Se ti venisse offerta la possibilità di conoscere la data della tua morte, probabilmente la rifiuteresti, giusto?

 

 

 

racconto

di

Gian Mattia Loredan

 

Se ti venisse offerta la possibilità di conoscere la data della tua morte, probabilmente la rifiuteresti, giusto?

La maggior parte delle persone, credo, reagirebbe così. La maggior parte delle persone considererebbe agghiacciante conoscere il giorno esatto, e quindi gli anni e i mesi e i giorni, che restano loro da vivere.

Io invece ho sempre pensato che conoscere la data della mia morte mi avrebbe dato sicurezza. Perché se sai quando devi morire, automaticamente sai che non puoi morire prima: ammettendo che l’informazione sia esatta e del tutto attendibile, ammettendo cioè che non ti abbiano preso in giro, puoi contare sul fatto che, qualsiasi cosa ti succeda in tutto il resto della tua vita, non rischierai di morire.

Prendete ad esempio la mia paura di volare, che di fatto mi ha sempre impedito di prendere l’aereo, con tutte le conseguenze del caso: occasioni perdute, disagi, rinunce. Ecco, potendo sapere con certezza il giorno della mia morte – mi dicevo – potrei prendere senza timori qualsiasi aereo, anche un biplano scalcinato.

E poi sarebbe utile sapere quanto tempo ho a disposizione, e uscire da quella trappola per cui il tempo che ti rimane sembra indefinitamente lungo, che poi ti senti libero di sprecarlo.

Ammetto che un punto debole, in questo mio ragionamento, c’è: affinché funzioni, affinché veramente la data della morte sia una specie di confortante garanzia, dovrebbe essere lontana e psicologicamente accettabile. Però sono sempre stato convinto che sentirmi dire “morirai a 90 anni, il giorno x del mese x”, non mi sarebbe dispiaciuto. È una bella notizia, in fondo.

Così la pensavo, fin quando non accadde davvero.

 

Questa storia comincia quasi tre anni fa, durante una coda in autostrada.

Allora avevo trentadue anni, e un colpo di fortuna mi aveva procurato un buon lavoro, con prospettive di carriera interessanti. A dire il vero non mi piaceva per niente quello che facevo, ma mi trovavo in una condizione piuttosto invidiabile, se paragonata a quella di molti miei coetanei. Perciò mi ero progressivamente adattato a relegare in secondo o terzo piano le velleità e le aspirazioni giovanili, a favore di una visione più pragmatica della mia vita: stabilità economica e professionale e obiettivi concreti, da realizzare a cadenze decennali. Insomma mi vedevo davanti un’esistenza liscia e programmata, in cui il caos – e il caso – contavano davvero poco.

Quel giorno ero fermo in macchina da quaranta minuti, accanto a me un collega della compagnia assicurativa per la quale lavoravo. Intorno, altre auto ferme. Qualcuno era sceso e chiacchierava con gli altri automobilisti. Qualcuno camminava lungo la strada per andare a vedere cos’era successo e come mai fosse tutto bloccato. Noi restavamo in auto perché di sfidare quell’aria mattutina di dicembre non ne avevamo nessuna voglia. Riscaldamenti accesi, perciò motori accesi.

   «Non ne usciamo più», dissi. Claudio non rispose.

Stavamo andando a fare una perizia, un venditore di abbigliamento a cui era bruciato il magazzino che immagino con quanta apprensione ci stesse aspettando. Avevamo un sacco di cose da fare e perdere tutto quel tempo era molto, molto sgradevole.

Alla radio parlarono di noi. Dicevano che su quel tratto autostradale c’era la strada ghiacciata, che il traffico era stato temporaneamente bloccato e che gli spargisale erano al lavoro.

Il nervosismo, intorno, cresceva. Automobilisti inferociti inveivano, bestemmiavano. Qualcuno, più filosofo, rideva. Appuntamenti saltati, telefonate di scuse e giustificazioni, minuti che scorrevano. Eravamo decine, forse centinaia di veicoli, tutti in ritardo, tutti in tensione, tutti pronti a ripartire come cavalli alle griglie di partenza, per cercare di recuperare il recuperabile.

