuno all’interno della casa.

   «Non lo so» rispose. «Non so neppure chi ci vive lì dentro».

   L’operatrice del Pronto Intervento gli raccomandò di non avvicinarsi al luogo dell’incendio, lui le assicurò che non aveva alcuna intenzione di farlo e interruppe la comunicazione.

   Non riusciva a distogliere lo sguardo dal fumo denso e dalle fiamme che scappavano dalle finestre senza vetri. Pensò alla possibilità che ci fosse qualcuno dentro, ma decise che, in caso affermativo, sicuramente a quel punto doveva essere già morto, e non sarebbe stato intelligente da parte sua rischiare la vita senza motivo.

   Ebbe il riflesso di bloccare con il piede il guinzaglio del cane che cominciava ad allontanarsi. Con Rober sotto controllo, tornò a contemplare l’incendio. Le fiamme, sempre più alte, avevano raggiunto il primo piano. Il pianoterra era completamente carbonizzato, più o meno come devono essere le porte dell’inferno. Una piccola esplosione precedette una pioggia di vetri che, espulsi dal calore concentrato all’interno della casa, caddero a diversi metri di distanza. Pur trovandosi fuori dalla portata delle schegge incandescenti, Jorge non poté evitare di fare un passo indietro, collocandosi il più lontano possibile da quell’inferno, ma senza perdere di vista la danza ipnotica delle fiamme, che sporgevano dalle finestre come braccia lunghe e sinuose.

   La gente aveva cominciato ad accalcarsi in strada, mentre si sentiva, sempre più vicino, il ritmico ululare delle sirene dei pompieri. “Dodici minuti” pensò, “davvero niente male”. Due camion dei nuclei antincendio frenarono bruscamente davanti alla casa in fiamme. Erano seguiti da due auto della Polizia nazionale, altre due di quella municipale della Valle de Egüés, alla quale apparteneva Gorraiz, e un’ambulanza, che arrivò pochi minuti dopo. Tutti gli effettivi si schierarono in modo deciso ed efficace e, poco dopo, l’acqua e la schiuma cominciarono a uscire con grande pressione dalle pompe quasi simultaneamente. Diversi pompieri, muniti di maschere antigas, si avvicinarono al giardino della casa e iniziarono una lenta approssimazione alla porta principale. I loro colleghi continuavano a lanciare liquido verso le finestre e presto il fumo parve perdere densità.

   Quando le fiamme sparirono dalle finestre anteriori e quelle del piano superiore lasciarono spazio a una spessa nube grigia, tre pompieri si diressero verso la porta di casa, che abbatterono con un paio di solidi colpi prima di entrare lentamente, attenti al fuoco che era ancora attivo nelle diverse stanze. Gli uomini all’interno si divisero in due gruppi; mentre uno continuava a lanciare schiuma verso le finestre, l’altro attaccò il fuoco dalla parte laterale dell’edificio. La villetta contigua era anch’essa in fiamme, ma il fuoco dava l’impressione di non averla ancora consumata del tutto. Jorge pensò che probabilmente i danni non sarebbero stati tali da rendere necessario l’abbattimento. Non si poteva dire lo stesso della prima. Aveva visto incendi simili nei telegiornali e alla fine i tecnici decretavano l’inagibilità dell’edificio, che poco dopo veniva demolito. Pochi minuti più tardi, le fiamme sparirono completamente, lasciando dietro di sé un fumo sempre più chiaro.

   Jorge Azcona guardò l’orologio, preoccupato di aver perso la nozione del tempo. Mancavano venti minuti alle otto. Poteva restare ancora un po’ prima di andare al lavoro.

   Sul marciapiede, un nutrito gruppo di vicini commentava l’accaduto. Erano curiosi e preoccupati che ci fosse qualcuno all’interno delle costruzioni danneggiate. Quest’ultimo quesito fu chiarito quando, dopo una brusca frenata, si presentarono davanti al cordone di polizia gli abitanti della seconda villetta. Scesero dal fuoristrada precipitosamente, guardando attoniti le vampate di fumo che ancora uscivano dalla loro casa, cominciarono a ricevere le prime dimostrazioni di solidarietà da parte di alcuni vicini sotto forma di brevi pacche sulla spalla del padre e rapidi abbracci per confortare la madre e i due bambini, che piangevano sconsolati senza sapere che ne sarebbe stato di loro.

   Il brigadiere Eric Gil era da oltre quindici anni nel Corpo dei pompieri della Navarra, e ovviamente non era il peggiore incendio che aveva dovuto spegnere. Come pure quello di Marcos non era il primo cadavere carbonizzato che vedeva, per cui sentì solo un leggero brivido quando aprì la porta della camera da letto al pianoterra e riuscì a diradare in parte il fumo che si era concentrato in uno spazio ridotto.

   Lo vide immediatamente, anche prima dei suoi colleghi. Il cadavere era ridotto a un ammasso irriconoscibile di carne nerastra nel quale buona parte delle ossa più piccole si erano vaporizzate per effetto del fuoco e delle altissime temperature. Il fatto che i resti fossero ancora sul letto, e non a terra o nei pressi della porta, lo indusse a ipotizzare che il fumo lo avesse asfissiato prima che le fiamme si cibassero del suo corpo. “Per fortuna” pensò. Il letto era un miscuglio informe di ferri anneriti e contorti. La pittura dell’elegante testata si era sciolta, sgocciolando fino a formare una densa pozza brunastra. I piedi sostenevano ancora il sommier, che appariva nudo, con le molle saltate in tutte le direzioni come le zampe sottili di un enorme e pericoloso ragno, che si beava compiaciuto davanti alla vittima appena afferrata. Nessuna traccia del copriletto, delle lenzuola o delle tende. Era tutto sparito, ingoiato dalla voracità dell’incendio. Il fumo saliva dal pavimento incandescente, sul quale dovettero impegnarsi a spegnere focolai residui.

