”Un miracolo, umano non meno che scientifico: Tafida la bimba colpita da un gravissimo accidente cerebro vascolare alla quale “la sanità britannica” voleva staccare i macchinari che la mantenevano in vita, è salva. Viva la vita!
Tafida, la bimba colpita da un gravissimo accidente cerebro vascolare alla quale la sanità britannica voleva staccare i macchinari che la mantenevano in vita, è salva. Viva la vita. Il
miracolo, umano non meno che scientifico, è stato realizzato dai medici dell’ospedale infantile Giannina Gaslini di Genova, un’eccellenza internazionale di cui l’Italia deve andare orgogliosa. La battaglia dei genitori della piccola per strapparla alla morte decretata dal servizio sanitario di Sua Maestà ha condotto Tafida al Gaslini. Dopo mesi di cure intense, risponde dagli stimoli e non è lontano il suo ritorno a casa. Non si sa sino a che punto si potrà parlare di guarigione, ma il peggio è passato. Se Dio vuole, una vita è stata sottratta all’arbitrio degli “esperti” e al gelido calcolo economico. Auguriamo a Tafida di rimettersi del tutto e di condurre una vita lunga, intensa e felice.
Non possiamo tuttavia esimerci da un ragionamento sulla sua vicenda, che segue quella di altri sacrificati sul falso altare della ragione strumentale, come il piccolo Alfie. Abbiamo altre volte asserito che la nostra è una subcultura di morte: dobbiamo confermarlo, al di là della pelosa attenzione che finge di dedicare ai deboli, ai disabili agli “ultimi”. Si organizzano “paralimpiadi” per i giovani sfortunati e maratone televisive per raccogliere fondi contro certe malattie. Ottime cose, che non spostano di una virgola il giudizio generale: una società ipocrita e funeraria per la quale anche il dolore, il disagio, la malattia sono un affare, a patto che arrivino finanziamenti, pubblici e privati, e che su di essi si possa alimentare un mercato i cui profitti vanno invariabilmente a burocrati, falsi profeti, approfittatori, “esperti”.
Il caso di Tafida è diverso: un abbraccio a lei e ai medici del Gaslini, ospedale costruito da un industriale per “coprire”, sembra su imperativa richiesta del capo del governo dell’epoca, Benito Mussolini, certe marachelle della sua industria olearia. Tafida resta un’eccezione. La regola è la convenienza, la ragione economica, l’interesse delle strutture sanitarie, dei fondi assicurativi, dell’industria farmaceutica. Il nazismo è il male assoluto, ma l’eugenetica, la soppressione dei malati, la scelta di non curare, avanza a passi spediti, si fa diritto positivo. Presto sarà “sdoganato” anche l’infanticidio, chiesto a gran voce, con la pudica definizione di aborto postnatale, da un intellettuale organico della a-società disumanizzata, Pierre Singer.
Conosciamo il caso di alcune nazioni del Nord Europa, Svezia, Olanda, Belgio, punte di lancia della cultura di morte spacciata per progresso e libera scelta individuale, in cui la “dolce morte” per mano medica raggiunge ormai migliaia di persone e si estende ai minori e a soggetti affetti da depressione. L’istinto di morte con ha più ostacoli, e fa il paio con l’erotizzazione generale di ascendenza psicanalitica freudiana (eros e thànatos, amore e morte, intrecciate nel lustprinzip, il principio di piacere che dominerebbe l’uomo). Idee assai gradite alle oligarchie finanziarie nel loro progetto di ingegneria sociale che assomiglia sempre più a un’impresa di demolizioni.
Attraverso il controllo della narrazione dominante degli organi di stampa e del sistema di intrattenimento e orientamento delle coscienze, questo tipo di incultura non solo avanza come un caterpillar rimuovendo ogni ostacolo etico, religioso e civile, ma è ormai largamente maggioritario nell’opinione pubblica. La gente, alla fine, crede in ciò che le viene fatto credere. Per fortuna, sopravvive qualche forma di pietà rispetto al dolore dei più piccoli, nel mare magnum dell’indifferenza, della banalizzazione del rifiuto della vita, nella medicalizzazione della soppressione dei feti, nell’orribile pratica di mantenere “in vita” embrioni umani per utilizzi vari ed eventuali. Il caso di Tafida, dunque, dovrebbe far pensare: invece no. Una frettolosa notizia nei telegiornali, poche righe nei giornali di sistema. La congiura del silenzio impedisce di riflettere su un assassinio vero e proprio, quello che avrebbero commesso- e che certo praticano ogni giorno, in Inghilterra e altrove.