Ci volle quasi un’ora e mezzo prima che la coda ricominciasse a muoversi. Avanzammo prima lentamente, poi quasi di colpo riprendemmo velocità. Claudio, che fino a quel momento era stato zitto, decise di manifestare improvvisamente tutta la sua insofferenza, ed esplose in una serie di «Vai, vai!» concitati. E fu nella concitazione di quella ripartenza irruenta, di tachimetri che schizzavano in poche centinaia di metri, di veicoli ancora ammassati che si distanziavano progressivamente, di sorpassi isterici, nervi e muscoli tesi, frenate improvvise; fu così che mi ritrovai accanto, sulla corsia di sorpasso, un grosso TIR.

Il traffico stava tornando normale, viaggiavamo già sui centodieci, quando il tipo del camion decise senza una chiara ragione di rinunciare al sorpasso e riaccodarsi dietro di noi. Decelerò, lasciò che noi avanzassimo, poi sterzò bruscamente a destra. Aveva preso male le misure, credo, e urtò la nostra macchina sull’angolo posteriore sinistro.

L’auto prese a sbandare, accennò un movimento rotatorio poi urtò violentemente contro il guardrail. Pensai che non pareva vero, che non ci credevo che stesse per capitare un incidente di quelli brutti, di quelli che ci si muore. Vidi il parabrezza trasformarsi istantaneamente in una ragnatela, poi l’esplosione degli airbag ci stordì. Sentii Claudio urlare, gli occhiali mi volarono via. Fino a quel momento era andata bene, non mi sembrava di essere ferito, c’era forse la possibilità che ne uscissimo indenni. La macchina girò su se stessa poi si ribaltò sul fianco sinistro. L’asfalto scorreva sul finestrino, alla mia sinistra, e solo allora capii che avrei potuto morire. Alla fine l’auto smise di strusciare lungo la strada, si fermò e mi dissi che se non ci arrivava nessuno addosso, forse eravamo salvi. Poi svenni.

 

Su ciò che accadde dopo, non posso essere molto preciso.

Avevo incontrato un uomo che sembrava un barbone. Ero in una corsia dell’ospedale, c’erano altri letti, bianchissimi e vuoti. Quest’uomo avanzava tra i letti e si guardava intorno come se cercasse qualcosa. Era trasandato, con una barba grigia e ispida, le unghie nere. Il braccio sinistro inerte. Indossava un camicione bianco da degente. Si avvicinò al mio letto e mi sorrise. Quel sorriso, così familiare e amichevole, mi fece dimenticare il suo aspetto poco rassicurante, e sorrisi anch’io. Gli chiesi dov’ero.

   «In ospedale no?», rispose.

   «Perché non c’è nessun altro?»

Aspettò, prima di rispondermi. Aveva pochi denti.

   «Ci sono io…», disse.

   «Chi sei?»

   «L’hai scampata, giovanotto. Potevi restarci secco.»

   «Chi sei?», ripetei.

   «E cosa importa?», rispose. «Sono uno come te. Ti ho mica chiesto chi sei, io?».

Poi, camminando lentamente, se ne andò e io mi addormentai.

 

Dopo qualche accertamento decisero che non avevo niente di grave, solo un piccolo trauma cranico. Ero stato fortunato. Claudio aveva avuto un’emorragia interna e avevano dovuto operarlo, ma ora era fuori pericolo. La mia ragazza venne a trovarmi, mi portò un libro e dei cioccolatini che mi piacevano molto. Mi doleva tutto, qualsiasi muscolo possibile, però tutto sommato stavo bene.

Continuavo a pensare a quell’uomo, quello che avevo visto camminare nella corsia vuota. Mi convinsi di averlo sognato, perché non lo avevo più rivisto e poi la stanza in cui mi trovavo non assomigliava affatto alla corsia in cui lo avevo incontrato.

Me ne convinsi fino a quando non lo rividi, e la seconda volta ci posso giurare che ero sveglio.

La seconda volta ero io che passeggiavo annoiato lungo un corridoio, quando intravvidi quella barba grigia dentro un’altra camera. Non potei trattenermi dall’entrare. C’erano altri tre letti in quella camera, i pazienti dormivano o erano incoscienti, fatto sta che non fecero caso a me. Il mio uomo sembrava anche lui dormire, ma quando gli fui più vicino aprì un occhio, un occhio solo, e mi sorrise di nuovo. Di nuovo quel sorriso sdentato e amichevole che ricambiai, istintivamente.