   Altri due pompieri attraversarono rapidamente il resto della casa in cerca di altre possibili vittime, ma la casa era vuota. “Un altro colpo di fortuna” ripeté. Il corpo manteneva la posizione inerte di chi non ha tentato di fuggire, neppure di mettere un piede a terra, a conferma della sua idea secondo la quale l’uomo era già morto quando il fuoco aveva cominciato a propagarsi, oppure era stato asfissiato dal fumo. I medici legali avrebbero dovuto sforzarsi per trovare ciò che restava del suo sistema respiratorio ed esaminare i disastri prodotti dall’inalazione di aria troppo calda.

   Lasciò che i suoi compagni spegnessero le esigue braci e uscì fuori per dare notizia del suo ritrovamento. Adesso, la polizia avrebbe dovuto scoprire chi era la persona che giaceva sul letto. Inspiegabilmente, le scarpe sembravano essere sopravvissute alla voracità del fuoco, e spuntavano con aria di sfida tra la coperta distrutta, troppo grandi a confronto della scheletrica gamba che le reggeva. Per il resto, le fiamme avevano divorato qualunque segno che potesse servire a dare nome e cognome alla vittima. Il volto, come ogni altro tratto identificativo, era stato devastato nell’inferno.

   Una volta fuori dalla casa, Eric si tolse la maschera antigas e si riempì i polmoni di aria fresca prima di raggiungere i sanitari che aspettavano vicino all’ambulanza. Uno degli infermieri si prendeva cura di alcune persone, nervose e provate, vicino al cordone di polizia. Una donna era stesa a terra, e respirava attraverso una mascherina per l’ossigeno mentre l’infermiera le misurava la pressione. Al suo fianco, un uomo, seduto sul marciapiede, le teneva dolcemente la mano.

   «C’è un cadavere nella stanza principale» disse rivolgendosi alla dottoressa che comandava l’Unità mobile. «Ora vado ad avvertire la polizia. Sai chi è venuto?».

   «Credo Vázquez» rispose la dottoressa. «È lì vicino alla strada, sta dando un’occhiata ai dintorni».

   «Chi sono quelli?». Il suo sguardo si diresse alla coppia che si lamentava sul marciapiede. La donna piangeva sconsolata, senza neanche tentare di pulirsi la faccia dalle lacrime e dal moccio, che si mescolavano al sudore, colando lungo il mento fino al collo.

   «La famiglia che abita nella villetta a fianco, l’altra che è bruciata» rispose la dottoressa. «Stavano facendo la spesa al supermercato quando un vicino li ha chiamati al cellulare per avvisarli che la loro casa stava bruciando. Il padre è in stato di shock e sua moglie sta per avere una crisi d’ansia, al pensiero di quello che avrebbe potuto succedere se fossero stati in casa, o se l’incendio si fosse prodotto durante la notte. Le abbiamo dato un calmante, ma al momento non è servito a molto».

   «Deve essere duro vedere la tua casa che brucia, anche se loro potranno tornarci dentro nel giro di qualche settimana. Non si può dire lo stesso per quel povero disgraziato dell’altra villetta».

   Guardò di nuovo in direzione della famiglia. I due bambini, vestiti con l’uniforme scolastica, osservavano i genitori con aria sconsolata. Avevano appoggiato ordinatamente gli zaini contro il muro, vicino alle gambe, come se temessero di perdere i libri in mezzo al tumulto. Nessuno dei due diceva una parola. Non si lamentavano, non piangevano, non si lasciavano andare neppure alle abituali risatine degli adolescenti. Si limitavano a guardare i genitori e aspettare.

   Eric si allontanò in direzione dell’ispettore di polizia che era al comando delle operazioni. David Vázquez era un uomo dal portamento atletico, alto e magro, con le spalle larghe e le braccia muscolose, appassionato di footing e di calcio, sport che praticava meno di quanto avrebbe voluto, il primo per mancanza di tempo e il secondo per mancanza di una squadra. Qualche settimana prima gli avevano offerto di far parte di un gruppo di veterani e partecipare a un campionato amatoriale, ma la prospettiva di correre dietro un pallone circondato da pance prominenti, teste pelate e respiri affannosi non lo aveva entusiasmato affatto. Malgrado le apparenze, a Vázquez non interessava nascondere i quarantatré anni che stava per compiere; questo significava che non tentava di nasconderli dietro tatuaggi, piercing o ridicoli abiti giovanili. Il suo vestiario si componeva di jeans e maglioni a collo alto d’inverno, e jeans e camicie attillate in estate. Nell’incerto giugno della Navarra, aveva optato per dei jeans blu e una maglietta nera a maniche lunghe. Si notava lontano un miglio che sentiva molto caldo.

   «C’è una persona lì dentro» disse il pompiere a mo’ di saluto.

   «Porca miseria, speravo non ci fosse nessuno…». Vázquez arricciò il naso, come se lo disturbasse l’intenso odore di bruciato, anche se la realtà era che ormai da tempo il fumo gli aveva anestetizzato la ghiandola pituitaria. «Sai dirmi qualcos’altro?».

   «Poca roba» rispose Eric, scuotendo la testa. «Ho realizzato solo una prima ispezione visuale. Il cadavere è nella stanza principale, al pianoterra. È molto danneggiata, praticamente carbonizzata, il che mi porta a pensare che possa essere il punto di origine dell’incendio, ma sai bene che devo fare uno studio più esaustivo».

   «Sì, sì. Qualcos’altro?».

   «Non abbiamo trovato nessun altro. Dalla posizione del corpo, steso sul letto, credo fosse già morto quando lo hanno raggiunto le fiamme, che sia morto asfissiato, o che potrebbe perfino essere morto prima che iniziasse l’incendio, ma…».

