2041. Il nucleo della Terra sta per fermarsi, e spetta agli scienziati salvare il genere umano. Il primo thriller – moderatamente fantascientifico – costruito magnificamente e scientificamente impeccabile

«Una trama forte… una catastrofe talmente verosimile da risultare agghiacciante» – The Financial Times

 

Un grande affabulatore della saggistica, che ora ha deciso di cimentarsi con la narrativa. Così adesso ci propone un romanzo, un romanzo vero, un thriller seducente in piena regola, che non si può mettere giù, che ti trascina dentro le sue pagine, fitte di plot, scienza e fantasia. Abbandonati i panni del fisico – proprio nell’anno della sua elezione a Fellow della Royal Society (FRS, e quando puoi fregiarti di questa sigla tutte le altre diventano inutili) – ha vestito quelli del narratore.  La stesura di questo romanzo (ha confessato) gli è costata più fatica di un impegnativo lavoro teorico da sottoporre a peer review, cioè a quella “revisione fra pari” che è imperativo superare per poter pubblicare in una quotata rivista scientifica internazionale. La grande e deliziosa sorpresa è ritrovare il nome di Fabiola Gianotti – direttrice generale del CERN di Ginevra, colei che comunicò in mondovisione la scoperta del bosone di Higgs –, tra le pagine di un romanzo inglese, constatare così che Fabiola Gianotti fa già parte dell’immaginario, è diventata un’icona internazionale.

Il risultato è Sunfall, un thriller moderatamente fantascientifico, costruito magnificamente e scientificamente impeccabile. Nel mondo dei prossimi anni ’40, nel quale l’umanità ha superato (ma con gravi perdite) la crisi climatica e dove l’intelligenza artificiale regna sovrana, il campo magnetico terrestre si affievolisce, esponendo il pianeta alle emissioni mortali provenienti dal Sole. Questo è lo sfondo su cui gioca Al-Khalili; la trama e la tessitura le lascio a chi lo leggerà, tanto costa poca fatica, una volta iniziato.

 

La trama del romanzo.

 

  1. Pericolo dal Sole: entro poche ore, emissioni straordinarie di massa coronale colpiranno la Terra, già a rischio per l’indebolimento del campo magnetico che protegge il pianeta. In Nuova Zelanda un’aurora australe, che dovrebbe essere rivolta a sud, appare invece a nord. Un aereo in atterraggio a Nuova Delhi si schianta al suolo per il danneggiamento dei satelliti di comunicazione dovuto a una raffica di particelle ad alta energia provenienti dallo spazio. Su un’isola delle Bahamas si scatena un uragano di violenza inaudita. La Terra è fuori controllo e le autorità mondiali stanno nascondendo la verità sulla catastrofe imminente per non seminare il panico. Toccherà a quattro scienziati, due uomini e due donne, far ricorso a tutto il proprio sapere, al proprio coraggio e alla propria inventiva per salvare il pianeta. Ma c’è chi è convinto che l’estinzione dell’umanità sia l’unica soluzione possibile… Dal notissimo fisico quantistico Jim Al-Khalili, un romanzo scientificamente plausibile che ci proietta nel futuro, un thriller dal ritmo serrato che svela chi saremo e come vivremo tra non molti anni e, soprattutto, ci ricorda che in un mondo di raffinate tecnologie – a partire dai droni e dalle intelligenze artificiali, così simili a quelle che già conosciamo – la variabile umana e la conoscenza rimangono le nostre principali alleate. Con grande accuratezza scientifica, Jim Al-Khalili conduce il lettore in un futuro agghiacciante e ma allo stesso tempo più vicino a noi di quello che possiamo pensare
  2. Il nucleo della Terra sta per fermarsi, e spetta agli scienziati salvare il genere umano.

 

Come inizia.  

 

Prologo

40000 a.C.

Valle di Neander, a est dell’attuale Düsseldorf

  

   Scrutava da giorni la furia della tempesta, affamato come non ricordava di essere mai stato. Il fuoco che aveva acceso dopo aver recuperato le forze sufficienti per raccogliere la legna scaldava ancora la caverna calcarea, ma le fiamme erano più deboli, la scorta di legna esaurita. La sua abilità con il fuoco era sempre stata motivo di grande orgoglio, tanto per lui quanto per la sua compagna. Adesso la sua caverna, il suo rifugio, era anche la sua prigione.

   Sapeva, con profonda e intuitiva certezza, di essere l’ultimo del suo gruppo. La cosa lo rattristava. E lo incolleriva. Si avvicinò all’ingresso della caverna, le pellicce avvolte strettamente intorno alle spalle, e con rabbia sprezzante urlò contro il mondo fuori, quasi che potesse sovrastare l’ululato del vento.

   Durante la notte dell’ultima luna piena la sua compagna si era arrabbiata per il fatto che fosse troppo malato per uscire in cerca di cibo insieme agli altri cacciatori, e allora ci era andata lei. Non aveva più fatto ritorno. Riprese le forze, si era messo sulle sue tracce. Non l’aveva trovata. Si era però imbattuto nei corpi di diversi altri della tribù, non solo i cacciatori ma anche le loro compagne e qualcuno dei giovani, tutti semisepolti nella neve dove la gola si apriva sull’ampia valle del fiume. Si era chiesto che cosa fosse accaduto loro. Molti della sua gente erano già morti, chi di fame, chi di freddo, nel corso del rigido inverno passato, e il loro numero già esiguo era andato assottigliandosi costantemente con il succedersi di inverni sempre più aspri e lo scatenarsi di violente tempeste che sconquassavano tutta la regione. Avevano fatto fatica a adattarsi ai cambiamenti, alla scomparsa di piante e animali familiari, alla progressiva riduzione delle scorte di cibo.

   Nessuno dei corpi che aveva rinvenuto mostrava segni evidenti di ferite dovute all’attacco di gruppi rivali o di bestie feroci. Aveva attribuito all’assideramento il rossore della pelle e la presenza di vesciche, eppure non riusciva a capire come mai fossero rimasti fuori talmente a lungo da morire di freddo essendo così vicini al riparo delle caverne.

