”Palamara e la sua “banda”: la pubblicazione di impressionanti intercettazioni? Un modus operandi che lascia “senza parole”. Quando la politica e l’ideologia entrano dalla porta “la giustizia” fugge precipitosamente dalla finestra
La nonna materna di chi scrive queste note era nata verso la fine dell’Ottocento. Piccolissima, aveva fatto in tempo a vivere l’ultima epidemia di colera. Aveva frequentato la seconda elementare e parlava solo il dialetto. Di lei ricordiamo i grossi occhiali che utilizzavano allora gli affetti da cataratta, una certa taccagneria figlia della povertà vissuta nell’infanzia e alcune frasi lapidarie, vere e proprie sentenze per orientare la vita del nipote prediletto. Una, che ripeteva spesso, era “stai lontano dalla giustizia! “. La sentiamo ancora risuonare nelle orecchie, pronunciata con enfasi, gravità, l’indice ammonitore. Nonna Luigia aveva ragione da vendere. La sua non era solo l’esortazione a vivere nell’onestà, ma era anche la sfiducia delle persone semplici per i meccanismi, il linguaggio e gli uomini della legge, così incomprensibili, estranei alla mentalità di chi si guadagna la vita con il sudore della fronte.
La paura della “giustizia”(ndr1), intesa come apparato incombente e sostanzialmente nemico, macchina impersonale da cui guardarsi con tutte le forze, ci accompagna sin dall’adolescenza, ed è diventata distanza sospettosa, talora vero e proprio terrore. I fatti delle ultime settimane, con la pubblicazione di impressionanti intercettazioni di dialoghi e messaggi di magistrati – gli operatori della giustizia, i custodi della legge, coloro che accusano, giudicano ed esercitano un potere immenso e praticamente incontrollato – hanno rafforzato la convinzione che le idee della nonna, donna semplice che allevò figli e nipoti e tenne per quarant’anni un esercizio commerciale, fossero un distillato di saggezza popolare.
Confessiamo: la paura di essere travolti, stritolati dagli ingranaggi giudiziari ci ha sempre accompagnato. Per professione, ci è toccato frequentare quegli ambienti senza mai liberarci da una paura sottile: paura di dire ma anche di tacere, difficoltà di tenere il “giusto” comportamento. Redigere rapporti penali a carico di qualcuno – per quanto si trattasse spesso di soggetti ben meritevoli del tribunale – ci è sempre costata fatica e le numerose volte in cui ci siamo seduti sul banco dei testimoni ci siamo sentiti in un letto di Procuste. La sindrome del colpevole, anche un po’ ridicola, nonostante il nostro ruolo fosse quello di chi applicava le leggi dello Stato.
Stai lontano dalla giustizia, ingiungeva la nonna, ma il nipote non poteva, per dovere d’ufficio. Nel tempo, ci siamo persuasi della verità di un’affermazione di Thomas Hobbes(1): è il potere, non la
verità, che crea le leggi. Più prosaicamente, l’umoristica, ma ferrea legge di Murphy(2)(L.C.), ha dimostrato che presso ogni categoria o gruppo umano la percentuale di malvagi e di onesti, di galantuomini e mascalzoni, è pressoché uguale, a nulla rilevando la funzione o la cultura. Inutile, dunque, pretendere o sperare che chi amministra giustizia sia un santo o un essere superiore. Il procuratore antimafia calabrese Nicola Gratteri – un uomo che vive blindato, praticamente senza una vita privata – avrebbe affermato che la corruzione, nella sua categoria, raggiunge il 5-6 per cento del totale. Se fosse vero, si tratterebbe di almeno 500 corrotti che indagano, giudicano, accusano, hanno tra le mani la libertà personale, l’onore e gli interessi dei loro concittadini.