   «Va bene, va bene» lo bloccò il poliziotto, «questo me lo diranno dopo che avranno effettuato l’autopsia. Grazie, Eric, come sempre sei stato molto gentile».

   «Di niente. E mettiti all’ombra, altrimenti dovrò mandare un pompiere a sorvegliare anche te, perché rischi di prendere fuoco».

   Eric si allontanò con un sorriso, di nuovo verso la casa e il fuoco. David Vázquez rimase dov’era, osservando lo scenario desolante che si apriva davanti ai suoi occhi. Non gli piaceva il fuoco, lo temeva profondamente e non subiva neanche il fascino che le fiamme falsamente addomesticate di un camino provocano in molte persone, capaci di restare per ore a osservare estasiate come il fuoco consuma i tronchi ardenti. Il fuoco è traditore, aspetta la minima distrazione per abbandonare la sua reclusione e impadronirsi di tutto ciò che lo circonda, come un predatore affamato e mai sazio. Inspirò profondamente, superando l’intensa avversione che lo pervadeva, e si diresse verso uno degli agenti per chiedere notizie della persona che aveva scoperto l’incendio e avvertito il Pronto Intervento. Seguendo le loro indicazioni raggiunse un uomo più o meno della sua stessa età, che teneva al guinzaglio un cane visibilmente nervoso.

   «È lei il signor Jorge Azcona?».

   «Sì, sono io». Era sicuro che il suo interlocutore fosse un poliziotto, malgrado l’assenza di un’uniforme. «Spero che non mi tratterrà molto a lungo. Comincio il turno al lavoro alle dieci e prima devo cambiarmi d’abito, cenare e prepararmi un panino».

   «Non si preoccupi, si tratterà solo di qualche minuto. Se più avanti avrò bisogno di parlare di nuovo con lei, l’avvertirò in anticipo».

   «Grazie». Jorge consultò due volte l’orologio in meno di un minuto e vide che erano le otto. «Ho al massimo un’ora. Spero che sia sufficiente».

   Vázquez guardò fisso il testimone, in un tentativo di scoprire che tipo di persona aveva davanti. Era abituato agli sguardi ostili e diffidenti da parte della gente, ma stavolta intuì che con quell’uomo non avrebbe avuto problemi. Valutò con un’occhiata il suo abbigliamento – tuta scura di marca, scarpette sportive e occhiali da sole sulla testa – e l’animale che lo accompagnava, un bastardino di razza indefinita che non sembrava adeguato al quartiere in cui si trovavano.

   «Me l’ha regalato mia sorella Sofia. È volontaria di una ONG che si occupa di animali abbandonati, e non ho potuto dirle di no» spiegò Jorge come se gli avesse letto nel pensiero. «Ma non mi pento, è un cane stupendo, è molto affettuoso con i bambini, e mi creda se le dico che ho in casa due autentici animali, ma di quelli con due zampe».

   David sorrise prima di dirigere la conversazione verso l’incendio.

   «Passeggia qui tutti i giorni a quest’ora?» cominciò.

   «Solo quando lavoro di mattina. Come le ho detto, oggi ho il turno di notte ed entro alle dieci».

   «Verso che ora ha scoperto l’incendio?».

   Jorge Azcona chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi sui ricordi.

   «Poco prima delle sette» rispose. «Quando sono arrivati i pompieri erano le sette e cinque, e ricordo di aver calcolato che avevano impiegato appena dodici minuti».

   «Ha visto qualcuno uscire nel tempo in cui è rimasto qui o dopo aver chiamato il Pronto Intervento? Oppure qualche veicolo che si allontanava?». Vázquez prendeva nota rapidamente sul quaderno nero appoggiato sull’ampio palmo della mano.

   «No, niente». Stavolta non ebbe esitazione nella risposta. «Non c’era nessuno neanche qui nel parco. Con il caldo che fa oggi, molti se ne staranno nei loro giardini con piscina, all’ombra delle pergole, mentre quelli che lavorano in centro non sono ancora rientrati».

   «È vero…». David rifletté un istante, osservando di nuovo la zona, cercando qualcosa fuori posto che attirasse la sua attenzione, ma dovette riconoscere che tutto sembrava assurdamente tranquillo. Malgrado la tragedia che era appena accaduta proprio lì a fianco, l’aria di normalità quotidiana si era impadronita di nuovo dell’urbanizzazione. A parte la puzza di bruciato, la via era pulita e tranquilla.

   La voce del testimone interruppe il filo dei suoi pensieri.

   «C’era qualcuno lì dentro?».

   «Temo che abbiano trovato un corpo. Sa chi viveva in quella casa?».

   «Non ne ho idea, ma glielo potranno dire di certo i vicini della villetta a fianco, quelli che stanno vicino all’ambulanza».

   «Certo. Grazie di tutto. Lasci all’agente che sta vicino alla macchina il suo numero di telefono dove possiamo trovarla in caso di necessità».

   «D’accordo». L’uomo si portò la mano alla fronte, allontanandosi con un cinematografico saluto militare, diede uno strattone al guinzaglio dell’animale e gli voltò le spalle.

   David guardò allontanarsi Azcona e il suo cane, che si era stancato di saltare e trottare e adesso camminava a testa bassa dietro al suo padrone. Intorno c’era tanta gente, ma nessuno sembrava disposto a giocare con lui.

   Chiamò con un gesto uno degli agenti, che si avvicinò a passo svelto.

   «Sappiamo il nome dei padroni di casa?».

   «Sì: Marcos Bilbao, avvocato, e Irene Ochoa, sua moglie, operatrice turistica. I vicini ci hanno raccontato che lui lavora in uno studio in centro mentre lei ha un ufficio nel centro storico. Non hanno figli. Si sono stabiliti qui cinque anni fa e pare siano una coppia normale. Ho chiamato il comando e non hanno trovato nulla a loro nome, né multe, né risse, né denunce di alcun genere».

