Tre cortei per la pace, ma nessuna direzione chiara. E tra chi prima marcia per la guerra e poi per la pace, viene da chiedersi se nemmeno un arcangelo basterebbe a farci credere alla loro buona fede
SI FA PRESTO A DIRE PACE…
Il Simplicissimus
Sognavo una grande manifestazione per la pace, ho trovato tre cortei, ognuno con la sua verità in tasca, e il Partito Democratico in prima fila a Roma, tre settimane dopo aver marciato – più o meno convintamente – per la guerra. E mi dicono che dovrei fidarmi. Che sono affidabili, coerenti, onesti. Ma nemmeno se mi apparisse un arcangelo in sogno riuscirei a crederci. Il concetto di pace dovrebbe essere semplice. E invece, quando non si riesce nemmeno a trovare un accordo su questo, quando anche la parola “pace” viene sezionata, problematizzata, ridotta a slogan da riscrivere a seconda delle convenienze, allora il problema non è solo politico. È culturale, è morale. È nostro. (f.d.b.)
Sono decisamente uno a cui non sta bene nulla, anche perché non sembra che ci sia molto di buono in giro. Uno spera che una grande manifestazione per la pace faccia capire agli oligarchi europei che non tira aria buona dalle parti del popolo per i loro propositi bellici e si trova invece con tre cortei, di cui uno, quello di Roma, con la partecipazione ambigua del Pd che tre settimane prima aveva messo in piedi una manifestazione per la guerra. Se mi venisse in sogno un arcangelo a dirmi che questa è gente onesta e attendibile proprio non riuscirei a crederci. Ma poi il concetto della pace è semplice e quando non ci si riesce a mettere d’accordo nemmeno su questa petizione di principio, quando ci sono troppi distinguo e infinite frammentazioni, c’è qualcosa che non funziona. Ad ogni modo ciò che davvero manca all’invocazione della pace è l’assenza di un qualsiasi significato da attribuire alla guerra e non parlo solo della genesi del conflitto ucraino o di quello palestinese che si può attribuire agli uni o agli altri a seconda del proprio livello di coscienza, di conoscenza e di QI, ma proprio dei fondamentali, del significato che hanno i conflitti nella società neoliberista.
In un passo del manifesto che ha accompagnato la manifestazione romana in mezzo ad altre considerazioni assolutamente condivisibili, c’è un passo piuttosto oscuro nel quale si dice: “Sbaglia chi riduce il riarmo europeo ad uno stratagemma per rilanciare il ciclo economico. I guerrafondai ubbidiscono all’imperativo strategico per cui, considerato possibile battere la Russia, allora non resta che prepararsi per farlo”. Non ha senso perché anche ritenendo che la Russia possa essere battuta, questo risultato lo si otterrebbe solo attraverso la vaporizzazione dell’intera Europa e questo lo sanno benissimo anche gli imbecilli di Sua Maestà o i caproni delle università della Ivy League da dove provengono gli uomini dei servizi americani. Il fatto è invece che la guerra è strutturale a un capitalismo estremo che ha raggiunto i limiti dell’accumulazione di capitale e si trova a un bivio: o la caduta delle oligarchie che hanno gestito tale accumulazione oppure trovare un sistema affinché l’accumulazione riprenda. La guerra è in un certo senso l’ideale se proprio altri metodi falliscono. Si è tentato per esempio di ottenere lo stesso risultato attraverso Net Zero, (1)ma l’impossibilità pratica di realizzare gli obiettivi proposti, la stessa inconsistenza della teoria catastrofista imperniata sulla CO2, hanno costretto a una relativa marcia indietro. Così non rimane che il conflitto generalizzato. E se questo dovesse portare a grandi distruzioni non importa, anzi finirebbe per distruggere tanto capitale da far ricominciare l’accumulazione. Ciò che va compreso è che il capitalismo dipende dalla sua capacità di accumulazione piccola o grande che sia, come lo squalo deve sempre muoversi per respirare.
Certo tutto questo non è di immediata comprensione anche perché è mischiato ad altri fattori, per esempio quello del declino dell’impero americano che per un secolo è stata la fucina del capitalismo e che negli ultimi 50 anni è stata la leva necessaria per il successo del globalismo, che non è altro se non lo sviluppo logico del capitalismo. In un certo senso ciò dà torto sia a Marx sia ad Adam Smith riguardo al ruolo degli stati nazionali o comunque delle grandi aggregazioni di potere territoriale ed economico, ma qui sarebbe fuori luogo analizzare le differenze tra globalismo ed internazionalismo o cominciare ad aggredire sia le rigidità dei meccanismi dialettici, sia la vacuità della “società assente” smithiana. Rimane il fatto che aggregazioni come classi o nazioni in qualche modo si oppongono all’atomismo individuale del capitalismo e dunque contro una società diseguale in radice.
Questi brevissimi cenni dovrebbero portare a comprendere come la battaglia per la pace non può avere alcun successo se non si capisce che essa deve essere tutt’uno con la battaglia contro la fase agonizzante del neoliberismo globalista che cerca la propria salvezza proprio nel conflitto e nei conflitti, nella distruzione, nella rapina e persino nelle stragi. Essere accorati difensori del globalismo che può vivere solo frantumando i poteri planetari che vi si oppongono, e poi chiedere la pace è destinato all’insuccesso o è una mera ipocrisia. Ciò che si deve chiedere non è un passo indietro rispetto al bellicismo insensato, ma è chiedere che i guerrafondai, alias i distruttori dei diritti del lavoro, alias i fautori dell’austerità, alias i nemici dello stato sociale, alias i distruttori delle comunità nazionali che sono poi la radice della democrazia, se ne vadano a casa in blocco.

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