   Sopraffatto dal dolore, si era trascinato fino alla propria caverna. Avrebbe voluto dar loro una degna sepoltura, ma sapeva che per farlo avrebbe dovuto aspettare di recuperare le forze. La priorità immediata era trovare di che nutrirsi e per un colpo di fortuna si era imbattuto in un esile giovane cervo che giaceva morto ai piedi di un albero. Affamato ed esausto com’era, non si era fermato a riflettere se la morte dell’animale potesse essere legata in qualche modo a quella della sua gente.

   Aveva trasportato la carcassa nella caverna a picco sul fondovalle e lì l’aveva cotta sul fuoco mangiandone a sazietà. Adesso, a distanza di quattro giorni, con la carcassa spolpata fino alle ossa, ne stava usando il teschio svuotato per cucinare le poche erbe e radici che era riuscito a trovare prima che si scatenasse la tempesta. Ma aveva di nuovo fame.

   Due settimane più tardi, con la tempesta che non accennava a placarsi, morì anche lui, ma di fame e non per le letali radiazioni emesse dalla potente espulsione di massa coronale che aveva ucciso il resto della sua tribù e dalla quale la caverna gli aveva assicurato una crudele protezione, prolungando invano la sua vita.

   Morì ignaro di quanto sarebbe diventato speciale. Molti millenni più tardi, quando ne verranno trovati i resti, nessuno potrà sapere che egli era stato in realtà l’ultimo del suo gruppo a sopravvivere nell’Eurasia settentrionale. Eppure, per un raro capriccio del destino, sarà anche il primo della sua gente a essere identificato dagli studiosi di Homo sapiens che ne analizzeranno le ossa. Lo avrebbero chiamato Feldhofer 1 o Neanderthal 1, e in molti si sarebbero arrovellati sulle cause della scomparsa così repentina di tanti membri della sua specie.

 

Parte prima

Magnetosfera

 

1. Sabato, 22 ottobre 2039

Dintorni di Fairbanks, Alaska

 

   Brad Grochowiak pregustava di trascorrere qualche giorno di ferie insieme a Laura e ai ragazzi. Prima, però, pregustava la fine di quel viaggio, non vedeva l’ora di scaricare la merce e buttarsi su un letto dell’Holiday Inn Express. A essere onesti, i soliti cinquecento e passa chilometri da Anchorage a Fairbanks non erano troppo faticosi, nemmeno alla fine di ottobre, a patto che il cielo si mantenesse sereno.

   Era stata una notte tranquilla e gli restava un’ora scarsa di strada. Dietro di lui, con i paraurti che quasi si toccavano, viaggiavano altri sei enormi autotreni, identici al suo tranne che per l’assenza di esseri umani a bordo. Erano infatti tutti collegati mediante i rispettivi sistemi di guida autonoma. Brad non aveva dovuto muovere un dito per l’intero tragitto, ma per sicurezza la ditta di trasporti preferiva avere una persona in carne e ossa nel veicolo di testa, pronta a prendere i controlli manuali in caso di necessità. In fondo non si poteva escludere, specie in quel periodo dell’anno, che all’improvviso si scatenasse una bufera. Era uno scrupolo superfluo – in condizioni di maltempo e visibilità ridotta, l’intelligenza artificiale dell’autotreno vedeva senz’altro molto meglio di quanto avrebbe mai potuto vedere lui – ma Brad non se ne lamentava. Almeno aveva un impiego. Lavorava per loro da dodici anni e non gli era capitato di dover intervenire nemmeno una volta.

   Stiracchiò le braccia e si sgranchì la schiena, poi, sfregando con vigore i capelli portati a spazzola, si chinò a toccare il parabrezza. Il film che stava guardando senza particolare attenzione svanì e il vetro riacquistò la naturale trasparenza, consentendogli di osservare il paesaggio circostante. Era già tarda mattina ma il cielo accennava solo adesso a voler cambiare colore, annunciando l’inizio di un nuovo giorno. Con il primo chiarore, il nero del paesaggio innevato ai lati della strada prese una tonalità blu scuro in spettacolare contrasto con la pennellata rosso fuoco che in lontananza, verso occidente, si stava stendendo sulle cime della catena montuosa. Brad conosceva da sempre quel fenomeno ottico, eppure ogni volta si sentiva mancare il respiro. Era il suo momento preferito della giornata, appena prima che il sole riversasse i propri raggi al di là dell’orizzonte.

   Solo quando il sole fu comparso nel cielo, inondando il mondo della sua luce invernale, un piccolo dettaglio colorato catturò l’attenzione di Brad. Sullo sfondo dell’accecante biancore della neve spiccava una macchiolina arancione e nera. Lì per lì immaginò che fosse un altro veicolo più avanti lungo la strada, o magari uno sgargiante edificio lontano, ma ben presto si rese conto che si trattava di uno sbaffo sul parabrezza, molto probabilmente un insetto che, in virtù della spietata legge di conservazione della quantità di moto, aveva avuto la peggio nella collisione con un corpo dalla massa cento milioni di volte superiore alla sua.

   Normalmente, Brad non sarebbe stato colpito più di tanto dal tragico destino di un unico insetto, ma dopo un momento si accorse che l’intero parabrezza era costellato dai resti di altre creature suicide. Si stupì di riuscire a riconoscerle: erano farfalle monarca. La primavera passata, per aiutare la figlia su un compito di scuola, aveva catturato diverse farfalle nel giardino di casa. Con la sagacia innocente che solo una bambina di nove anni può possedere, Grace lo aveva informato che si chiamavano farfalle tigre coda-di-rondine, nonostante per colorazione – gli aveva spiegato con la faccia seria – somigliassero moltissimo alle più famose cugine monarca. Queste ultime non si avventuravano mai così a nord, e in ogni caso le due specie si differenziavano per la forma delle ali. Chinandosi a esaminare più da vicino una delle macchie che decoravano il parabrezza, Brad concluse che quelle erano quasi certamente monarca. Ma Grace era una bambina intelligente e studiosa, e se diceva che in Alaska le monarca non ci sono, potevi metterci la mano sul fuoco. Inoltre, le farfalle sono esserini deliziosi che si vedono svolazzare in estate, non alla fine di ottobre e non così a nord, dove le temperature erano già scese abbondantemente sotto lo zero.