Speriamo abbia torto, ma ciò che sgomenta – e gli elementi trapelati nelle intercettazioni ne sono una prova sconcertante – è un costume, un modus
operandi che lascia senza parole. La frase che sentiamo tanto spesso ripetere dai tanti che entrano nel cono d’ombra delle indagini – colpevoli o innocenti – “ho fiducia nella magistratura”, è una sorta di litania obbligata, una premessa in cui l’espressione e il tono di chi la pronuncia smentisce le parole. Sapevamo da tempo – le intercettazioni telefoniche escono secondo interesse e tornaconto di qualcuno – che la principale funzione del CSM, Consiglio Superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dell’ordine giudiziario, è amministrare le carriere e gli incarichi dei colleghi, la più potente casta italiana secondo convenienza politica, appartenenza a correnti e partiti interni, difendendo gli amici e gli affini, amministrando i rapporti con la politica e colpendo i non allineati.
Nonostante la paura ereditata dalla nonna, osiamo affermarlo in quanto ammesso dallo stesso presidente della Repubblica, nelle occasioni – rare – in cui non ha potuto fare a meno di intervenire sulle vicende del CSM, definito da moltissimi “un verminaio”. Conosciamo il giudizio lapidario di un politico di lungo corso e di spregiudicati maneggi, Giovanni Giolitti(3): la legge per gli amici si interpreta e per i nemici si applica. Abbiamo assistito all’attacco ventennale contro un personaggio tutt’altro che limpido come Silvio Berlusconi, accusato praticamente di tutto.
Ci è noto l’impegno di tanti avvocati a difendere “dal “processo e non nel processo i loro assistiti. Tutti sanno che i magistrati sono inquadrati secondo orientamento ideologico, che le correnti esercitano un potere immenso e le elezioni del CSM avvengono con campagne di tipo ideologico-politico. Non immaginavamo operazioni perfettamente orchestrate, alla luce del sole, attraverso gruppi di sodali che agiscono di concerto, avvalendosi di giornalisti amici, in alleanza organica con pezzi di sistema politico, per orientare l’azione penale, attaccare, screditare sino ad abbattere, esponenti politici e partiti sgraditi.
Il caso di Matteo Salvini è esemplare: un perfetto lavoro di squadra tra politica, correnti dell’ordine giudiziario e pezzi del CSM ha voluto, commissionato, l’indagine a carico dell’ex Ministro degli Interni per il caso delle navi di immigrati clandestini bloccate. Salvini ha ragione, ammettono nelle loro chat interne (il cui linguaggio imbarazza la dignità della funzione), ma deve essere attaccato. Qualcuno scrive che bisogna stare dalla parte dei “migranti”. Perché? Secondo Costituzione, il feticcio, il totem a cui si avvinghiano, come certi figuri al patriottismo di paccottiglia, il magistrato è soggetto esclusivamente alla legge. Non può discriminare, non può fare il tifo, scegliere un amico o un avversario. Deve applicare le norme scritte nei codici.
Non sappiamo se Salvini sia un pericoloso rapitore, ma sappiamo che ha diritto a un giudizio in cui le sue idee, quelle dei suoi accusatori e dei giudici, non contano. Importano i fatti, ovvero se ha commesso i reati ipotizzati, da solo o eventualmente con la complicità di altri, a partire del primo ministro. Quando la politica, l’ideologia, entrano dalla porta, la giustizia fugge precipitosamente dalla finestra. Non osiamo immaginare che cosa possa accadere (“possa”, non diciamo che sia così…) nelle ovattate stanze del processo civile, in cui sono in ballo interessi economici concreti, se il metodo è lo stesso.