    «Come va?», mi chiese.

   «Bene. Tu?»

   «Mica tanto. Ma ormai ci sono abituato».

Mi sedetti accanto a lui. Il suo braccio sinistro giaceva immobile lungo il fianco. Si tirò un po’ su e mi chiese di aprire lo sportello del comodino accanto al suo letto. Lo feci, dentro c’era una bottiglia di vino mezza piena. Se la fece passare, mi chiese di aiutarlo a togliere il tappo di silicone, poi trangugiò qualche sorsata. Mi porse la bottiglia, per offrirmi il vino. Gentilmente rifiutai. Posò la bottiglia per terra, accanto al letto. Rimase come assorto, per un momento, come se di colpo si fosse ricordato qualcosa. Poi mi disse, quasi frastornato: «C’è uno, sul tuo letto…»

   «Come?», feci io.

Era turbato, a disagio. Mi guardò e mi parve di vedere un’ombra di sospetto, nel suo sguardo. Poi disse: «Il numero uno.»

   «Il numero uno?», ripetei.

Lui scosse la testa.

   «Niente… lascia stare», disse, e per un attimo tornò anche a sorridere. Tornò ad appoggiare la testa sul cuscino. Poi mi chiese: «Cosa si prova ad aver rischiato la vita?»

   «Non saprei, è strano. Comunque niente di clamoroso.»

   «Già. Ci vuole poco perché tutto torni ad essere scontato. Ci sei e ci sarai ancora, almeno per un po’.»

   «È naturale che sia così, no?»

   «Sacrosanto.»

Fu allora che il discorso andò a cadere sulla questione della morte. Della data, dico. Ebbi l’incoscienza di dirgli quello che ho detto prima a voi: che non mi sarebbe dispiaciuto conoscerla, purché non fosse imminente.

   «Dici davvero?», chiese, con stupore.

   «Sì.»

   «Non credo che sarebbe un bene quantificare il proprio futuro.»

   «Io sì. È una questione di gestione del tempo. Credo che ne perderei molto meno. E poi, ripeto, credo che ci guadagnerei in coraggio, forse persino in spensieratezza.»

Si mise a ridere. «Spensieratezza? Come si fa ad essere spensierati se sai esattamente quanto manca alla tua morte?»

   «E come si fa ad essere spensierati se non sai quando morirai, e quindi potresti morire da un momento all’altro?»

Non disse niente. Si guardò intorno con circospezione, poi si sollevò un po’ dal cuscino e mi sussurrò:

   «Davvero vuoi saperlo?»

Stavolta risi io. «Perché, tu me lo dici?»

   «Sì», rispose. Era serissimo.

Io sorridevo ancora, non capivo se mi stesse prendendo in giro o se era matto (che in fondo è ciò che avevo pensato quando lo avevo visto per la prima volta).

   «Andresti incontro a conseguenze molto pesanti, è giusto che tu lo sappia», disse. «Ma la scelta è tua. Te lo ripeto per l’ultima volta: vuoi sapere quando morirai?»

Il suo sguardo, adesso, non era più amichevole né simpatico. Era fosco, inquietante. Mi faceva un po’ paura, lo ammetto. Banale suggestione. Si stava atteggiando a profeta apocalittico. Non ero disposto a cadere vittima del suo pezzo di teatro, volevo mostrarmi distaccato, volevo dominarlo. Perciò sfoderai il più sereno dei miei sorrisi e dissi di sì.

Lui scosse la testa. Si riadagiò sul letto, socchiuse gli occhi. Io aspettavo, lui non diceva niente. L’avevo spiazzato. Comunque non mi piaceva l’atmosfera che si era creata. Gli augurai di guarire presto, lo salutai e feci per andarmene. Fu allora che lo disse.

   «Il 27 gennaio 2061, alle sei e dieci di mattina.»

Mi fermai. Istintivamente, feci un rapido calcolo.

Sono nato nel 1976, a settembre: nel gennaio 2061 avrò 84 anni e mezzo. Niente male. Mi sentii un po’ ridicolo e, sempre per non dargli la soddisfazione di farmi suggestionare, risposi: «Buono a sapersi…»

   «Non mi credi, vero?»