   Non avendo molto altro con cui occupare il suo tempo, Brad decise di approfondire la questione. Il computer di bordo dell’autotreno era rudimentale ma sufficiente per i suoi scopi. Brad non sentiva il bisogno dei più recenti display olografici o di quelli surround per la realtà virtuale: gli bastava essere online. Ed era rassicurante sapere che a chilometri di distanza sopra la sua testa, nella stratosfera, per quanto potesse sentirsi isolato in quel paesaggio brullo, c’erano sempre decine di droni internet a energia solare in grado di connetterlo istantaneamente al resto del mondo.

   Si schiarì la gola, poi parlò a voce abbastanza alta da farsi sentire sopra il ronzio del motore elettrico.

   «Computer, mostrami l’immagine di una farfalla monarca».

   Non aveva quasi finito di parlare che già su un lato del parabrezza era comparsa una serie di variopinte immagini.

   Ecco una selezione di immagini di monarca.

   Eh sì, aveva ragione. Gli insetti spiaccicati sul parabrezza erano davvero farfalle monarca. Grace sarebbe stata orgogliosa di lui.

   «Parlami delle migrazioni delle monarca».

   Ci fu una breve pausa prima che il computer rispondesse. Brad sapeva che quel ritardo era voluto. Alle persone non piaceva che le macchine con cui comunicavano rispondessero all’istante, pur essendone ovviamente capaci. Sembrava quasi che conoscessero in anticipo la domanda che stavi per fargli. Per questo, in tutti i chatbot e gli assistenti virtuali era incorporato fino a un secondo di ritardo, affinché le loro interazioni apparissero più umane.

   Quello delle monarca rappresenta uno dei grandi viaggi migratori della natura. A milioni fuggono dai rigidi inverni del Canada sudorientale per raggiungere il Messico lungo la rotta sud-ovest. Altre invece, a ovest delle Rocky Mountains canadesi, migrano in direzione sud verso la California. Le farfalle monarca appartengono alle svariate specie animali, tra cui diverse creature marine e uccelli migratori, capaci di orientarsi grazie a una bussola biologica interna che sfrutta le linee di forza del campo magnetico terrestre.

   «Quand’è che si possono vedere le monarca in Alaska?»

   In Alaska le monarca non ci sono. È troppo a nord per loro.

   Brad visualizzò mentalmente la cartina dell’America Settentrionale. Quale che fosse stata la provenienza di quegli insetti, non si stavano certo dirigendo verso climi più miti. Dovevano per forza essersi smarriti. Era possibile che il capo squadriglia avesse un senso dell’orientamento così scadente da averle guidate a nord anziché a sud? E se sì, come cavolo aveva fatto a ottenere un lavoro così importante? Rise della propria battuta. No. Senza dubbio obbedivano a un collettivo istinto di sciame. Ma, al di là di come accidenti funzionavano, forse le loro bussole interne avevano avuto un malfunzionamento. Chissà se era possibile. L’avrebbe chiesto a Grace una volta tornato a casa. Sarebbe stato un bel tema per un progetto di scienze. Pensò di mandarle le immagini in realtà aumentata che aveva registrato sul display retinale ma non c’era fretta. E comunque sarebbe stato più divertente parlarne con Grace faccia a faccia anziché inviarle un video in AR di ciò che stava vedendo sul parabrezza.

   Non gli passò nemmeno per la mente che il malfunzionamento potesse non riguardare affatto le farfalle. Distrattamente, azionò il tergicristalli e ripulì il vetro dalla variopinta carneficina.

 

2. Lunedì, 28 gennaio 2041

Rio de Janeiro

 

   Sarah Maitlin fissò il suo schermo e cercò di schiarirsi le idee, col terzo cafezinho del pomeriggio ormai freddo e abbandonato sulla scrivania. Aveva sempre trovato il caffè più efficace dei farmaci nel combattere le fastidiose emicranie cui andava soggetta. Passandosi entrambe le mani tra i capelli, li raccolse in una crocchia sopra la testa. Il freddo dell’aria condizionata sulla nuca scoperta le diede un brivido, nonostante il laboratorio fosse un ambiente a temperatura controllata. Prese la felpa rimasta appesa per tutto il giorno allo schienale della poltrona, la indossò sulla maglietta ed ebbe l’improvvisa visione della madre che la rimproverava per la sua sciatteria nel vestire. «Perché vai ancora in giro con quello straccio?» le avrebbe detto senz’altro. «Sei una donna molto attraente, se solo ci mettessi un minimo di impegno». Sarah fece un sorriso sardonico. Sua madre, in Inghilterra, aveva una voglia matta di nipotini e teneva l’occhio vigile tanto sul suo orologio biologico – ancor più adesso che Sarah si avvicinava ai quaranta – quanto sulle sue molteplici relazioni fallite.

   Tornò a concentrarsi sullo schermo olografico che aveva davanti. Normalmente, simili immagini non le avrebbero suscitato più di un interesse accademico, ma questa era diversa. Nel suo ruolo di fisico presso l’Istituto di Scienze Solari di Rio de Janeiro, Sarah aveva il compito di monitorare costantemente l’attività del sole. L’istituto era stato fondato vent’anni prima con l’obiettivo di svolgere normali ricerche di astrofisica, ma da un paio d’anni a quella parte la sua principale funzione era di segnalare tempestivamente eventuali attività solari anomale tali da destare preoccupazione – com’era il caso in esame.

   Il centro dell’ologramma che le occupava il campo visivo era dominato da un video del sole in 3D e ad alta risoluzione, trasmesso in tempo reale da un gruppo di satelliti orbitanti intorno a esso: un’immagine particolareggiata che era al tempo stesso magnifica e spaventosa, così realistica che Sarah riusciva quasi a percepire il calore sul viso. Fissando la proiezione tridimensionale in lenta rotazione, appuntò lo sguardo su una precisa regione della ribollente e infuocata superficie solare. Ciò che stava guardando destava più di una piccola preoccupazione.

   Un paio di ore prima, Sarah aveva sperato di essere al termine della giornata di lavoro, adesso invece aveva la certezza che sarebbe rimasta incollata alla scrivania ancora a lungo. I suoi gatti dovevano essere affamati. Si prese l’appunto mentale di chiamare la vicina di casa entro pochi minuti perché andasse a dar loro da mangiare.