Intanto, la nostra libertà, la nostra protezione dal crimine, sono affidati a signori e signore la cui preoccupazione principale è la carriera, il conseguimento di certe posizioni e l’occupazione di certe sedi, e per questo costituiscono “cordate”, gruppi d’influenza e potere interno collegati con la politica, ordiscono, se non complotti, reti di contatti, influenze e amicizie che rendono assai arduo l’esercizio sereno e imparziale della funzione giudiziaria. Del resto, che attendersi, in un paese marcio sino al midollo a ogni livello? I gilet arancioni vengono denunciati per leso distanziamento sociale, ma i manifestanti del 25 aprile no, mentre i detenuti che misero a ferro a fuoco le carceri la faranno franca. Stai lontano dalla giustizia…
Abbiamo abbandonato la speranza, il che, paradossalmente, assicura una certa serenità; scriveva Emil Cioran(4), il gran pessimista romeno, che “la giustizia è un’impossibilità materiale, un
grandioso nonsenso, l’unico ideale di cui si possa affermare con certezza che non si realizzerà mai, e contro il quale la natura e la società sembrano aver mobilitato tutte le loro leggi.”
Dunque, non c’è un giudice a Berlino(ndr), come sperava l’umile mugnaio tedesco in lotta con l’imperatore e il giusto non è altro che l’utile del più potente, come argomentava Trasimaco nella Repubblica di Platone? No, per fortuna un gran numero di persone manda avanti la baracca e svolge la sua funzione con diligenza. Non abbiamo bisogno di eroi neppure in toga – qualcuno c’è stato e c’è – ma di un sistema che riconosca ciò che tutti hanno studiato in gioventù, ad esempio il brocardo di Ulpiano, È finita l’epoca del brocardo di Ulpiano.giurista romano: giustizia è la volontà costante e perenne di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto. Siamo davvero lontani.
I tempi dei processi si dilatano, per la disperazione degli innocenti e il vantaggio dei farabutti e degli azzeccagarbugli. La volontà di colpire si fa legge con l’estensione dell’istituto della prescrizione.
Compito del diritto, è una tautologia – è fare giustizia. I tempi lunghi sono il contrario della giustizia. La presunzione di innocenza, grande conquista del pensiero giuridico, è rovesciata, offesa dall’uso spregiudicato di microspie e trojan, gli apparecchi che hanno inguaiato il magistrato Palamara e la sua “banda”. È il termine usato da una delle partecipanti alle cene eleganti dei togati per indicare il gruppo di amiconi riuniti – giudicanti, inquirenti, imprenditori vicini al partito Stato, il PD. Sconcertante è che, nonostante almeno un quarto di secolo di dibattiti, non si riesca almeno a dividere le carriere dell’ordine giudiziario. Lo strapotere della magistratura inquirente è evidente nelle figure più note dei membri del sindacato, dei componenti del CSM, delle vere e proprie star dei processi spettacolo.
Un esponente di spicco della categoria è Pier Camillo Davigo(5), etichettato come uomo di destra, mente giuridica del vecchio pool milanese di Mani Pulite, un autentico Robespierre per il quale non vi sono innocenti, ma solo soggetti sfuggiti alla condanna. Corre un brivido lungo la schiena all’idea di essere accusati da mentalità siffatte. Il pubblico accusatore è parte in causa. Il suo compito è assai simile a quello del poliziotto; dispone, a norma dell’art. 109 della Costituzione, “direttamente”, della polizia giudiziaria. Non può far parte della stessa categoria, essere collega del magistrato giudicante. Diverse attitudini, distinte sensibilità. Sono necessari percorsi culturali e persino indoli differenti. Secondo Platone il giudice dovrebbe essere persona di età matura, “uno che ha appreso tardi che cos’è l’ingiustizia, senza averla sentita come personale e insita nella sua anima; ma per averla studiata, come una qualità altrui, nelle anime altrui”.