   «Come no!»

Non disse più niente. Si addormentò all’istante, e prese a russare così forte da dar noia alle orecchie. Uscii dalla sua camera, e fu l’ultima volta che lo vidi vivo.

 

 

Era il 2008, allora avevo 32 anni. Secondo la profezia del barbone dell’ospedale, me ne rimanevano cinquantatré. Ci rimuginavo su, sdraiato nel mio letto, al buio. Sono tanti, cinquantatré anni.

Mi addormentai nella ridicola speranza che il pazzo ci avesse azzeccato. Potete immaginare cosa pensai il mattino dopo, al termine della visita. Quando il medico prese la cartella clinica e la sua stilografica fece i capricci. Quando la scosse per far uscire l’inchiostro. Quando la stilografica lasciò il suo sputo nero sul mio letto. Quando vidi che la macchia sembrava un numero uno.

Mentre medico e infermiera si scusavano e si affrettavano a cambiarmi le lenzuola, io scesi e andai verso la camera del vecchio, giusto in tempo per vederlo passare in barella: immobile, con gli occhi aperti che sembravano di cristallo. Mi sedetti nel corridoio, chiedendomi cosa stesse accadendo. È facile lasciarsi sedurre dal mistero delle coincidenze, dell’apparente legame tra cose che in realtà non hanno niente in comune. Dovevo ragionare, dovevo rimanere lucido.

Coincidenze. La macchia poteva senza dubbio sembrare un numero uno, ma rimaneva soltanto una macchia d’inchiostro. Le parole della sera prima mi avevano in qualche modo affascinato, era stato bravo il vecchio, sembrava proprio una specie di oracolo. Com’è che aveva detto? “Sul tuo letto c’è il numero uno”, davvero notevole. Criptica, oscura e inquietante al punto giusto. E sintatticamente ineccepibile. Non la capisci, però la capirai. Bastardo d’un vecchio.

Con una frase così nella testa, prima o poi avrei per forza visto un uno sul letto. Avrebbe potuto essere un’ombra, un gioco di luci, una piega o una macchia; il caso ha voluto che fosse una macchia. È così che funzionano queste cose, è per questo che in tanti ci cascano.

 

La mattina dopo mi avrebbero dimesso. Un’ultima noiosa giornata sotto osservazione, poi finalmente a casa. Fuori pioveva piano, una pioggia appena visibile che non era poi tanto male stare a guardare.***

27 gennaio 2061. Chissà perché proprio quella data lì.

Sarà stata la noia, sarà stato quel luogo-non luogo in cui non sai mai cosa fare e finisce che dormi per far passare il tempo… insomma non so per quale motivo non mollai quel pensiero e mi ritrovai di nuovo a fare dei calcoli strani.

Era il 16 dicembre. L’anno, l’ho già detto, era il 2008. Mancavano quindici giorni alla fine dell’anno, poi sarebbe iniziato il 2009. Quindi se l’anno era quasi finito, in realtà non avevo davanti altri cinquantatré anni, come pensavo la sera prima, ma poco più di cinquantadue. Per la precisione, cinquantadue anni più quindici giorni più gli altri ventisette di gennaio. Cinquantadue anni e quarantadue giorni. Sono tanti lo stesso.

***In un anno ci sono 365 giorni, dunque cinquantadue anni sono… no, per questo mi ci voleva la calcolatrice. Presi il cellulare e feci il conto. 18980 giorni, più altri quarantadue fa 19022. Visti così non sembrano poi tantissimi, a dire il vero. Però mi ero dimenticato una cosa importante: gli anni bisestili. Un giorno in più ogni quattro anni.

Il 2008 era stato bisestile, quindi il prossimo bisestile era il 2012, poi il 2016, poi il 2020. Poi altri dieci anni bisestili fino al 2060. Quindi tredici giorni in più, perciò andiamo a 19035. Ecco, questo era il numero esatto di giorni che, secondo il vecchio, mi rimanevano da vivere.

Va detto che, siccome la previsione de vecchio mi era sembrata abbastanza ottimistica, purtroppo dovevo constatare che difficilmente sarebbero stati di più. Insomma, anche se il vecchio pazzo aveva buttato lì una data a caso – cosa di cui rimanevo convinto – bisognava riconoscere che 19035 giorni di vita era un’aspettativa piuttosto rosea. Messa in questi termini, faceva un po’ paura. Diciannovemila non è un numero così grosso, è un numero facilmente concepibile, computabile. Voglio dire, lo vedi.