   Si rese conto che anche lei era a digiuno dalla colazione del mattino. Quei ritmi di lavoro non le facevano bene; saltava la palestra ormai da due settimane e la sua vita sociale era un disastro. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che era uscita a cena o a bere qualcosa.

   Una vacanza decente, di questo aveva bisogno, non appena quest’ultima crisi fosse stata risolta. Magari un paio di giorni a Copacabana. Anche se, con il recente aumento del numero e delle dimensioni dei buchi nell’ozono, i tratti di spiaggia schermati dai raggi UV sarebbero stati affollatissimi. Ultimamente, nemmeno i più fedeli adoratori del sole si azzardavano a starsene sdraiati a lungo all’aperto senza le dovute protezioni. In molte parti del mondo la situazione si stava talmente aggravando che addirittura c’era chi rinunciava a uscire di casa, persino la sera, pur di non rischiare di esporsi senza motivo alle sempre più intense radiazioni cosmiche. In molti si erano fatti impiantare sotto pelle dei microsensori capaci di monitorare la presenza di particelle ad alta energia e di avvertire l’utente nel caso avessero raggiunto valori critici.

   Ma parlando di radiazioni pericolose provenienti dallo spazio, nulla poteva competere con una ben indirizzata espulsione di massa coronale. Fino a pochi anni prima, questi enormi schizzi di plasma rovente sputati dal sole avevano rivestito interesse solo per i fisici solari. Le tornò in mente quando aveva cercato di spiegare al padre come mai trovasse così affascinante l’argomento.

   «Che c’è da preoccuparsi?» aveva ribattuto lui. «In fondo la Terra è sopravvissuta benissimo per miliardi di anni senza che il sole ci arrostisse». Ben Maitlin non aveva mai fatto mistero del proprio desiderio di vedere la figlia seguire le sue orme e dedicarsi al giornalismo politico. «È così che si cambia il mondo» le aveva detto una volta, «più efficacemente di quanto possa fare qualsiasi uomo politico». Sarah invece aveva scelto la carriera di scienziata, nella quale aveva a che fare con concetti che spesso il padre faticava a comprendere. Eppure Sarah lo sapeva immensamente orgoglioso di lei, pretendeva che gli spedisse una copia di tutti gli articoli scientifici che lei pubblicava. La madre le aveva confidato che spesso, durante le cene tra amici, quando gli chiedevano come stava sua figlia, tirava fuori la pubblicazione più recente e la leggeva dall’inizio alla fine in tono solenne, pur non avendo la minima idea di cosa volesse dire.

   Ben Maitlin era un uomo intelligente che faceva di tutto per tenersi aggiornato sui progressi della scienza. Sarah invece trovava esasperante che molti altri giornalisti, scribacchini totalmente digiuni di certi argomenti, adesso si spacciassero per grandi esperti di espulsioni di massa coronale. D’altro canto, il loro interesse era comprensibile, visto che le CME stavano cominciando a rappresentare una minaccia concreta, e quantomeno se ne parlava sui mass media. In questo modo, forse, i politici avrebbero preso dei provvedimenti.

   Nel corso degli ultimi due anni, il suo lavoro di aveva acquistato un’urgenza del tutto assente nella tranquilla, speculativa attività di ricercatrice che Sarah aveva potuto svolgere fin dai tempi del dottorato. La più recente misurazione dell’intensità e della distribuzione del campo magnetico terrestre aveva fornito un risultato allarmante. Il campo magnetico si era ridotto a circa la metà dell’intensità che possedeva quando lei era nata e le conseguenze del fenomeno le erano fin troppo chiare.

   Naturalmente, per non diffondere il panico nella popolazione, i governi di tutto il mondo si erano limitati a parlare di rischi minimi, rendendo ancora più delicata la posizione di molti scienziati, che pur consapevoli di ciò che stava per accadere, vedevano i politici fare orecchie da mercante ai loro appelli, proprio come era accaduto una generazione prima per i cambiamenti climatici. Il fatto che tuttoramancasse una coordinata risposta internazionale alla crisi imminente era segno di assoluta miopia. Eppure il quadro scientifico non poteva essere più chiaro: il campo magnetico terrestre, che per miliardi di anni aveva protetto la fragile biosfera del pianeta dalle pericolose radiazioni provenienti dallo spazio, non era più all’altezza del compito. E ciò significava che l’umanità aveva seri problemi da affrontare.

   Sarah esaminò le immagini e i flussi di dati, fantasmi sospesi nell’aria di fronte a lei. Come un direttore d’orchestra, elaborò i dati salvando le informazioni in una cartella virtuale. L’espulsione coronale avrebbe investito la Terra in meno di quarantotto ore e non sarebbe stato piacevole.

   «Ehi, Miguel, vieni a dare un’occhiata».

   Sostituito l’ologramma del sole con uno della Terra, Sarah evidenziò i dati sulla CME che aveva appena collazionato: l’energia, l’estensione e soprattutto il TAS, il tempo di arrivo dello shock.

   Miguel li osservò da dietro la sua spalla. «Accidenti, farà fuori parecchie reti elettriche. Dove colpirà?»

   «Soprattutto l’oceano Indiano, a quanto sembra. Ma quasi certamente anche l’Asia centrale e sudorientale».

   «Saremmo fortunati se arrivasse qualche ora prima. Così la maggior parte del flusso si scaricherebbe…»

   «…sul Pacifico meridionale, certo. Ma è solo un pio desiderio. E non sarebbe nemmeno chissà quale sollievo. Un buon numero di satelliti per telecomunicazioni verrebbe comunque messo KO».

   Sarah chiuse gli occhi e se li stropicciò con pollice e indice. Decise di ripetere la simulazione. Non era necessario mettere in allarme le autorità di quei paesi senza il sostegno di una certezza assoluta. Se i suoi calcoli erano sbagliati e la CME avesse mancato del tutto la Terra, l’avrebbero accusata di aver gridato al lupo.

   «Mi faresti un favore veloce, Miguel? Controllami la traiettoria di tutti i satelliti a media e bassa orbita oltre un raggio di cinquemila chilometri centrato sul… uhm…» Fissò il globo terrestre in lenta rotazione. «Centrato sul Nepal, direi».