   «Bisogna cercare di rintracciare entrambi. È molto probabile che il cadavere lì dentro appartenga a uno di loro. Non credo che uno sconosciuto s’introduca in una casa per mettersi a dormire, anche se ho visto cose ben più strane».

   David lanciò una rapida occhiata alla casa. I pompieri continuavano il loro lavoro, estinguendo i focolai residui. L’agente si allontanò per eseguire il compito che gli era stato affidato. Di nuovo solo, David rifletté qualche secondo su quanto fosse assurdo morire in quel modo. “Non vedi arrivare la morte, non puoi lasciare niente in ordine, né prendere commiato da coloro che ami… Semplicemente, tutto si spegne, e il mondo va avanti senza di te”.

3

Quando il suono delle sirene si spense nelle sue orecchie, Irene rimise in moto l’auto e si diresse al parcheggio sotterraneo della plaza del Castillo. Serpeggiò fra le stradine strette, attenta all’intenso traffico del tardo pomeriggio, e alla fine infilò la rampa del parcheggio. Risalì in superficie e si fermò bruscamente, sorpresa dal baccano della gente che andava e veniva per la strada, carica di buste, chiacchierando a voce alta e ridendo fragorosamente. Il bel tempo aveva quell’effetto sugli abitanti di Pamplona. Dopo un lungo inverno, i caldi raggi del sole sembravano riattivare la loro essenza vitale, facendoli uscire in strada con qualsiasi scusa e riempiendo i tavolini all’aperto dei bar fino a tarda notte anche durante la settimana. Ma lei si sentiva completamente fuori luogo. La gente la schivava senza prestarle attenzione, camminava intorno a lei interrompendo per un attimo le chiacchiere, poi tirava dritto. Si sforzò di muovere le gambe, che sentiva rigide come due bastoni di legno, e si diresse verso le scale del Pasadizo de la Jacoba. Il fresco del centro storico l’avvolse con dolcezza restituendole il respiro del quale aveva bisogno. Osservò le stradine, riparate dal sole inclemente, e le sue orecchie si riempirono dei dolci accordi del Canone di Pachelbel che in quel momento era eseguito da un quartetto da camera, quattro giovani che tentavano di guadagnare qualche moneta con la loro arte. Prese un caffè da asporto al bar. Un breve saluto e un sorriso bastarono perché la cameriera le preparasse la stessa ordinazione di sempre. Con la bustina di zucchero in tasca e il caffè in una mano, si diresse verso il portone della calle Zapateria dove aveva l’ufficio.

   Il palazzo dei Navarro Tafalla era un antico edificio del XVIII secolo, costruito nel 1752 per ordine del capitano, cavaliere di Santiago e commerciante nelle Indie, don Juan Francisco Adán y Pérez, ristrutturato di recente e trasformato per ospitare uffici e appartamenti. L’architetto incaricato dell’opera aveva avuto il buon senso e il gusto di rispettare la costruzione barocca ori ginale, le scalinate eleganti, gli stemmi araldici sulla facciata rococò e la pietra dura, riadattando allo stesso tempo spazi di circa duecento metri quadrati, dotati di tutte le comodità della vita moderna.

   L’ufficio di Irene Ochoa, al terzo piano, non era tra i più grandi, ma più che sufficiente per ospitare la sua impresa turistica. Due stanze spaziose, una sala riunioni, un piccolo salone con un impianto stereo e uno video, un bagno con doccia, una piccola cucina nascosta dietro un pannello scorrevole erano il suo rifugio. Questo era il suo posto, più della casa di Gorraiz. Qui c’erano pace, ordine, silenzio… e non c’era Marcos. Le dita le tremavano leggermente e non riusciva a recuperare il ritmo normale della respirazione. Inspirava l’aria con rapide boccate che a stento arrivavano a sfiorarle i polmoni prima di uscire di nuovo dalle labbra. Cominciava ad avere la nausea.

   Si sedette alla scrivania e iniziò a pensare al modo in cui avrebbe dovuto agire. Per la sua testa passò, ancora una volta, l’immagine di Marcos steso sul letto, circondato dal fumo. Valutò anche l’ipotesi di togliersi la vita, ma le mancava il coraggio di provarci. Immaginò allora se stessa in fuga dalla giustizia, infine arrestata, esposta al pubblico ludibrio in tribunale e condannata a passare molti anni in prigione. Sentì nelle ossa il freddo della cella, le molle affilate di una branda angusta, la solitudine del resto della sua vita. Chiuse gli occhi con forza e si concentrò per rallentare la respirazione, aspirando lunghe boccate d’aria fresca che a poco a poco dissolsero quelle immagini angosciose.

   Decise che aspettare era l’unica cosa che poteva fare. Aspettare e agire con normalità. Controllò la posta elettronica, aprì diversi documenti e rilesse un progetto che doveva presentare al Consiglio provinciale la settimana successiva. Con il tavolo pieno di carte, riuscì, per un minuto a far finta che tutto fosse normale. La mente impose una certa distanza tra sé e la realtà, permettendole di recuperare la normalità delle pulsazioni e del fiato.

   Irene Ochoa aveva fondato la sua impresa di promozione turistica sette anni addietro. Sin dall’inizio, i suoi itinerari della Navarra erano stati molto bene accolti, specialmente fra i turisti stranieri più facoltosi, che amavano andare a pesca in riserve private, ansimavano salendo i ripidi pendii dei Pirenei fino alla Mesa de los Tres Reyes. Lo facevano calzando scarpe costosissime e abbigliati come se stessero andando a scalare l’Everest; oppure sognavano l’esclusivo piacere di aprire la finestra della loro stanza d’albergo alle otto del mattino del 7 luglio e avere ai loro piedi il magico spettacolo dell’encierro. Era corsa la voce della sua serietà e della sua esclusività e questo l’aveva fatta diventare una delle operatrici più richieste della zona. In quel momento aveva cinque dipendenti, incaricati di accogliere e guidare i turisti che arrivavano da ogni parte del mondo.