Decisi allora che volevo calcolarlo in ore. Il numero risultante sarebbe stato abbastanza grande da tranquillizzarmi, da ridarmi un’illusione di infinito o giù di lì. Moltiplicai tutto per ventiquattro. Venne fuori 456840. Cazzo.

Speravo almeno nelle sette cifre. Speravo nella parola milione.

Erano le quattro e un quarto del pomeriggio. Quel numero di ore sarebbe stato corretto se fossi morto alla stessa ora del 27 gennaio 2061. Ma il vecchio aveva detto sei e dieci, quindi dovevo togliermi ancora dieci ore e cinque minuti. Arrivai così a 456829 e cinquantacinque minuti: questo era esattamente il tempo che mi restava.

Improvvisamente, tornai in me e mi chiesi se ciò che stavo facendo fosse davvero solo un gioco, un modo per passare il tempo, oppure una follia. D’un tratto sentii che c’era qualcosa di psicologicamente pericoloso in quel ragionamento.

Colpa dell’ospedale, della noia, dell’assenza di altri stimoli. Per fortuna, alle otto del giorno dopo mi avrebbero dimesso, e da quel momento avrei ripreso a vivere la mia vita normale.

Le mie successive 456814 ore.

E dieci minuti.

La mattina dopo lasciai l’ospedale. La mia ragazza mi era venuta a prendere con l’auto e mi aveva portato a casa. Pranzammo insieme, poi il pomeriggio andammo a fare una piccola gita. Ero felice. Solo adesso, fuori dall’ospedale, mi sentivo davvero “miracolato”. Assaporavo quella sensazione un po’ ebete di essere vivo e in buona salute, il sole il vento la musica e via così. Per un giorno intero non pensai alla mia morte, alla data presunta, ai calcoli, alle ore rimanenti.

Il giorno successivo tornai al lavoro. I colleghi mi salutavano con affetto, reale o falso non importa, e mi chiedevano di raccontare l’incidente, come era avvenuto, cosa si prova, cosa si pensa, se hai paura o no. Io in un certo senso non avevo avuto paura. Mica per niente, semplicemente perché in quegli istanti non pensavo alla paura, ero troppo teso e intimamente convinto di uscirne vivo per avere paura. Credo che questa cosa abbia a che fare con lo spirito di sopravvivenza, voglio dire in qualche modo dobbiamo rimanere convinti, fino all’ultimo, che possa andare tutto bene.

Mi sedetti alla mia scrivania, davanti al mio computer, e mentre aspettavo l’avvio del computer pensavo che quel camionista era stato veramente sfortunato a piombare addosso a due assicuratori.

Quando il desktop del computer si attivò, con tutte le sue icone al loro posto, qualcosa attirò immediatamente la mia attenzione. Qualcosa di anomalo. Ci misi un po’ a capire cosa fosse, fissai il monitor per alcuni secondi senza riuscire a venirne a capo. Poi lo vidi.

L’orologio.

In basso a destra, l’orologio digitale del computer non stava segnando l’ora. C’era una specie di timer, un conto alla rovescia che scorreva. C’era scritto 456789:12:34, e il 34 finale diventava 33 poi 32 poi 31 poi 30…

Cliccai col tasto destro sull’orologio e provai a lottare con le impostazioni dell’ora, cercando di capire se si trattasse di un problema del mio computer, ma non risolsi nulla.

«Cos’ha l’orologio, qui?», dissi.

Un collega vicino, senza staccare gli occhi dal suo monitor, mi chiese quale fosse il problema. Gli dissi di venire a vedere: lui si avvicinò, guardò il monitor e poi guardò me.

«E allora?», mi chiese.

«Come allora?», dissi.

«Cos’ha che non va?»

Stavo per mettermi a ridere ma per qualche motivo non ci riuscii. Gli chiesi di dirmi che ora leggeva.

«9 e 09.»