La società di morte è anche, innanzitutto, un’incultura del rifiuto. Rifiuto di accogliere, preservare e prendersi cura della vita, e rifiuto in senso stretto. Nella fiera incessante del consumo, tutto diventa rifiuto da smaltire. L’essere umano non fa eccezione, come dimostra il “rifiuto” biologico (ah, la parola…) costituito dalla vita umana non più giovane, non più sana, non più dotata, secondo paradigmi assai discutibili, della sua “qualità”. Dunque, meglio dare la morte con una sanità non più soccorrevole, ma assassina seriale. Medici ridotti a boia in camice bianco, guanti sterilizzati, in mano una siringa terrorizzante. No, non terrorizzante, ma “civile”, benevola, persino benefattrice, poiché interrompe sofferenze.
Soprattutto, salvaguarda i bilanci delle ASL, delle assicurazioni, dei fondi d’investimento. Ippocrate credeva che la missione del medico fosse di curare e, comunque, non nuocere. Sopprimere è un ben strano modo di intendere il suo giuramento. Soprattutto se le ragioni della civilizzazione-obitorio sono sinistramente simili a quelle della società-mercato, alla quale, affermano, asseverano, non esiste alternativa. Dobbiamo levare la voce per fare affermazioni di altro tipo: una è la convinzione di essere in mano a sociopatici che mascherano la sete di dominio, la misantropia e il disprezzo per gli altri con affermazioni umanitaristiche, filantropiche. “Buone” intenzioni, pessime azioni.
Che senso ha un modo di vivere che disprezza la vita? Il nonno è malato, convinciamolo a morire. Il bimbo che abbiamo concepito per errore o in un momento in cui l’”Altro” era solo un oggetto di piacere, può essere soppresso. Poche cellule ingombranti, che importa se destinate a diventare un essere umano come noi, con il 50 per cento del patrimonio genetico uguale al mio di padre, il resto al tuo di madre? Le cure per le malattie sono costose. Ha l’assicurazione? È la domanda che ci siamo tutti sentiti rivolgere. Se ce l’hai, oppure paghi in contanti, metteranno scienza e coscienza a tua disposizione, sino al massimale previsto dal contratto o al prosciugamento del conto corrente.
Se non hai altra assicurazione che quella pubblica, aspetta e spera e, se è grave, convinciti, “per il tuo bene” che è meglio morire dolcemente. Una punturina in ambiente soft, un po’ di musica classica (stranamente non sono ammessi il rock e il rap…) e tutto è finito. Il computer chiuderà la tua pratica, il bilancio è salvo. Il materialismo assoluto non può che sfociare in puro dominio, in un rapporto di forza in cui l’uomo e la donna normali, più ancora il bambino e il non ancora nato, sono solo oggetti fungibili, nel migliore di casi un magazzino di parti e pezzi da staccare in un catena di montaggio e rimontaggio il cui obiettivo vero non è la salvezza di qualcuno, ma il profitto. C’è chi espianta organi per denaro e chi accetta per miseria, per tacere dell’orribile mercato criminale sottostante.
Ma non cambierà nulla se non sorgerà una rivolta ideale in nome dei principi permanenti che la “società aperta”, liberale e libertaria, soggettivista, ha sradicato con violenza progressiva. Il dramma che ci circonda è l’acquiescenza di massa, per indifferenza, conformismo, amoralità. Non riusciamo più nemmeno a immaginare che il nostro non sia un “vivere per la morte”.