   «Per poi incrociarle con il TAS, giusto?»

   Sarah sapeva che la grande incognita era proprio il tempo di arrivo. Nessuno poteva prevedere con accuratezza l’andamento della velocità di una CME in avvicinamento, né l’estensione dell’impulso. «Sì, e considera la solita finestra temporale di otto-dieci ore».

   Sentendosi tutta anchilosata, allungò le gambe e inarcò la schiena, si sollevò dalla poltrona, distese i muscoli rattrappiti. Anche stasera avrebbe fatto tardi. Mentre si sgranchiva, si rese conto di non aver sentito Miguel tornare alla propria scrivania. Anzi, il giovane collega era ancora in piedi dietro di lei. Sarah fece ruotare la poltrona più bruscamente di quanto avesse voluto.

   «Che c’è?»

   Miguel sfoderò un gran sorriso e tornò ciondolando nel suo angolo di laboratorio. Dopo essersi seduto, si calò il visore sugli occhi e cominciò a mormorare un motivo indistinto mentre le sue dita danzavano sullo schermo virtuale sospeso di fronte a lui, per raccogliere ed elaborare i dati relativi alle migliaia di satelliti registrati. Una volta esclusi quelli che sicuramente non avrebbero intercettato la traiettoria del flusso di elettroni, protoni e nuclei atomici ad alta energia, avrebbe inserito il resto delle informazioni nei programmi di simulazione.

   Malgrado quell’irritante mormorio, Sarah provava un senso di ammirazione per il brillante giovane brasiliano. Era acuto e appassionato nel lavoro. Si chiese se quell’esteriore spensieratezza fosse sincera o se Miguel stesse solo cercando di camuffare la propria inquietudine.

 

3. Mercoledì, 30 gennaio

Isola Waiheke, Nuova Zelanda

 

   Marc Bruckner si stava godendo la pace e il silenzio del suo vigneto preferito. Quando era arrivato, nel tardo pomeriggio, c’erano già diversi clienti, perlopiù coppie di una certa età. Aveva salutato con un cenno della testa e si era trovato un tavolo appartato in fondo al cortile, all’ombra di un enorme kauri il cui massiccio tronco marrone era ricoperto di scritte romantiche incise nella corteccia da precedenti avventori innamorati. Marc, però, non aveva registrato nulla di tutto questo; il fallimento del suo matrimonio era ancora troppo fresco. All’inizio si era sentito in imbarazzo, a bere da solo mentre intorno a lui sembravano tutti felicemente accoppiati, ma sarebbe bastato qualche bicchiere di vino a dissipare ogni remora. Ultimamente l’alcol sembrava il suo unico fedele compagno di vita.

   Ricordava fin troppo bene l’espressione accusatoria sul volto di sua figlia, quando le aveva detto che aveva bisogno di tornarsene in Nuova Zelanda per qualche tempo. «Com’è possibile che scappare dall’altra parte del mondo migliori la situazione?» aveva ribattuto Evie tra lacrime di rabbia.

   Marc era davvero tornato in Nuova Zelanda con la sincera di intenzione di «rimettere insieme i cocci», come amava dire suo padre. Be’, erano passate appena due settimane, non poteva certo aspettarsi di dare una svolta alla propria vita un minuto dopo essere atterrato. In fondo, stava combattendo i propri demoni da un mucchio di tempo. Gli erano state diagnosticate ansia e depressione diversi anni prima, il che significava aver ricevuto tutte le terapie mediche del caso, eppure faticava ancora a liberarsi della sensazione che i suoi problemi dipendessero soltanto da un cedimento della fibra morale e della forza di volontà, e che in un modo o nell’altro sarebbe riuscito a riprendersi da solo.

   Era stato un pomeriggio caldo e appiccicoso. Il sole che declinava verso occidente aveva tirato fuori i colori più belli dalla vegetazione circostante. La cantina, appollaiata in cima a una collina, offriva una splendida vista dell’isola: i curati arbusti e cespugli del giardino in cui si trovava, i frutteti che digradavano lungo il versante, con i loro alberi di albicocche, lime e prugne, e poi, più lontano, un magnifico paesaggio dolcemente irregolare, con altre fattorie e vigneti disseminati sui cocuzzoli limitrofi. Addirittura, se allungava il collo oltre il cespuglio che aveva accanto, poteva abbracciare con lo sguardo persino la punta occidentale dell’isola e la baia di Matiatia, dove i traghetti carichi di locali e turisti facevano la spola con Auckland, distante appena una ventina di chilometri.

   Marc aveva trascorso il pomeriggio a riflettere sulla vita disastrata che aveva lasciato in America: il matrimonio fallito, il rapporto incrinato con la figlia, l’ammasso di rottami in cui la sua carriera accademica si era trasformata malgrado fosse uno dei fisici più importanti del mondo… Le unicheintrusioni nei suoi pensieri erano stati i piacevoli versi degli insetti e degli uccellini in competizione fra di loro. Pur non vedendoli, Marc sapeva che sotto il fogliame si nascondeva un intero ecosistema, con le gerigoni grigie e i coda-a-ventaglio che saltellavano da un rametto all’altro a caccia di insetti, bruchi e scarafaggi.

   Questo succedeva qualche ora prima. Adesso che era calata l’oscurità e all’orizzonte brillavano le luci di Auckland, Marc stabilì che Waiheke era il posto più bello della Terra. Perché non ci aveva mai pensato prima, di passare più tempo lì? Gli tornarono in mente le vacanze estive che vi aveva trascorso da bambino, a nuotare, pescare, poltrire sulla barca del padre. Solo che quando i suoi genitori avevano comprato la casa per la pensione all’estremità sud dell’isola, lui si era trasferito negli Stati Uniti ormai da molto tempo. Adesso che non c’erano più, la loro casa era diventata sua, eppure Marc recalcitrava alla prospettiva di stabilirsi a Waiheke in pianta stabile. C’era ancora il barlume di speranza di poter raddrizzare la propria vita e la carriera di scienziato.