   Terminò il caffè quando ormai era freddo. Ancora con il bicchiere vuoto in mano, percorse in lungo e in largo la stanza. I suoi tacchi picchiettavano sul legno del pavimento, un suono rivitalizzante, attenuato solo dall’elegante tappeto che copriva quasi completamente l’ufficio. Andava da una stanza all’altra, pensando a quello che era accaduto, e ponderando ciò che stava per succedere. Si fermò davanti all’ampia vetrata dalla quale poteva vedere il sole dare l’ultimo saluto al giorno, strappando riflessi rossastri ai tetti più antichi di Pamplona. Aspettava di scoprire il lampo azzurro delle sirene della polizia riflettersi sull’edificio. Le finestre del suo ufficio si aprivano sulla facciata dell’hotel Maisonnave. La prossimità del mese di luglio e delle feste di san Fermín provocavano ogni anno un aumento considerevole del numero dei turisti, e quel pomeriggio c’era un grande assembramento davanti all’albergo, soprattutto di uomini e donne vestiti con pantaloni corti e sandali. “Pensano che tutta la Spagna sia come Marbella” rifletté Irene, sorridendo, “e quando vengono al nord restano congelati con le loro calzature francescane”.

   Alle otto e dieci, il telefono dell’ufficio la strappò bruscamente ai suoi pensieri. Un trillo irritante le trapanò i timpani e la obbligò a correre verso il tavolo. Si fermò appoggiando le mani sul piano di legno per mantenere l’equilibrio, respirò profondamente e rispose quando iniziava il quarto squillo.

   «Promozioni Turistiche Iruña, desidera?».

   «Salve» rispose una voce maschile all’altro capo del telefono, «vorrei parlare con Irene Ochoa».

   «Sono io, in cosa posso aiutarla?». Tentava con tutte le forze di far sembrare normale la sua voce, ma nel terminare la frase non riuscì a evitare un leggero tremore del quale, però, il suo interlocutore non si accorse.

   «La chiamo dal commissariato di polizia di Pamplona, signora. Lei per caso vive al numero 23 della calle Itaroa, nell’urbanizzazione di Gorraiz?».

   «Sì, c’è qualche problema?».

   «Temo che si sia verificato un incendio, signora. Suo marito è lì con lei?».

   «No, di solito Marcos arriva a casa verso le cinque e io non torno prima dell’ora di cena». La sua voce adesso tremava apertamente. «Gli è successo qualcosa?».

   «Stiamo tentando di localizzarlo. Sarebbe meglio se tornasse a casa. Nelle vicinanze ci sono diversi agenti che l’aspettano per darle tutto l’aiuto di cui avrà bisogno. Nel frattempo potrebbe tentare di rintracciare suo marito?».

   «Sì, certo… ora lo chiamo al cellulare. Vado subito a casa. La saluto».

   Ancora con la cornetta in mano, cominciò a piangere. Gli spasmi del suo corpo e il pianto incontrollabile si prolungarono per diversi minuti. Poi, quando sentì che stava per crollare, prese il cellulare dalla borsa e premette un solo tasto, quello per la chiamata rapida del numero di Marcos. Il messaggio registrato la informò che il telefono era spento o non raggiungibile. “Non raggiungibile” pensò. “Sembra uno scherzo”.

   Con la giacca e la borsa in mano, Irene si lanciò giù per le scale, verso il parcheggio, verso l’auto e poi di nuovo verso casa, ad affrontare la realtà, una vita diversa che in quei momenti era una totale incognita. Non sapeva neanche come sarebbe stata capace di vivere con le conseguenze dei suoi atti.

   Quando Irene Ochoa parcheggiò bruscamente l’Audi A3 nera davanti a casa, l’ispettore David Vázquez stava parlando di nuovo con il capo dei pompieri. Da qualche minuto, i vicini della seconda villetta se n’erano andati a casa di parenti che li avrebbero ospitati fino a quando l’ispezione avesse determinato che fine avrebbero fatto i due edifici divorati dal fuoco. Quando si accorse che Eric Gil aveva smesso di ascoltarlo, si voltò per scoprire cosa ci fosse di così importante da guardare. Vide una donna alta, pallida e nervosa che parlava con uno degli agenti in uniforme. Il poliziotto la lasciò in attesa vicino alla macchina e raggiunse Vázquez.

   «È Irene Ochoa, la proprietaria della casa» la informò. «L’hanno chiamata dal commissariato per avvertirla dell’accaduto. Dice che non sa dove si trova suo marito».

   «Bene. Vado a parlarle. Eric, per favore, avvisa il personale medico di tenersi pronto. Potrebbe aver bisogno del loro intervento. Non sarà facile».

   «Non è mai facile» commentò il pompiere prima di allontanarsi.

   Soltanto dieci passi lo separavano da quella donna che tremava vicino all’autopattuglia. Uno spazio sufficiente a percepirne la bellezza, un pensiero che gli parve del tutto inappropriato, tenendo conto che stava per comunicarle che quasi certamente non avrebbe più rivisto suo marito. Si fermò davanti a lei e la guardò negli occhi prima di salutarla. Lei non abbassò i suoi occhi neri, ricambiando uno sguardo che David non seppe interpretare.

   «Signora, sono l’ispettore David Vázquez».

