”Manca la fantasia, manca la voglia di affaticarsi a cercare parole diverse
SPIRITO GREGARIO DEI CHIERICI DELLA DISINFORMAZIONE
“Paziente oncologico”. Con al massimo la variante “malato oncologico”. La ricostruzione della cattura (o della consegna) di Matteo Messina Denaro è stata accompagnata da questa definizione da parte dei media televisivi. Non uno dei chierici della disinformazione che si sia spinto a parlare di cancro, di tumore. Non per una forma di rispetto, per qualche inesistente adeguamento al linguaggio politicamente corretto o banalità simili. Semplicemente per spirito gregario.
Manca la fantasia, manca la voglia di affaticarsi a cercare parole diverse, definizioni che si distacchino da quelle del gregge. E non ha nulla a che fare con il timore della mafia o con l’obbedienza al pensiero unico obbligatorio. Che si tratti della Rai, di Mediaset o della tv di “braccino” Cairo, i servizi dalle solite località di montagna o di mare mostrano paesaggi che sono, immancabilmente, “mozzafiato” o, con uno sforzo di fantasia estrema, “da cartolina”. La violenza è sempre “inaudita”, il morto aveva un carattere ovviamente “solare” e rappresentava “un punto di riferimento” per amici o colleghi. Se era giovane era anche una “promessa dello sport”. La manifestazione, il prezzo, lo scrittore, un quadro, il concerto, un incidente: per tutti l’aggettivo obbligatorio è “importante”.
In un tempo lontano, quando il giornalismo si occupava di fornire notizie e di raccontarle in buon italiano, ai nuovi colleghi che entravano in redazione veniva categoricamente vietato di utilizzare le famigerate “frasi fatte”. “La polizia brancola nel buio”, “è arrivata la bianca visitatrice” (nel senso della neve, non della coca…). E non era ammesso confondere “tu” con “te”, “gli” con “le”.
Eppure, evitando la sciatteria del linguaggio, si riusciva persino a fornire notizie. Magari false, taroccate (la menzogna è parte integrante del giornalismo), proprio come adesso. Ma almeno scritte bene. E con la speranza di distinguersi dai colleghi, di essere riconosciuti dai lettori anche per il tipo di scrittura, per i vocaboli utilizzati. Ora si è passati all’aspirazione alla banalità ed al gregariato. Il capo branco decide di adoperare una determinata parola e tutti la ripetono. Che si tratti della guerra o di una partita di calcio, della cronaca nera o di una recensione musicale. Ma, in tutti i casi, la banalità non è neutra. È funzionale alla trasmissione di un unico messaggio, di condanna o di assoluzione, di approvazione o di denuncia, di creazione o distruzione di un personaggio.
Però non c’è da preoccuparsi. Ci sono corsi di aggiornamento professionale. Per spiegare la differenza tra “tu” e “te”? Per insegnare i sinonimi di “mozzafiato”? Macché. Per convincere ad utilizzare “assessora”, “ministra”, “tutt*”, “collegh*”. Sono le grandi conquiste del giornalismo e del piacere della lettura.