   Con la seconda bottiglia di Syrah ormai quasi a metà, si adagiò sullo schienale e scrutò il cielo notturno in cerca di stelle cadenti. Aveva l’impressione di essere l’ultimo cliente rimasto nella cantina. Dall’interno dell’edificio proveniva una flebile musica di cui Marc continuava a cogliere piccoli brandelli. Riconobbe Frank Sinatra e la sua voglia di volare fino a Giove e a Marte. Capitava proprio a fagiolo, rifletté Marc cercando di individuare i due pianeti tra lo sfolgorio di centinaia di stelle.

   Tornare in Nuova Zelanda era stata indubbiamente la decisione giusta. Lo stress del divorzio, la caduta in disgrazia alla Columbia University, la piccineria di colleghi accademici sui quali aveva pensato di poter contare come amici… tutto questo insieme si era rivelato un peso troppo grande da affrontare.

   Forse doveva davvero lasciarsi il passato alle spalle e stabilirsi a Waiheke. Era poi un’idea così malvagia? Aveva parecchi progetti cui dedicarsi per tenersi occupato, e se a un certo punto si fosse sentito come un leone in gabbia, sarebbe sempre potuto tornare a New York e tentare di ricominciare da dove aveva interrotto. In fondo non aveva nemmeno cinquant’anni, il tempo della pensione era ben al di là da venire.

   Lasciò che gli occhi si adattassero al buio in modo da distinguere anche i più fiochi puntini di luce. È buffo come la gente sia convinta che un fisico conosca a menadito ogni stella, ogni pianeta e ogni costellazione del cielo. Lui aveva perso il conto di quante volte aveva dovuto spiegare che non era un astronomo e che le sue ricerche gli imponevano di tenere lo sguardo rivolto all’ingiù, su una sfilza di equazioni matematiche, oppure di seppellirsi sotto complesse apparecchiature elettroniche per studiare il mondo nella sua scala più minuscola. Altro che guardare i cieli. Per giunta era daltonico, non riusciva nemmeno a distinguere Venere da Marte.

   Si era tolto le lenti a realtà aumentata per non farsi rovinare lo spettacolo da un eccesso di informazioni. Il cielo notturno perdeva tutta la maestosità e la bellezza quando intorno a ogni puntino luminoso era sovrimpressa una mole di minuziosi dati statistici. Certo, il flusso di informazioni dell’AR poteva essere spento in qualsiasi momento, ma c’era qualcosa di liberatorio nel togliersi le lenti a contatto, un po’ come camminare a piedi nudi sull’erba fresca.

   Eppure, come tanti altri, Marc trovava difficile fare a meno della realtà aumentata, la cui presenza era divenuta talmente pervasiva che quasi non ricordavi più il tempo in cui nessuno aveva accesso a informazioni istantanee sovrimpresse al proprio campo visivo. Marc era ammirato dalla capacità dell’uomo di adattarsi alle nuove tecnologie così rapidamente da perdere memoria di come si riuscisse a tirare avanti quando non esistevano. Pur essendo nato pochi anni dopo l’avvento di Internet e potendo contare su una formazione scientifica, Marc faticava sempre di più a tenere il ritmo incalzante dei cambiamenti, e rispetto alle ultimissime mode si considerava un po’ un dinosauro: non a caso, preferiva ancora le obsolete lenti a contatto a realtà aumentata anziché i nanoimpianti retinali liquidi che da qualche anno ormai andavano per la maggiore.

   Il settore era stato rivoluzionato con straordinaria rapidità una volta scoperto che l’AR non imponeva più all’utente di indossare occhiali o lenti a contatto su cui sovrimporre testi, immagini e video, un velo di dati attraverso il quale era comunque possibile vedere il mondo fisico circostante. Adesso invece, se volevi – e la stragrande maggioranza delle persone sotto i quaranta lo voleva – potevi accedere a tutto ciò che ti serviva direttamente dal cloud e fruirne come parte integrante della vista. Anzi, il mondo dell’AR dava il meglio di sé quando chiudevi gli occhi ed escludevi il mondo esterno.

   Era stata un’équipe di ricercatori di Berkeley a scoprire per primi come controllare i criptocromi, molecole fotosensibili presenti nella retina. Diversi componenti del team avevano intuito fin da subito il potenziale della scoperta e nel giro di cinque anni erano diventati i primi triliardari del pianeta. Una volta compreso che queste proteine potevano essere accese e spente mediante piccoli segnali elettromagnetici invitati agli occhi dell’utente dal suo smartwatch collegato al cloud, la tecnologia aveva conosciuto un’evoluzione travolgente. Quasi da un giorno all’altro, questa almeno era l’impressione di Marc, tutti avevano avuto a disposizione una doppia vista: realtà e realtà aumentata, sovrapposte eppure, con un po’ di pratica, del tutto distinte. Ormai le proiezioni di AR sulla retina erano diventate talmente sofisticate che il principale problema della tecnologia consisteva nella difficoltà, per l’utente, di distinguere tra la proiezione e l’universo fisico al di là di essa.

   «Posso portarle qualcos’altro, professor Bruckner?»

   La sommessa voce che lo aveva distolto dalle sue fantasticherie apparteneva a Melissa, la figlia del proprietario del vigneto che d’estate faceva la cameriera lì alla Stony Hill. Melissa riusciva a nascondere abbastanza bene l’impazienza di mettere fine alla giornata di lavoro.

   «No, grazie, Melissa. Finisco questo bicchiere e vado». Poi aggiunse: «Scusami se stavi aspettando di chiudere».

   «Si figuri» sorrise la ragazza. «Papà mi paga a ore». Recuperò la piccola lampada dal tavolo accanto e riordinò le quattro sedie. Girandosi per tornare dentro, alzò gli occhi verso il cielo notturno. «Fantastico, vero? Tutti quei giochi di colore…»

   Marc, perplesso, si girò a osservare seguendo lo sguardo della ragazza. «Oh, mio Dio, è l’aurora!» esclamò stupefatto. «È così vivida!» Il cielo sopra il Pacifico era uno spettacolo mozzafiato di luminose forme bianco-verdi in continuo movimento.

   Marc stabilì che era la degna conclusione della serata. In un silenzio incantato, lui e Melissa rimasero a osservare la cortina di luce che aumentava di intensità alla sinistra del tetto della cantina per poi espandersi lentamente alle loro spalle e svanire, rimpiazzata da un motivo luminoso altrettanto suggestivo sulla destra.