Al contrario, i concorsi sono unici e nel corso della carriera la funzione inquirente e quella giudicante può essere scambiata fino a quattro volte. Non osiamo
immaginare il sistema dei concorsi. Sappiamo qualcosa dei concorsi per dirigenti in alcuni ministeri; non possiamo scrivere ciò che corre di bocca in bocca, ma ricorsi, blocchi, annullamenti e pesanti sospetti di pastette sono all’ordine del giorno, con gravi danni per l’operatività e pregiudizio dei candidati armati solo delle loro capacità. Vogliamo sperare che la magistratura, come la moglie di Cesare, sia al di sopra di ogni sospetto e maldicenza. L’Italia è quello che è, ma, come sapeva Otto von Bismarck(6), con cattive leggi e buoni funzionari si può pur sempre governare. Con cattivi funzionari, neanche le buone leggi servono a qualcosa. Diventa un comodo alibi sostenere che “bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”, ed è la sentenza di un grande legislatore illuminista, Cesare Beccaria(7).
D’altronde, individuare lo spirito della legge, nell’alluvione di testi, norme, interpretazioni e novelle, tipiche dell’universo giuridico italiano, è impresa titanica. Summum ius, summa iniuria, troppe leggi, massima ingiustizia; Cicerone lo scrisse venti secoli fa. Occorre, per Seneca, che le leggi siano brevi, in modo che anche l’inesperto possa comprenderla facilmente. No, meglio testi logorroici, pletore di “esperti”, di periti di sofismi, cavilli, virgole e interpretazioni; meglio districarsi tra sentenze, pareri e soprattutto cerchie di amici fidati della stessa corrente, gli stessi che garantiranno un trasferimento, una poltrona prestigiosa e una difesa efficace (giudici di se stessi…) dinanzi a eventuali errori o abusi.
Votammo per la responsabilità civile dei giudici, ma non se ne fece nulla. Vuolsi così dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. In compenso, l’ultimo impiegato d’ordine della Pubblica Amministrazione lotta ogni giorno – se lavora – con la responsabilità amministrativa, civile e penale. Ecco la differenza tra una categoria e una casta. Chiunque conosca addetti ai lavori apprende in privato di fatti e comportamenti da brividi nei corridoi giudiziari. Inquirenti e giudici non possono non avere le loro idee, ma l’indipendenza ha bisogno di gesti, di equilibrio, di una sobrietà e riservatezza che troppi non conoscono e che proprio la natura, i toni, il linguaggio spesso scurrile delle intercettazioni pubblicate negano.
Non cambierà nulla: non è pessimismo, ma conoscenza della storia. Qualche presa di posizione, anche ai massimi livelli, parole fintamente indignate, dita alzate nella riprovazione, e tutto prosegue come prima. Le tempeste arrivano e passano, anche le rivoluzioni falliscono. Lo scoprì quasi due secoli or sono Tocqueville, osservando come neppure i giacobini erano riusciti a mutare nel profondo l’alta amministrazione francese. Figuriamoci in Italia, il paese dove tutto cambia perché niente cambi e dove la maschera più nota è Arlecchino, il servitore di due padroni.
Di rinvio in rinvio, il sistema digerisce gli oppositori: I più vengono comprati o cooptati, alcuni vengono distrutti (colpirne uno per educarne cento, Mao Tze Tung). La maggioranza, come sempre, si accuccia al tavolo del principe. Quando si tratta di giustizia, la rabbia è più grande, ma non esiste via d’uscita. Quando un corpo della nazione è in preda alle metastasi, a nulla serve qualche finta riforma di facciata. Caro connazionale, se puoi, tieniti lontano dalla giustizia e prendi sul serio i libri per fanciulli, come Le avventure di Pinocchio. Quando il Giudice consegna il povero burattino ai gendarmi, ordina: “quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i guardiani, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.”
Note:
- (1) Thomas Hobbes (Westport, 5 aprile 1588 – Hardwick Hall, 4 dicembre 1679) è stato un filosofo e matematico britannico, sostenitore del giusnaturalismo e autore nel 1651 dell’opera di filosofia politica Leviatano. Oltre che di teoria politica si interessò e scrisse anche di storia, geometria, etica ed economia. La descrizione di Hobbes della natura umana come sostanzialmente competitiva ed egoista, esemplificata dalle frasi Bellum omnium contra omnes (“la guerra di tutti contro tutti” nello stato di natura) e Homo homini lupus (“ogni uomo è lupo per l’altro uomo”), ha trovato riscontro nel campo dell’antropologia politica.