   «Io sono Irene Ochoa. Vivo in quella casa. Mio marito non risponde al cellulare e allo studio legale mi hanno detto che è andato via poco prima delle cinque. Cosa è successo?». Parlò in fretta, stringendo le labbra e lasciando uscire le parole tra i denti. Vázquez avvertì la paura nel tono della sua voce, il timore che provoca la certezza che la notizia in arrivo le avrebbe devastato la vita.

   «Mi dispiace molto, ma temo di non avere buone notizie. C’è stato un incendio nella villa. Al momento non ne conosciamo l’origine. Quando i pompieri hanno domato le fiamme e sono penetrati all’interno, hanno trovato un corpo nella camera da letto al pianoterra».

   «È la mia camera da letto, quella di mio marito. Cosa vuol dire che avete trovato… un corpo?».

   La voce era preda di un tremore incontrollato, ma lei sperava che il poliziotto vedesse soltanto dolore nelle sue parole, e non il panico che la stava travolgendo.

   «C’era una persona stesa sul letto. L’hanno trovata priva di vita. Non sappiamo ancora chi è, ma è molto probabile che si tratti di qualcuno relazionato con la casa».

   «Marcos era abituato a stendersi un po’ quando tornava dal lavoro… A volte accendeva la televisione e a volte si appisolava. Non era raro che lo ritrovassi addormentato quando tornavo all’ora di cena».

   «Allora non sarebbe strano che anche oggi si fosse addormentato quando è iniziato l’incendio. Prendeva qualche tipo di sonnifero?». David cercava la risposta a una domanda che gli frullava in testa già da un po’: come è possibile che una persona dorma così profondamente da non svegliarsi con il caldo e il fumo di un violento incendio che gli si è scatenato intorno? La vittima non aveva tentato di fuggire, pareva non si fosse nemmeno alzato. Negli occhi di Irene vide che c’era qualcosa che lei non gli aveva ancora raccontato. «Allora…?» insisté, facendole coraggio.

   «Be’… a volte Marcos beve un po’ quando torna a casa, se la giornata al lavoro è stata particolarmente dura. Gli piace bere uno o due bicchieri di rum, dice che lo aiuta a rilassarsi. È una cattiva abitudine che gli rimprovero sempre, ma per lui è una specie di via di fuga. A volte dorme fino al giorno seguente, senza neanche togliersi le scarpe, e non si accorge nemmeno di quando torno o vado a stendermi al suo fianco. Non lo smuove niente fino a quando suona la sveglia».

   «Bene. Dobbiamo ancora identificare la persona che abbiamo rinvenuto in casa, ma temo che dovrà prepararsi al peggio, date le circostanze». Vázquez parlò a bassa voce, sperando che le sue parole la ferissero il meno possibile.

   Un brivido percorse la schiena di Irene, uno spasmo così violento che l’ispettore pensò che stesse per svenire. Alla fine si riprese e tornò a respirare più lentamente. David ammirò il coraggio e l’autocontrollo dimostrati da quella donna che lo guardava negli occhi senza mai abbassare lo sguardo.

   «Cosa posso fare?».

   «Non è necessario che resti qui fino a quando le operazioni saranno terminate. Il giudice e il segretario non sono ancora arrivati e può darsi che siano necessarie ancora alcune ore. Ho bisogno di sapere, questo sì, dove trovarla, ma basta che mi lasci un numero di cellulare dove è rintracciabile a qualunque ora».

   «Dovrò parlare con la madre di Marcos…».

   «Le ripeto che non c’è ancora nulla di ufficiale, ma forse non sarebbe una cattiva idea informarla dell’accaduto. In una città piccola come questa le notizie volano, soprattutto quelle brutte».

   Irene tirò fuori dalla borsa una penna e un biglietto da visita sul cui dorso annotò un numero di cellulare.

   «Credo che adesso andrò a trovare mia suocera, vive alla Vuelta del Castillo, e poi resterò in ufficio, a questo indirizzo» disse, mentre gli porgeva il biglietto. Il tremore delle mani era sparito. «Lì ho un divano-letto sul quale, all’occorrenza, passare la notte».

   «D’accordo. La chiamerò appena avrò qualche novità, o se nasceranno dei dubbi che lei potrebbe aiutarci a chiarire».

   Mentre Irene si allontanava verso l’auto, David pensò che c’era qualcosa di strano in lei, ma poi scartò immediatamente l’idea. Le belle donne avevano il potere di appannare il suo buon senso, e questa era veramente molto bella.

   Rimase solo e pensieroso per un bel po’. Vide arrivare il giudice di turno, che entrò nella casa dopo essersi cambiato le scarpe con un paio di stivaloni di gomma. Era accompagnato dal medico legale incaricato di certificare il decesso e dal segretario del tribunale, un giovane che annotava tutto ciò che il giudice gli indicava mentre tentava di schivare le enormi pozzanghere provocate dall’intervento dei pompieri. Dopo meno di mezz’ora il magistrato abbandonò la casa sudato, coperto di fuliggine e con gli abiti inzuppati dall’acqua che cadeva dal piano superiore, e ordinò la rimozione del cadavere. David poté allora riunirsi di nuovo con Eric Gil per stabilire come accedere nella villa per iniziare le indagini sulle cause dell’incendio.

   «Noi due entreremo per primi. Sarà sufficiente che dietro di noi entrino un altro paio di pompieri e uno dei tuoi agenti. Non credo che ci sia pericolo di crolli, il calcestruzzo assorbe le alte temperature quasi senza deteriorarsi, e queste case sono state fatte con materiali di prima qualità. Semmai è possibile che qualche parte della struttura interna sia stata danneggiata, soprattutto i tramezzi, i rivestimenti di gesso o le piastrelle. Porterò un giaccone e un casco».

   «Hai da prestarmi un paio di stivali numero quarantatré?». Guardava la porta della villa, nera come il suo interno, e desiderò con tutto il cuore di essere da un’altra parte.