Ci potrebbe aiutare la biologia, in particolare una definizione ampiamente accolta dalla scienza fino alla torsione necrofila contemporanea: la vita è l’insieme delle forze che si oppongono alla
morte. La espose il medico e fisiologo francese Marie-François X. Bichat.(1) Forze istintive, biologiche, psicologiche, spirituali. Diverso fu l’approccio di Sigmund Freud, che pose l’istinto di morte alle radici della vita, sia sotto la forma di un “masochismo primordiale” sia sotto quella, derivata, dell’aggressività. Per qualche verso, questa può sembrare un aspetto della “lotta per l’esistenza” positivista e darwinista, apparsa per lungo tempo una manifestazione diretta dell’istinto di conservazione.
La psicanalisi ha fornito una singolare spiegazione attraverso il principio, enunciato dallo stesso Freud e da Jacques Lacan,(2) del “rinnegamento”, ossia della doppia negazione che afferma. “Non voglio morire” sarebbe da tradurre come espressione di un istinto inconscio che porterebbe l’uomo a desiderare la propria morte. Comunque sia, la modernità e ancor più la postmodernità che ne trascina le rovine hanno messo sul trono la morte, destituendo di senso la vita, deridendo più che negando ogni possibile trascendenza e affermando la superiorità del principio di piacere. La sua assenza determina la sostituzione immediata con l’istinto di morte.
Il resto la fa il Mercato, con le sue regole impersonali e deterministiche, l’assurdo “apriori” di un mondo in cui è proibito il pensiero dissenziente, e naturalmente la cultura, imposta attraverso il possesso dell’intera catena della comunicazione, a cominciare dal significato delle parole. Morte/fine vita, eugenetica/salute, dolore/dolce morte, aborto/interruzione volontaria di gravidanza, utero in affitto/gestazione per altri, procreazione artificiale e zootecnica/ procreazione assistita e così via.
La più insidiosa delle conclusioni è quella che ci chiedono/impongono di trarre: è per il nostro bene, non si può rifiutare. Era per il suo bene che volevano interrompere le terapie di Tafida, è per il loro bene che chiedono a malati, anziani e depressi, già vulnerabili per i colpi della vita, di chiedere l’eutanasia, previo testamento biologico e patrimoniale. Per i resti, in attesa di verificare l’ipotesi di cannibalismo prospettata da un professore svedese alla televisione pubblica del suo “civilissimo” paese, meglio disperdere le ceneri, abolire ogni traccia del transito terreno di Mario Rossi. La civiltà, secondo i poeti e gli antropologi, diventa tale allorché l’uomo guarda verso l’alto e immagina l’Oltre, si dà la legge, sacralizza o almeno legalizza le nozze (uomo-donna, triste l’epoca in cui occorre precisarlo) e seppellisce i suoi morti.
Pensiamoci un momento: tutto ciò sta finendo, quindi stiamo fuoriuscendo dalla civiltà per entrare in una fase diversa, quella della scimmia intelligente o del cyberuomo, unione di natura e apparato artificiale. Sembra che piaccia, qualcuno ne è addirittura entusiasta. Qualunque società umana ed animale, peraltro, sussiste per organizzare la vita, non per promuovere la morte. In più viviamo immersi in una disgustosa ipocrisia. Ci commuoviamo per un gattino salvato dai pompieri, ma non ci tocca il dramma dei bambini rifiutati, sfruttati da reti pedofile d’alto bordo; l’emozione per Tafida dura un attimo, poi leggiamo le notizie sportive, l’oroscopo e il bollettino di borsa. La definiremmo sindrome del cavallo azzoppato. Abbiamo visto tante volte nei film il gesto umano che sopprime il cavallo a cui si è spezzata una zampa. Da qualche decennio ci fa orrore, ma non battiamo ciglio di fronte alla cosiddetta “dolce morte” degli umani.
Lo spazio che chiamiamo società è in realtà il suo contrario: a-società, poiché vi domina apparentemente la volontà soggettiva, il principio di piacere, ma nei fatti regna un potere sinistro che si nutre di morte e divora come Crono i suoi figli. Sono malati, sono anziani, oppure, se devono nascere, non li vogliamo, sono un fastidio, spese, bisogna prendersene cura, impediranno viaggi, vacanze, carriera. Morte individuale di massa e dissoluzione rapida della civiltà. Aveva ragione Dostoevskij: se Dio non c’è, tutto è permesso. Eppure, la difesa della vita dovrebbe essere una priorità soprattutto laica: perché togliere a un feto, a un bimbo, a un malato che forse si può curare, a un depresso che può uscire dal buio, l’unica possibilità offerta dalla natura o dal caso?