   Tuttavia, mentre la novità dello spettacolo cominciava a scemare, Marc ebbe la fastidiosa sensazione che gli stesse sfuggendo qualcosa di ovvio. Qualcosa di molto importante. Il pensiero attecchì e si sviluppò nonostante il vino intorpidisse le sue capacità analitiche. Poi, tutto a un tratto, ci arrivò. Fece un rapido controllo mentale per assicurarsi di avere i giusti riferimenti spaziali. La grandiosa aurora australe che stava guardando era orientata nella direzione sbagliata. Avrebbe dovuto manifestarsi nel cielo del sud, dalla parte del polo. Invece era rivolta verso nord. Come accidenti era possibile?

 

4. Giovedì 31 gennaio

05:30, Nuova Delhi

 

   Il volo AI-231 da Stoccolma stava cominciando la discesa verso Delhi. Nonostante durassero tutta la notte, il capitano Joseph Rahman preferiva gli antiquati viaggi subsonici. Ultimamente non se la sentiva di fare troppi hyperskip. A causa all’indebolimento del campo magnetico terrestre, infatti, volare con i cosiddetti «ipersaltelli» comportava un rischio sempre più alto legato alle radiazioni. Per quanto fosse allettante arrivare dall’Europa all’India in quarantacinque minuti, rimbalzando sulla superficie dell’atmosfera a Mach 10 come un sasso su uno stagno, il primo obiettivo di Rahman era quello di ridurre al minimo l’esposizione al bombardamento dei raggi cosmici.

   Accese la proiezione esterna della cabina, in modo che le immagini catturate dalle centinaia di minuscole videocamere disseminate sulla superficie del velivolo si sovrapponessero all’interno della fusoliera priva di finestrini, facendola apparire completamente trasparente agli occhi dei passeggeri. Ma era un esercizio inutile. In genere, con l’aereo che planava verso il tappeto di luci della megalopoli ancora addormentata e pressoché immobile, il panorama che se ne godeva era estremamente suggestivo; stavolta invece erano stati accolti da un muro bianco, dovuto alla fitta nebbia che avvolgeva spesso l’aeroporto Indira Gandhi in quel periodo dell’anno. Stavano volando nel circuito di attesa a tremila metri da terra da ormai quaranta minuti, aspettando il proprio turno per atterrare.

   Improvvisamente, parecchi schermi si spensero.

   Sembrava un problema con il sistema di navigazione satellitare. Il capitano attese qualche minuto, lasciando che fosse l’AI del velivolo a risolverlo. Non avendo niente da fare, accese l’interfono per aggiornare equipaggio e passeggeri. Come per qualsiasi pilota da cento anni a quella parte, la voce del capitano Rahman era calda e profonda e, grazie ai venticinque anni di esperienza di volo accumulata, emanava una placida sicurezza.

   «Signore e signori, ci scusiamo per il piccolo inconveniente. Stiamo ancora aspettando che ci venga assegnato lo slot per l’atterraggio. Potrebbe inoltre verificarsi un ulteriore breve ritardo a causa di un disguido con l’intelligenza artificiale dell’aereo, che speriamo di risolvere al più presto. Vi terrò informati». Poi, per evitare il diffondersi di panico ingiustificato, aggiunse: «Non c’è assolutamente nulla di cui allarmarsi».

   Tuttavia, ora il capitano era costretto a tenere d’occhio il livello delle batterie. Il forte vento contrario che li aveva accompagnati per gran parte del viaggio da Stoccolma e la successiva lunga attesa sopra l’aeroporto Indira Gandhi avevano fatto sì che la carica fosse più bassa di quanto Rahman avrebbe desiderato.

   Mentre i due giovani copiloti tentavano di risalire all’origine del problema con il navigatore satellitare, il capitano stabilì il contatto radio con la torre di controllo.

   «Delhi, qui Air India due-tre-uno. Abbiamo perso il satellitare, direi quindi che siamo completamente in mano vostra. Inoltre abbiamo le batterie quasi scariche».

   La risposta dei controllori di volo fu rassicurante nella sua tempestività:

   «Ricevuto, due-tre-uno. Avete il permesso di atterrare. Rilassatevi, pensiamo a tutto noi».

   Rahman si concesse un piccolo sospiro di sollievo. Ormai quasi tutti gli aeroporti dotati di sistemi intelligenti che se necessario, per esempio in caso di visibilità scarsa, potevano assumere il controllo di qualsiasi velivolo in arrivo manovrandolo a distanza in modo da portarlo al corretto angolo di planata. Tuttavia, essendo l’AI presente in qualsiasi sistema complesso, gli aerei erano generalmente capaci di svolgere il compito da soli e i regolamenti internazionali prescrivevano alla torre di controllo di intervenire soltanto in caso di assoluta necessità. Stavolta però il capitano Rahman era più che contento di affidare ad altri il proprio aereo: il sistema intelligente del velivolo, infatti, anche se più potente del vecchio pilota automatico, non era in grado di funzionare senza GPS. Rahman si ripromise di andare a fondo del problema non appena fossero atterrati. Solo in un’altra occasione aveva avuto un guasto al GPS, ma in quel caso la visibilità esterna era ottima e lui aveva potuto osservare il proprio velivolo portato a terra in tutta sicurezza dalle mani invisibili del sistema di AI dell’aeroporto.

   Poi, altrettanto improvvisamente di come era sparito il segnale satellitare, andò in tilt anche l’intero sistema di comunicazione dell’aeroplano. Con un brusco scossone, il velivolo venne sottratto alla presa della torre di controllo.

   Ok, adesso qualcosa da fare ce l’aveva. Merda, la situazione si stava complicando, ma non c’era bisogno di farsi prendere dal panico. Si girò verso i copiloti che lo stavano fissando intensamente e rivolse loro un sorriso rassicurante, cercando di mantenere calma la voce. «Forza, ragazzi, contegno professionale. Sarà una storia interessante da raccontare seduti intorno al tavolo del pranzo, dico bene?» E senza attendere la loro riposta, si concentrò sui propri compiti.