- (2) La legge di Murphy è un insieme di paradossi pseudo-scientifici a carattere ironico e caricaturale. Si possono idealmente riassumere nel primo assioma, che è in realtà la “Legge di Murphy” vera e propria, che ha dato il titolo a tutto il pensiero “murphologico”: «Se qualcosa può andar male, lo farà.» L’autore e stilatore della “summa” sulla “murphologia” è Arthur Bloch nato il 1º gennaio 1948 umorista e scrittore statunitense, autore di libri riguardanti la nota legge di Murphy. Si tratta di un compendio di frasi umoristiche il cui intento è essenzialmente quello di deridere ogni negatività che il quotidiano propone. Il meccanismo è ogni volta lo stesso: immagini e scenette frustranti, nelle quali è facile per molti ritrovarsi, vengono descritte da Bloch con frasi didascaliche, confezionate spesso e volentieri in forma statistico-matematica, così da liberare il vissuto dal contingente, dal personale e donargli un adito di “validità universale”, nei fatti tuttavia inesistente.
- (3) Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 – Cavour, 17 luglio 1928) è stato un politico italiano, più volte presidente del Consiglio dei ministri. Il periodo storico durante il quale esercitò la sua guida politica sull’Italia è oggi definito “età giolittiana”. Sebbene la sua azione di governo sia stata oggetto di critica da parte di alcuni suoi contemporanei, come per esempio Gaetano Salvemini, Giolitti fu uno dei politici liberali più efficacemente impegnati nell’estensione della base democratica del giovane Stato unitario, e nella modernizzazione economica, industriale e politico-culturale della società italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento. Dopo un iniziale voto di fiducia, nel 1922, al nuovo governo fascista, dal 1924 si tenne all’opposizione di Benito Mussolini.
- (4) Emil M. Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno, tra i più influenti del XX secolo. Nato in Romania, dal 1933 al 1935 visse a Berlino, e dalla seconda guerra mondiale in avanti risiedette in Francia con lo status di apolide; scrisse i primi libri in lingua romena, ma dalla fine del conflitto scrisse sempre in francese e, nonostante questo non fosse il suo idioma di nascita, viene considerato da molti critici come uno dei migliori prosatori in questa lingua. Vicino al pensiero esistenzialista, si distacca comunque dal movimento esistenzialista francese per la sua distanza ideologica dai principali esponenti quali Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Albert Camus, rifiutando l’impegno politico attivo sul fronte progressista e condividendo la filosofia dell’assurdo del suo amico Eugène Ionesco, benché venata dal suo pessimismo radicale. Il pensiero di Cioran è infatti influenzato da Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger(rispetto al tecnicismo di quest’ultimo maturerà peraltro un’estrema reazione) e successivamente anche da Leopardi (benché, per sua stessa ammissione, mai profondamente conosciuto, ma avvertito quale “fratello d’elezione”), dai quali trae il suo nichilismo e il suo pessimismo. I suoi aforismi, anche per esperienze personali, sono infatti pervasi da una profonda amarezza e misantropia, che però vengono temperate dalla sua acuta ironia e dalla sua capacità di scrittura.