   «Ne portiamo sempre diverse paia, ma non so di che numero sono. Aspetta un attimo».

   Mentre Eric cercava gli stivali, David si lamentò per l’ennesima volta dell’abbigliamento che aveva scelto. Era accaldato, sentiva la maglietta appiccicata al corpo e adesso, come se non bastasse, doveva infilarsi in una casa dove c’erano più di quaranta gradi. “Geniale” si disse.

   Dopo essersi coperto e attrezzato a dovere, seguì Eric all’interno. Dietro di loro, due pompieri e un poliziotto, la cui missione sarebbe stata quella di raccogliere, imbustare e catalogare i reperti che Eric e David avrebbero indicato, e che poi sarebbero stati analizzate dai tecnici del Corpo nazionale di polizia. Il compito dei due pompieri, invece, era vegliare sulla loro sicurezza, un lavoro per nulla semplice, tenendo conto del panorama desolante che trovarono entrando.

   Il fuoco aveva carbonizzato praticamente tutti i mobili, distrutti prima dalle fiamme e poi dall’azione devastatrice del liquido espulso a grande pressione dalle pompe dei vigili del fuoco. In un angolo, un mobile di metacrilato era ridotto a un informe blocco nerastro. Lo stesso aspetto avevano le pareti e perfino il soffitto, dove le lingue di fuoco avevano lasciato in bella vista la struttura dell’opera. Una lampada pendeva ancora, ostinata e nuda, legata a un puntale vuoto, ormai incapace di illuminare qualcosa che avesse ancora vita in mezzo a quell’inferno.

   Con cautela, misurando ogni passo, si diressero nella camera da letto principale, dove avevano trovato il cadavere. Entrando, David notò per prima cosa i resti del grande letto largo due metri. Era uno di quei letti con canapè. Ricordava che un collega ne aveva comprato uno, piuttosto caro, e che dentro ci conservava gli sci e l’attrezzatura da montagna. Qualunque cosa la coppia conservasse dentro quello spazio, adesso non esisteva più. Ai piedi del letto, vicino alla parete, un tavolino e un televisore 25 pollici praticamente fuso per effetto dell’enorme calore. Due comodini si reggevano in precario equilibrio appoggiati contro il muro, sorretti da piedi striminziti, che ancora resistevano pur essendo quasi del tutto spaccati. L’armadio a muro, annerito da capo a piedi, sembrava aver resistito meglio alle fiamme, anche se nulla del suo contenuto avrebbe potuto essere mai più utilizzato. Un intenso odore di capelli e carne bruciata li colpì appena varcata la soglia. L’agente Lorea, nuovo a queste esperienze, cominciò a rinculare lentamente verso il corridoio, trattenendo a stento i conati, e alla fine dovette abbandonare precipitosamente la casa e uscire in strada, giusto in tempo per vomitare. Tornò solo dopo qualche minuto, scusandosi, mentre si puliva la bocca con un fazzoletto. Sudava molto ma giurò e spergiurò di essere perfettamente in grado di lavorare.

   «Da dove cominciamo, Eric?» disse David una volta ricostituito il gruppo. «Sei tu l’esperto qui».

   «Da tutto quello che è fuori posto. Come quei vetri per terra, vicino al letto».

   L’ispettore si diresse con cautela verso la zona più lontana dalla porta. Si chinò sulle macerie e raccolse quello che sembrava essere la grossa parte inferiore di un bicchiere di vetro, totalmente nero, e alcuni cristalli più fini e frammentati in diverse dimensioni. Su alcuni si intravedeva ancora un elegante disegno smerigliato. Altri pezzi di vetro, invece, parevano appartenere a una bottiglia scura, probabilmente marrone o ambrata.

   «Io direi che sono i resti di un bicchiere e di una bottiglia» azzardò Eric, «anche se non so che liquido contenevano. Il calore ha fatto evaporare tutto e l’odore di fumo è troppo intenso per identificare qualsiasi altro aroma, ma sono certo che, una volta ripuliti, i pezzi restanti potremo ricostruirli come un puzzle».

   «Deve essere una bevanda alcolica. La donna dice che il marito, spesso e volentieri, si sdraiava sul letto e beveva». Vázquez allungò la mano verso il bicchiere, facendolo girare e aspiran done l’odore. Migliaia di minuscole particelle di fuliggine penetrarono nelle sue fosse nasali, provocandogli uno scomodo prurito che lo fece starnutire rumorosamente. Quando finì, si pulì il naso con un fazzoletto e riconsegnò il bicchiere all’agente che lo accompagnava.

   «Se era ubriaco, non è strano che non abbia percepito il fumo e il calore».

   Eric rimase chino vicino ai resti del letto mentre l’attenzione di David era rivolta altrove.

   «Cos’è questo?» chiese indicando un oggetto contorto, forse metallico, che giaceva su un lato del letto. Notarono insieme una piccola ciotola rimasta incastrata tra i ferri contorti che spuntavano ovunque.

   Eric lo raccolse con cura e lo fece girare un paio di volte prima di passarlo a David, che si era già infilato i guanti ignifughi. Tutto era ancora molto caldo.

   «Sembra un portacenere» indicò Vázquez.

   «Sono d’accordo. Una combinazione mortale» annotò il pompiere. «Alcol, tabacco e sonno. Una sigaretta potrebbe avere incendiato la coperta. I nuovi materiali di sicurezza che si utilizzano per i copriletti li fanno ardere più lentamente, dando tempo alle vittime di svegliarsi e fuggire. Ma emanano un fumo denso e tossico che può asfissiare una persona in meno di quindici minuti se non è capace di allontanarsi abbastanza. Passato questo lasso di tempo, arrivano le fiamme, che in un attimo raggiungono tutto ciò che sta intorno alla coperta. I materiali dell’interno di una casa sono come la benzina. Non siamo consapevoli di quanto possano essere pericolose le tende o una coperta sintetica».