Io guardai di nuovo il monitor e vidi ancora quel conto alla rovescia. 456789:11:21… 20… 19… 18… 17… 16… Mi alzai e mi avvicinai a un altro monitor. Guardai l’ora: 456789:11:04… 03… 02… 01… 00 poi 456789:10:59… 58… 57…

Uno scherzo. Forse era uno scherzo. Gli altri però mi guardavano con un’aria preoccupata e pensosa. C’era un’ombra di pena nei loro sguardi. Io li guardai cercando un barlume di divertimento, una risata in arrivo, una qualsiasi forma di rassicurazione. Scoppiate a ridere, vi prego. Ditemi che mi state prendendo in giro.

Spinto da un misto di angoscia e curiosità, cercai in tasca il cellulare. Lo guardai, e anche lì al posto dell’ora c’era 456789:10:11… 10… 09… 08…

Quel numero. Quel conto alla rovescia. L’incontro col vecchio mi aveva suggestionato più di quanto credessi. Non pensavo di essere così fragile, così stupido.

Però in quel momento non potevo farci niente. Lo vedevo, vedevo quel numero, quello scorrere continuo e regolare. Lo vedevo nel monitor del computer e nel display del cellulare. Poco dopo scoprii che lo vedevo addirittura nel piccolo display della macchina per il caffè, in corridoio. Cominciai anche a pensare che potesse trattarsi di lesioni cerebrali o qualcosa del genere, insomma forse l’incidente mi aveva danneggiato in qualche modo. Ne dovevo assolutamente parlare con il dottore.

Cercai di arrivare in fondo alla giornata senza farci caso, anche se era impossibile non buttare l’occhio, di tanto in tanto, a quel continuo srotolarsi di numeri, di secondi. I colleghi facevano a gara nell’essere disinvolti, mi vedevano in agitazione ma insistevano col dissimulare, in maniera piuttosto maldestra, un pietismo irritante. Sta ancora male, si vede. È scosso, traumatizzato. Ci vorrà un po’.

E non avevano la più pallida idea di quale fosse il vero problema.

La sera uscii dall’ufficio ed ero di pessimo umore. Salii in macchina. Appena accesi il quadro ricomparve: 456781:22:31… 30… 29… 28… 27…

Era grande, occupava tutto lo schermo. Al di là di tutto, era un problema serio perché non riuscivo a vedere le informazioni del quadro, le cose normali. Ripartii bestemmiando. Non sapevo a che velocità andassi, quanta benzina c’era, se c’era o non c’era l’olio. L’unico dato che costantemente potevo consultare, sul cruscotto della macchina, era il numero esatto di ore minuti secondi che mancavano alla mia presunta morte. E se non mi bastava, gettando un occhio all’autoradio potevo verificare l’informazione.

Quello che vidi lungo la strada non fece che peggiorare le cose. Le insegne luminose, i rilevatori di velocità, i display degli autobus, i televisori in esposizione nelle vetrine dei negozi, gli orologi digitali… ovunque ci fosse un pannello elettronico di qualsiasi genere io vedevo soltanto quel numero che cambiava cambiava cambiava. Secondo dopo secondo il numero diventava sempre più basso, più piccolo. Al variare incessante delle ultime due cifre corrispondeva una più lenta ma altrettanto vertiginosa caduta delle penultime due. Per non parlare delle sei cifre iniziali, che indicavano le ore. Quelle a prima vista sembravano granitiche, immutabili, eppure con una spaventosa rapidità avevo visto mutare anche quelle, nel corso della giornata.

«Guardi, qui non c’è niente… niente di anormale», mugugnò il medico scrutando la TAC al cervello. Niente di anormale.

«Però io continuo a vedere ovunque quella cosa…», obiettai.

«Non so che dirle, non mi è mai capitata una cosa del genere. A livello neurologico lei sembra perfettamente sano, potremmo proseguire con altri accertamenti ma, mi creda, escludo la presenza di patologie specifiche.»

Devo averlo guardato con un’aria veramente esasperata, perché non resse il mio sguardo. Non sapeva cosa dirmi. Feci una panoramica generica sul suo studio, il bianco circostante costituiva un elemento di sovraccarico visivo che non mi aiutava a stare calmo. Gli occhi mi finirono inavvertitamente su una bilancia digitale che con i suoi numerini rossi mi ricordava che mancavano ancora 456711 ore, 22 minuti e 42 secondi. Chiusi gli occhi e non potei fare a meno di chiedermi quanto ci sarebbe voluto affinché il 7, cifra delle centinaia nel numero delle ore, diventasse 6. La risposta era facile: undici ore. Mezza giornata.