- (5) Piercamillo Davigo (Candia Lomellina, 20 ottobre 1950) è un magistrato italiano, Presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di cassazione e membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Genova è entrato in Magistratura nel 1978. Ha iniziato la sua carriera come giudice presso il Tribunale di Vigevano; poi dal 1981 è divenuto Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dove si è occupato prevalentemente di reati finanziari, societari e contro la pubblica amministrazione. In questo contesto ha fatto parte, nei primi anni Novanta, del pool Mani pulite, insieme ai colleghi Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Tiziana Parenti e Armando Spataro. È stato eletto nel parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), in quota alla corrente “Magistratura indipendente”. Successivamente è divenuto Consigliere della Corte d’Appello di Milano. Ricopre il ruolo di Consigliere alla Corte suprema di cassazione, II Sezione Penale, dal 28 giugno 2005. Ha scritto vari libri, di taglio prevalentemente scientifico-giuridico. Fra i testi di divulgazione, si ricordano in particolare La Giubba del Re – Intervista sulla corruzione, scritto in collaborazione con Davide Pinardi, La corruzione in Italia – Percezione sociale e controllo penale, scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi e Processo all’italiana con Leo Sisti. Nel 2012 è stato insignito del Premio Giovenale. Nel febbraio 2015 insieme ad un gruppo di magistrati esce da Magistratura Indipendente e fonda l’associazione Autonomia e Indipendenza che lo elegge presidente. Il 9 aprile 2016 viene eletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati, per la durata di un anno, fino al 1º aprile 2017. Il 30 maggio 2016 è stato nominato presidente di sezione presso la Corte suprema di cassazione con 18 voti favorevoli dal plenum del Consiglio superiore della magistratura (CSM). Nel luglio 2017 lascia la giunta di ANM in polemica sulle modalità di scelta degli incarichi direttivi dei magistrati. Nel luglio 2018 viene eletto membro del CSM per la componente dei magistrati con funzioni di legittimità, con 2522 voti su 9102 aventi diritto.
- (6) Otto Eduard Leopold von Bismarck (Schönhausen, 1º aprile 1815 – Friedrichsruh, 30 luglio 1898) è stato un politico tedesco, soprannominato il Cancelliere di Ferro (in tedesco Eiserne Kanzler). Nel 1865 fu insignito del titolo di conte di Bismarck-Schönhausen, il 21 marzo 1871 di principe di Bismarck e nel 1890 di duca di Lauenburg. Fu Primo ministro del Regno di Prussia dal 1862 al 1890. Nel 1867 divenne il capo del governo della Confederazione Tedesca del Nord. Nel 1871 fu l’artefice della nascita dell’Impero tedesco, divenendone il primo Cancelliere. Benché promotore di riforme in campo assistenziale, fu avversario dei socialisti. In politica estera, dopo il 1878 creò un sistema di alleanze che, determinando un equilibrio di forze in Europa, riuscì a isolare la Francia e a contenere le dispute fra Austria e Russia, e fra Austria e Italia. Bismarck portò inoltre la Germania a rivaleggiare con la Gran Bretagna in campo economico e a divenire la prima potenza militare del continente.
- (7) Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano, 15 marzo 1738 – Milano, 28 novembre 1794), è stato un giurista, filosofo, economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti dell’illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene, in cui viene condotta un’analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale. «Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene)
Fonte
(ndr1)
Il caso Enzo Tortora
Il suo nome è anche ricordato per un clamoroso caso d malagiustizia di cui fu vittima e che fu poi denominato “caso Tortora”. Tortora fu accusato, su richiesta dei procuratori Francesco Cedrangolo e Diego Marmo, dal giudice istruttore, il magistrato Giorgio Fontana, di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; il 17 giugno 1983 fu per questo arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Dopo sette mesi di reclusione, nel gennaio del 1984, fu liberato, ma il 17 settembre 1985 i due pubblici ministeri del processo, Lucio Di Pietro e Felice di Persia, lo fecero condannare a dieci anni di carcere. La sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta il 15 settembre 1986, quando venne infine definitivamente assolto dalla Corte d’Appello di Napoli. Durante questo periodo, Tortora fu eletto europarlamentare per il Partito Radicale, di cui divenne anche presidente.
Tortora morì nel 1988, un anno dopo la sua definitiva assoluzione.