   David ascoltava e annuiva. Di fatto, una volta partito il fuoco, era molto difficile controllare l’incendio in una casa. Ardeva tutto come paglia secca e le fiamme si alimentavano avide e impetuose della plastica, il nylon, la carta, la legna e i solventi che trovavano al loro passaggio.

   «È molto probabile che le cose siano andate come dici tu».

   Imbustarono come elementi di prova i resti di vetro, il portacenere e un po’ della fuliggine accumulata nei diversi angoli della stanza, nella speranza di trovarvi tracce di qualche acceleratore del fuoco, anche se l’olfatto esperto di Eric non aveva rivelato la presenza di combustibile. Quindi controllarono invano le prese elettriche, in cerca di un possibile cortocircuito. Tutto sembrava in ordine. Carbonizzato ma in ordine.

   L’analisi della stanza e del bagno contiguo durò oltre trenta minuti. Non trovarono nulla che attirasse la loro attenzione. All’interno della casa si respirava a fatica. L’aria era talmente calda che la gola bruciava come se stessero ingoiando acqua bollente. Vázquez si affacciò in un paio di occasioni alla finestra semi-distrutta, per respirare un po’ d’aria fresca. Avanzarono ancora, lentamente, per il resto della casa. Il fuoco non aveva rispettato niente. L’edificio era completamente bruciato e scricchiolava minaccioso. Il mattino seguente i tecnici comunali avrebbero deciso se si poteva ricostruire o se, al contrario, sarebbe stato meglio abbatterla. Eric aveva visto buttare giù case molto meno danneggiate di questa, per cui, secondo lui, il futuro di quell’abitazione era già segnato. Non videro nulla fuori posto in cucina, eccetto le piastrelle saltate dalle pareti a seguito delle temperature estreme. I mobili erano praticamente spariti, e a stento era possibile intuirli fra i resti di quelli che poche ore prima erano un tavolo o delle sedie. Sia la caldaia a gas, sia l’impianto di riscaldamento erano in ordine. Passarono nel salone e poi al piano superiore, dove trovarono altre due camere e un bagno. Nella mansarda, la parte meno danneggiata della casa, trovarono i resti di un enorme televisore, un biliardino, due divani e una libreria che copriva tutta la parete. C’erano anche un computer portatile, un impianto stereo in uno degli angoli, vicino a un oggetto che doveva essere stato un tavolo da lavoro. Ovviamente, nulla di tutto quello avrebbe mai più funzionato.

   Il lavoro fu lento e minuzioso, ma tutti gli indizi trovati non facevano che confermare l’impressione che l’incendio avesse avuto origine al pianoterra. David era convinto che si trattasse di un incidente, ma l’esperienza gli aveva insegnato a non dare mai nulla per scontato, e meno ancora quando c’è un cadavere di mezzo. Si sarebbe adeguato. Il giorno seguente avrebbe analizzato i dati raccolti e, in base ai risultati, avrebbe deciso il da farsi. Contava di archiviare il caso rapidamente. Aveva già troppo lavoro arretrato e non aveva intenzione di perdere tempo con quello che aveva tutta l’aria di un incidente. Lui, però, non si era mai fatto guidare dalla fretta, né in campo personale né in quello professionale.

4

La visita alla famiglia di Marcos fu terribile, esattamente come si aspettava. Il padre, Armando, era morto di aneurisma cerebrale qualche anno prima, e la mente di Ana, la madre, da allora era andata alla deriva. La sorella minore di Marcos, Marta, di venticinque anni, aveva preso le redini di quel che restava della famiglia. C’erano solo alcuni zii e cugini sui quali contare.

   Irene arrivò a casa dei Bilbao quando erano da poco passate le nove e mezzo di sera. Si fermò brevemente sul pianerottolo per riunire le poche forze che le restavano prima di suonare. Si sfiorò uno dei lividi sulle costole, represse un gemito e si ricompose poggiando il dito sul campanello. Quando aprì la porta, Marta Bilbao non riuscì a nascondere la sorpresa e il fastidio di trovarsi di fronte sua cognata. Guardò alle spalle di Irene, cercando suo fratello.

Continua a leggere …

L’autrice

Susana Rodríguez Lezaun. Giornalista e autrice spagnola, Susana Rodríguez Lezaun ha studiato scienze dell’informazione all’Università dei Paesi Baschi, dopodiché ha lavorato in numerosi media, come El Mundo o El Heraldo de Soria , tra gli altri. Appassionata di scrittura sin dalla giovane età, la sua passione è sempre stata quella di raccontare storie, con una predilezione speciale per i gialli. Fedele seguace di autori come Agatha Christie, Mankell , Simenon o Vázquez Montalbán , il genere criminale è stato scelto per fare il salto sulla scena letteraria. Nel 2015 ha pubblicato il suo primo romanzo, Senza ritorno, un appassionante intrigo con il quale ci ha presentato un serial killer sul Camino de Santiago.

 

 

 

  • Senza ritorno
  • Susana Rodríguez Lezaun
  • Traduttore: Pier Paolo Marchetti
  • Editore: Elliot
  • Collana: Scatti
  • Anno edizione: 2020
  • In commercio dal: 18 giugno 2020
  • Pagine: 384 p., Brossura
  • EAN: 9788869939532.  [btn btnlink=”https://www.ibs.it/senza-ritorno-libro-susana-rodriguez-lezaun/e/9788869939532?inventoryId=184240647″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#dd0000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 17,58[/btn]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Controllate anche

«FUGA DI UN FIGLIO DEL WEF»

La ribellione inattesa di un erede dell'élite globale …