Domande, troppe domande a cui questa in-civiltà agonizzante non sa e non vuole rispondere, ma neppure è più in grado di intenderne il significato. Azzardiamo un altro interrogativo: ha senso attribuire potere di morte a una categoria professionale, medici e psicoterapeuti? Al di là delle competenze specifiche, che ne sanno, più di me e di te, del senso della vita e della morte? Forse aveva ragione lo psichiatra americano Thomas Szasz(3), a evocare l’esistenza di un’ideologia medica, intuirne il ruolo micidiale di strumenti dell’oligarchia dei padroni universali, signori della vita e della morte al posto del Dio tramontato.
Per un giorno, tuttavia, esultiamo: Tafida è stata sottratta al destino deciso per lei dagli oscuri signori di Mordor. Una volta tanto, vince la vita, grazie all’umanità e alla scienza unite per l’uomo. C’è emozione nel gridare di gioia, ma continua la lotta culturale, la nostra difficile Kulturkampf affinché non resti un caso isolato.
Comunque, grazie al Gaslini, grazie a chi ha messo cuore e denaro, e una carezza a Tafida.
Note
- (1) Marie François Xavier Bichat (Thoirette, 14 novembre 1771 – Parigi, 22 luglio 1802) è stato un chirurgo e fisiologo francese. A lui si deve la scoperta che gli organi del corpo umano sono costituiti da tessuti; per questo viene considerato uno dei fondatori dell’istologia moderna. Inoltre egli fu uno tra i primi assertori di un’anatomia descrittiva e la sua opera L’Anatomie générale (1801) fa di lui uno degli iniziatori dell’anatomia patologica. Prendono il suo nome:
- il corpo adiposo o bolla di Bichat, masserella di tessuto grasso, particolarmente sviluppata nel fanciullo, situata nello spessore muscolare della guancia;
- la fenditura o fessura cerebrale di Bichat, profondo solco impari alla base del cervello, attraverso cui la pia madre penetra nella massa emisferica.
- (2) Jacques Lacan (Parigi, 13 aprile 1901–Parigi, 9 settembre 1981) è stato uno psichiatra, psicoanalista e filosofo francese, secondo alcuni uno dei maggiori del suo tempo. Definito “lo psicanalista più controverso dai tempi di Freud”, Lacan fu una delle personalità di spicco della corrente filosofico-antropologica strutturalista e post-strutturalista tra la fine degli anni Cinquanta ed i primissimi anni Ottanta. Le sue rivoluzionarie quanto discusse idee hanno esercitato una considerevole influenza sul successivo sviluppo della psicanalisi clinica, della linguistica, della teoria critica, della critica cinematografica e, più in generale, della filosofia europea del XX secolo.
- (3) Thomas Stephen Szasz, anglicizzazione di Tomás István Szász (Budapest, 15 aprile 1920 – Manlius, 8 settembre 2012), è stato uno psichiatra e attivista ungherese naturalizzato statunitense. Fu professore emerito di psichiatria presso lo Health Science Center, della State University di New York, sede di Syracuse, famoso per essere uno dei principali critici dei fondamenti morali e scientifici della psichiatria, vicino alle convinzioni dell’antipsichiatria. Sostenne la liberalizzazione delle droghe, dei farmaci e la lotta all’istituto del manicomio e dell’ospedalizzazione forzata attuata nel sistema sanitario degli Stati Uniti, affermando che esistono malattie neurologiche, disordini comportamentali e problemi filosofico-esistenziali, ma non malattie “mentali” in senso stretto, che lui considerava un’invenzione della psichiatria, alla cui pratica non era però contrario se consensuale. I suoi due libri più noti sono Il mito della malattia mentale e The Manufacture of Madness: A Comparative Study of the Inquisition and the Mental Health Movement, che espongono alcuni degli argomenti cui è più associato. «Un bambino diventa un adulto quando si rende conto che ha il diritto non solo di essere giusto, ma anche di sbagliare.» (Thomas Szasz, 1974)
Fonte Wikipedia