«Dottore, io lo vedo», ripetei.

Lui fece un breve sospiro poi disse: «Senta, io credo che il problema sia di ordine psicologico…»

«Lo sapevo che prima o poi arrivava la storia del “è solo la tua immaginazione”», sbottai.

«Mi rendo conto che questa cosa non le sembra d’aiuto però lei è visibilmente stressato, e io penso che…»

«Dottore, io sono visibilmente stressato perché le assicuro che non è facile vedere costantemente e ovunque quel cazzo di numero. Sono quattro giorni che mi succede, ormai. Mi viene voglia di spaccare qualsiasi oggetto elettronico, qualsiasi visore, display, timer che mi trovi intorno. Va a finire che lo faccio davvero, se non troviamo una soluzione.»

«Lei deve rendersi conto che questa storia della data della morte è assurda, come può pensare che quel numero indichi veramente le ore che le restano da vivere? È solo una sua fissazione…»

«Può darsi che io sia pazzo, può darsi. Ma pure ai pazzi si dà qualcosa, no? Qualche medicina, qualcosa che li aiuti a stare meglio. Dottore io ingoio pure ammoniaca se lei mi garantisce che non vedrò più quel numero.»

Il dottore cominciò a scrivere qualcosa sul libretto delle ricette. «Prima di provare l’ammoniaca, provi queste qui. Una ogni otto ore. Comunque le fisso un appuntamento con un collega perché questa cosa è abbastanza interessante, bisogna approfondirla.»

Interessante, sì. Proprio quello che pensavo anche io.

A casa avevo tolto di mezzo tutti i display. Quelli che non avevo potuto buttare via, li avevo in qualche modo coperti, spenti, oscurati. Il forno, il frigorifero, il lettore DVD, il decoder, le radiosveglie, il telefono cordless, lo stereo. Di usare il navigatore satellitare non se ne parlava neppure.

Prendevo tutte le medicine prescritte dal medico ma non serviva a niente. In compenso, ero intorpidito e mi sentivo sempre stanco. Non mi arrabbiavo quasi mai, non mi sembrava nemmeno di avere paura, ma quel timer lo vedevo eccome.

La cosa strana era che, di tanto in tanto, una specie di masochismo mi induceva ad andare a controllare, anche quando ero in casa e avrei potuto evitare di vederlo. Controllare, nella debole speranza di essere magari guarito. Ma anche controllare quanto mancava.

Le prime tre cifre, curiosamente, erano ordinate: 456. Mi ricordai che la prima volta che avevo visto quel counter, il numero delle ore era costituito da ben sei numeri ordinati: 456789. Mi chiesi se questo significasse qualcosa, se c’era un senso segreto.

Ormai era cambiata anche la cifra delle centinaia, era diventata un sei. Eravamo esattamente a 456654 ore, 57 minuti e poi quei secondi che non stavano mai fermi.

Continuavo ad andare al lavoro ma non era per niente facile concentrarsi. Un giorno mi trovai a discutere con un cliente che aveva avuto la sciagurata idea di poggiare il suo palmare sulla scrivania, acceso. Inutile che dica che il timer era lì e io non potevo fare a meno di notarlo. Feci uno sforzo terribile per cercare di non guardare, a costo comunque di non riuscire nemmeno a sostenere una normale conversazione. A volte dovevo sembrare ubriaco, o drogato, o qualcosa del genere. La mia fragilità mentale, comunque, era diventata un fatto noto in ufficio, e sapevo che prima o poi avrebbero cercato di rendermi innocuo. Licenziarmi no, non credo. Avrebbero trovato il modo per tenermi da parte. E non potevo dargli torto.

Una di quelle mattine non ero riuscito neanche ad alzarmi dal letto. Cioè, non avevo voluto alzarmi. Una non-volontà talmente forte da diventare, di fatto, un obbligo. Stavo fermo, sdraiato, a guardare in alto, col pensiero costante che vivere la mia giornata avrebbe significato incontrare, prima o poi, il timer. Quel giorno non ce l’avevo fatta, ad accettare l’idea. Un senso di costrizione in fondo alla gola, un fischio acuto nelle orecchie me l’avevano impedito. Quel giorno non avrei potuto sopportare l’orrore delle cifre. Non ero andato a lavorare, non avevo mangiato.