   «Delhi, qui Air India due-tre-uno. Che diavolo è successo?»

   «Scusate, due-tre-uno, a quanto pare c’è stato un grosso problema elettronico anche quaggiù. Abbiamo…»

   La voce nella cuffia di Rahman fu sommersa dal fruscio.

   «Non ho capito, Delhi. Potete ripetere?»

   Ancora nient’altro che fruscio.

   Joseph Rahman fece un respiro profondo e controllò di nuovo il livello del carburante. Il propellente rimasto non gli permetteva di innalzarsi al di sopra della coltre di nebbia e aspettare che il problema venisse risolto. Ripensò ai suoi primi tempi da pilota, vent’anni prima, quando il sistema di atterraggio strumentale dell’aeroporto gli avrebbe permesso una discesa da manuale, specie con una nebbia così fitta, senz’altro di categoria 3. Ormai, però, quasi nessun aeroporto era dotato dell’ILS, un apparato di antenne poste ai lati e sul fondo della pista che avrebbe fornito al computer di bordo dell’aereo tutte le informazioni necessarie per atterrare in sicurezza senza l’intervento diretto del pilota. Tutto invece era affidato al GPS e alle menti di intelligenza artificiale, e in quel momento né l’uno né le altre sembravano di qualche aiuto al volo AI-231 da Stoccolma.

   Fare atterrare manualmente un velivolo moderno era una novità che in altre circostanze Rahman avrebbe accolto con piacere, ma che in quel frangente richiedeva notevole abilità e una grossa dose di fortuna. Il capitano era abbastanza sicuro che che prima di perdere il contatto radio l’aereo si trovasse nella direzione esatta per raggiungere la pista sud-est. Sapeva inoltre che la velocità all’aria era giusta e l’indicatore dell’angolo di planata continuava a segnalare che si stavano avvicinando alla pista secondo l’inclinazione corretta: tre gradi rispetto al piano orizzontale. Se ne poteva concludere che il tentativo di atterraggio fosse molto meno pericoloso rispetto all’alternativa di continuare a volare in tondo in mezzo alla nebbia nella speranza che il problema venisse prima o poi risolto. A quanto sapeva, nelle vicinanze dovevano esserci un’altra decina di aeroplani che volavano anche loro alla cieca.

   «Ok, andiamo» disse, rivolto più che altro a se stesso. «Dobbiamo solo mantenere questa direzione e scendere dolcemente, dopodiché raccomandiamoci a Dio e speriamo di vedere le luci di pista in tempo per eventuali correzioni».

   Premette il pulsante dell’interfono. «Posso avere di nuovo la vostra attenzione, per cortesia? Sto per regolare i sedili in “modalità bozzolo”. L’atterraggio potrebbe essere un tantino brusco».

   Poi si affrettò ad aggiungere: «Equipaggio, confermate per favore che tutti i passeggeri siano in condizioni di sicurezza e prendete posto a vostra volta. Cinque minuti all’atterraggio».

   Intuiva che i due copiloti erano un po’ più che spaventati. Per tutto il volo avevano continuato a chiacchierare fra di loro in hindi mentre adesso non aprivano bocca, seduti entrambi con la schiena rigida e lo sguardo fisso davanti a sé, in attesa di scorgere le luci di pista attraverso la nebbia. Rahman teneva d’occhio l’altimetro, secondo le cui misurazioni l’aereo era scesa a quattrocento metri e la velocità si era ridotta a duecentocinquanta nodi. Se avesse avuto il tempo di riflettere sulla situazione con l’opportuno distacco, Rahman avrebbe potuto ricordare alcune delle cose che gli erano state insegnate molti anni primi, ai tempi della scuola di volo, informazioni che non aveva mai avuto bisogno né di valutare né di mettere in pratica. Perciò, non gli passò nemmeno per la mente che con la nebbia fitta un altimetro può restituire una quota errata, poiché le tasche di aria fredda interferiscono nella misurazione della pressione.

   Lanciò un rapido sguardo ai due copiloti e strizzò l’occhio. «Ci siamo. Due minuti all’atterraggio, ragazzi. Speriamo di vedere quelle luci…»

   Il capitano Joseph Rahman non era abituato a dover fare i conti così inaspettatamente con la propria mortalità.

   «Ma che cazzo

   Il volo AI-231 si schiantò contro il parcheggio dell’aeroporto circa due chilometri prima della pista, a una velocità di poco superiore ai trecento chilometri orari.

   Il capitano Rahman ebbe giusto il tempo di chiedersi come mai il terreno avesse dato un benvenuto così prematuro al suo aeroplano e di percepire il calore rovente dell’esplosione, dopodiché tutto divenne nero.

 

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L’autore

Jim Al-Khalili

Jim Al Khalili docente di fisica teorica presso la University of Surrey, dove tiene anche una cattedra di comunicazione scientifica.

Vicepresidente della British Science Association, è anche membro onorario della British Association for the Advancement of Science, membro della Royal Society e Uffi ciale dell’Ordine dell’Impero Britannico (OBE).

Nel corso della sua attività ha ricevuto il Michael Faraday Prize e il Kelvin Prize. Come comunicatore, Al-Khalili è spesso presente nei canali televisivi e radiofonici britannici, oltre a scrivere per il «Guardian» e l’«Observer». Tra i suoi libri, Quantum. A Guide for the Perplexed (2003); Buchi neri, wormholes e macchine del tempo (2003) e Pathfinders. Per Bollati Boringhieri pubblica: La fisica del diavolo. Maxwell, Schrodinger e i paradossi del mondo (2012); La casa della saggezza. L’epoca d’oro della scienza araba (2013); La fisica dei perplessi. L’incredibile mondo dei quanti (2014), La fisica della vita. La nuova scienza della biologia quantistica, in collaborazione con Johnjoe McFadden (2015), La casa della saggezza. L’epoca d’oro della scienza araba (Bollati Boringhieri 2019) e Sunfall(Bollati Boringhieri, 2019).

 

 

  • Sunfall
  • Jim Al-Khalili
  • Traduttore: Carlo Prosperi
  • Editore: Bollati Boringhieri
  • Formato: EPUB con DRM
  • Testo in italiano
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 3,05 MB
  • Pagine della versione a stampa: 416 p.

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