(ndr2)
La lotta del mugnaio Arnold contro la giustizia corrotta
La storia è narrata nel libro Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande scritto da Enrico Broglio nel 1880, politico italiano che fu prima Ministro dell’Istruzione e poi dell’Agricoltura e dell’Industria. Nel volume Broglio racconta la storia del mugnaio Arnold di Sans-Souci e della sua lotta per ottenere giustizia contro i soprusi di un nobile, ed è qui che troviamo la frase «ci sono de’ giudici a Berlino». La vicenda è il resoconto di una storia successa realmente durante il regno di Federico. Il mulino dove lavorava Arnold era stato affittato alla sua famiglia da generazioni ed era di proprietà del Conte di Schietta. Un giorno del 1770 il Barone Von Gersdorf volle costruirsi una peschiera e deviò gran parte dell’acqua che alimentava il mulino. A causa di questo, il mugnaio non riuscì più a macinare il grano e a pagare l’affitto per il mulino. Disperato si rivolse ai giudici ma essi erano stati corrotti e diedero sempre ragione al barone. Arnold decise di rivolgersi al giudice supremo, il sovrano Federico il Grande, andando fino a Berlino. Esaminando il caso, Federico diede ragione al mugnaio e incarcerò i giudici corrotti.
Ancora oggi la frase è usata per indicare una giustizia imparziale
Come riporta Broglio, la vicenda «fece gran chiasso in tutta Europa […] destando sentimenti e giudizi discrepanti; di viva ammirazione nei più, di severa condanna in pochi». Da questa vicenda si diffuse la famosa frase «ci sarà pure un giudice a Berlino» oppure «esiste un giudice a Berlino!». Da quel momento l’espressione è usata per esprimere la speranza in una giustizia imparziale su cui può contare anche l’uomo comune. Nonostante ci siano dei dubbi rispetto all’uso della frase da parte di Brecht in uno dei suoi racconti, sicuramente il drammaturgo avrebbe potuto usarla benissimo in una delle sue opere. Ma il dubbio sull’origine della frase rimane. Il drammaturgo Peter Hacks nel 1958 aveva scritto un dramma ispirato dalla vicenda del mugnaio Arnold, Der Müller von Sanssouci. Anche Hacks aveva dichiarato che era stato ispirato da Brecht, ma, come riporta Eco, «senza precisare in quale modo».
Libri Citati
- La legge di Murphy
- Arthur Bloch
- Traduttore: Luigi Spagnol
- Illustratore: Eleanore Fahey
- Editore: Longanesi
- Collana: La piccola Gaja scienza
- Edizione: 37
- Anno edizione: 2010
- In commercio dal: 4 marzo 1988
- Pagine: 120 p., ill. Brossura
- EAN: 9788830408036 Acquista. € 11,40
Descrizione
Nel 1949, l’ingegnere aeronautico dell’aviazione americana capitano Ed Murphy, osservando l’andamento dei propri esperimenti, ebbe a dire: “Se qualcosa può andar male, lo farà”. Prova della “verità” di questa affermazione è il fatto che Ed Murphy, nel giro di pochi anni, è diventato famosissimo in tutto il mondo: non per le sue scoperte in aeronautica, del resto inesistenti, ma per quella frase, che immediatamente si diffuse sotto il nome di “Legge di Murphy”. Oggi la Legge di Murphy in America è talmente famosa da comparire nei dizionari, come: “Il principio per cui qualsiasi cosa possa andare male lo farà” (Funk and Wagnalls, Standard College Dictionary). Laboratori, uffici, circoli di golf, redazioni, banche, palestre, università, biblioteche, studi di dentisti, di avvocati, di fiscalisti, di ingegneri, di architetti, persino ospedali, sale operatorie, cessi sono immancabilmente tappezzati di manifesti, calendari o adesivi che ricordano la Legge di Murphy e le sue applicazioni. L’insieme delle Leggi e Osservazioni di cui la Legge di Murphy è da considerarsi capostipite è stato raccolto da Arthur Bloch nel 1977 nel presente