Tornai anche dal medico e fui visitato dal suo collega, uno psichiatra. Confabularono per un bel po’ ma non ne conclusero niente. Tornai a casa con nuove ricette per nuove pillole da prendere che mi rendevano ancora più assente, sempre meno capace di fare e di pensare.

Non pensare era l’unica possibile alternativa all’ossessione. Non pensarci, mi dicevano i medici. Non pensarci, mi diceva la mia fidanzata. Non pensare era lo scopo delle cure che facevo. Fini che non pensavo più a niente, non ci riuscivo proprio. Nonostante questo, il timer c’era ancora, intorno a me, dappertutto, tuttavia all’ansia si era sostituita una specie di angoscia sorda, fredda. Nessuna agitazione mi era consentita dai farmaci, ma ciò non mi impediva di capire quello che mi stava accadendo: stavo spegnendo la mia esistenza attorno alla paura del tempo che passa, stavo smettendo di usare il mio tempo per cercare di annebbiare la percezione del suo scorrere. Non aveva molto senso, ma non c’era alternativa. Perché forse sarei stato anche capace di non pensare a quella data, 27 gennaio 2061. Ma non mi era possibile cancellare dalla mia visuale questo continuo conto alla rovescia, e la conseguente sensazione di dover razionalizzare, calcolare, misurare, ottimizzare il tempo della mia esistenza. A vedere quel timer, quei secondi che rovinano giù in discesa, è impossibile non pensare di sprecare il tempo. È come stare a guardare un rubinetto aperto senza fare niente, senza poterlo chiudere e senza usare quell’acqua che scorre. Lo guardi e pensi che andrebbe chiuso, o che quell’acqua andrebbe raccolta, conservata, o perlomeno bevuta.

L’occultare tutti i display in casa, come dicevo, non era servito a molto. Tornavo a guardarli. E poi non potevo eliminare i display dalla mia vita, dico i display in giro, fuori. Ogni mattina mi svegliavo sperando di non vedere più il timer e ogni mattina ripiombavo nello sconforto quando mi accorgevo che c’era ancora. Avevo provato a fare anche dei calcoli per verificarne la coerenza, per vedere se i numeri che segnava corrispondevano all’effettivo scorrere delle mie ore, e tutte le volte la prova aveva dato esito positivo: era credibile, preciso. Dopo qualche settimana cominciai a disperare di liberarmene, mentre tutto il resto della mia vita si stava paralizzando.

Mi sono chiesto molte volte chi fosse quel vecchio che incontrai in ospedale e quale strano potere abbia avuto su di me. Solo quando morirò potrò sapere se la data che mi ha predetto è giusta o no. Sarebbe stupefacente se morissi davvero il 27 gennaio 2061, e forse mi convincerei di aver incontrato il Diavolo – o Dio, perché no – in persona. Fino ad allora, per me rimarrà un vecchio pazzo che per qualche strana ragione è riuscito a traviare la mia mente, condannandomi a questa allucinazione perpetua, a questa conta ininterrotta.

Per conto mio, cercai di resistere per qualche mese, sperando di abituarmi a convivere col timer, ma non ci riuscii. A poco a poco si fece strada in me l’unica soluzione possibile, per liberarmi di questo grottesco maleficio e tornare ad un’esistenza non dico serena ma sensata. Una soluzione drastica e traumatica, cui non mi rassegnai facilmente. Però non ne trovai altre, perciò un giorno la misi in atto.

Sono passati più di due anni. Da allora vivo meglio.

Certo, ho le mie difficoltà, i miei problemi, ma sono niente se paragonati a quel problema. In fondo, questa casa la conosco a memoria, so quanti passi ci sono dal salotto alla cucina o dalla camera da letto al bagno.

Niente può più infierire, non conosco più il numero delle ore che mancano alla mia eventuale dipartita e sono tornato a una piacevole incoscienza.

La mia fidanzata mi ha lasciato molto tempo fa, senza avere il coraggio di dirmi che mi credeva pazzo.

Non mi ricordo se lo ha fatto prima o dopo che mi accecassi.

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