”Una giovane bellissima, che lavora nel mondo dell’arte, viene uccisa nel proprio appartamento a Roma. Tre personaggi coinvolti per ragioni diverse nell’omicidio forniscono la loro interpretazione dei fatti. Chi nasconde la verità. Chi la manipola. Chi sembra non curarsene
Perché è l’intermezzo che costituisce il vissuto trascorso, ciò che è stato costruisce il passato, questo conduce al presente, a sua volta si ripercuote nel futuro.
Quello che è nel mezzo è il remoto da dove è iniziato tutto ed il contrario di tutto, con il suo scorrere determina la fine.
Tre è il numero perfetto, quindi, ed è anche l’emblema, il simbolo, che ricorre in questo romanzo già dal titolo: il racconto di un accidente usuale nella Roma odierna, un delitto passionale.
Giada Colonna è stata uccisa. Non c’è un solo giornale che oggi non riporti la notizia. Declinata nelle interpretazioni più varie, condita da elementi che vanno dal gusto del macabro alla più vergognosa esibizione di voyeurismo. Una giovane donna che si occupava di arte, con un identikit che cambia di articolo in articolo. Un nome fino a ieri sconosciuto e ora improvvisamente noto a tutti.
Un omicidio, anche semplice e banale, perché presumibilmente con tutta evidenza istintivo per decisione improvvisa e rabbiosa, d’impulso, neanche premeditato.
Sono in genere quelli più semplici da motivare e chiarire, assicurandone alla giustizia i colpevoli, investigando nell’immediato tra quanti più vicini alla vittima.
L’eccellenza del noir firma questo romanzo consegnando alle stampe una lectio magistralis del genere incastonata in una storia magneticamente cupa, moderna, originale, palpitante, che non lascia via di scampo e non fa prigionieri.
Non un giallo misterioso e impenetrabile, quindi, questo libro, e tutt’altro che un mistero, aggiungerei, ma una bella prova corale, una prova d’orchestra.
Un racconto che prende a pretesto un delitto, un crimine neppure particolarmente efferato, per di più commesso utilizzando come arma del delitto, guarda caso, un terzo di una scultura bronzea, un manufatto artistico rinvenuto sulla scena.
Il senso di atroce sta tutto solo nella vittima, perché è una barbaria ai danni di una giovane e bellissima ragazza, piena di vita, di luce e di colori, di interessi, di preparazione e di cultura artistica, un astro nascente negli ambienti dell’arte della capitale.
La storia scivola bene, suona meglio, scorre fluida, è piacevole a leggersi, non una costrizione editoriale, ma una prova di abilità e di professionalità.
Che funziona, grazie alla professionalità dei tre, che si amalgano bene, al meglio.
Perché ognuno di loro si fa in quattro, in tre cioè, pardon.
La trama del romanzo
Una giovane bellissima, che lavora nel mondo dell’arte, viene uccisa nel proprio appartamento a Roma. Tre personaggi coinvolti per ragioni diverse nell’omicidio forniscono la loro interpretazione dei fatti. Chi nasconde la verità. Chi la manipola. Chi sembra non curarsene.
Il commissario Davide Brandi è un poliziotto molto abile, e molto ambizioso. È lui che conduce le indagini. A dargli la parola è Giancarlo De Cataldo. Marco Valerio Guerra è l’amante della vittima. Un uomo d’affari ricchissimo, potente, odiato. A dargli la parola è Maurizio De Giovanni. Anna Carla Santucci è la moglie di Guerra. Scoprire il tradimento del marito non l’ha stupita affatto. A darle la parola è Cristina Cassar Scalia. Le loro versioni non concordano. Ma tutte rappresentano un piccolo passo per arrivare alla soluzione del caso.
Come inizia
1.
Il commissario Brandi
Al centro di una parete spoglia, tinteggiata di un vivido giallo, c’è un grande quadro. Il fondo è di un verde raggrumato, a suggerire un’intenzione di marcio. Sul lato sinistro è raffigurata una bambina che sta per accendere un fiammifero. Indossa una tutina rossa che fa risaltare i corti capelli biondi. Tutt’intorno, il cielo nero di una cupa notte metropolitana: questo, almeno, dovrebbero raffigurare le sagome di palazzoni senza finestre dalle cuspidi irrealistiche che sfumano nell’oscurità. All’estremità opposta, sulla destra, una gamba sollevata, come di una figura in movimento. Pantaloni scuri e una scarpa bianca con lacci neri, di foggia antiquata. Incongrua. Minacciosa. I tratti del dipinto sono netti e squadrati, geometrici, rudi. Manifestano un che di matematico e di astratto. È parte di una storia, quella raffigurazione, ma il senso mi sfugge. Non riesco a staccare lo sguardo dagli occhi, sgranati e immensi, della bambina. Che cosa cercava di comunicare, l’artista, attraverso quello sguardo? Uno schizzo di sangue risalta sulla scarpa bianca della gamba incognita. Lo si direbbe un graffio sfuggito al pennello. Un altro segnale inviato dal pittore a chi voglia cercare l’algoritmo risolutivo? No, decisamente no. Il sangue è vero. Sangue recente, seccato da poco. Seguo il torrente frastagliato disegnato dal percorso delle macchioline. Alla fine, o all’origine, c’è lei. Lei. Il suo cranio devastato nella parete retro-occipitale da un colpo violento. Un solo colpo, sono pronto a giurarlo. Anche i suoi occhi sono sgranati, nella fissità della morte. Cercano di dirmi qualcosa? La scena del delitto parla. Lo insegnano nelle accademie che hanno l’ambizione di formare investigatori al passo coi tempi. Insegnano, ad esempio, a non distrarsi. A non abbandonarsi a pericolose fantasticherie. Quelle che gli sbirri di vecchia scuola chiamano «intuizioni». Si deve diffidare delle intuizioni: possono creare suggestioni alle quali si resta avvinti a rischio del fallimento dell’indagine. Le intuizioni sono fuorvianti. Il mio mestiere richiede freddezza, distacco, professionalità. Eppure, nello stesso istante in cui qualcuno decide di sopprimere un essere umano, nel perimetro territoriale che delinea la competenza dell’ufficio a me assegnato, la comunità esige che io dia un volto e un nome all’assassino. Questo è il mio compito. Ogni indagine è scandita da pressioni, tensioni, urgenze. Tutto è decisivo. Tutto, anche i particolari piú insignificanti. Le accademie insegnano che nel mondo reale esiste sempre, inderogabilmente, un principio di causa ed effetto. Non c’è delitto, in natura, che non abbia una o piú causali. Il movente, i moventi. La nostra ossessione. Ma è proprio per questo che so che le nozioni delle quali sono imbevuto, e la cui conoscenza ha fatto di me una giovane speranza dell’ordine pubblico nazionale, non saranno mai, da sole, sufficienti a sbrogliare la matassa. Esiste qualcosa che nessuna accademia, nessun master, per quanto condotto da menti eccelse, potrà mai insegnarti. Il fatto è che le strade che compongono il mio parco di caccia sono agitate dalle passioni, dai dolori, dagli interessi e dalle miserie delle migliaia di esseri umani che le percorrono. Ed è dalla distorsione di uno qualunque di tali sentimenti che nasce il delitto. Ogni delitto. È lì che si annidano i moventi. Tutto ciò sa pericolosamente di intuizione. Dovrei tenermene alla larga, ma non posso farne a meno. Prendiamo il cadavere. Sino a poche ore fa lei era una giovane donna. Una bella giovane donna. Io sono convinto, e lo sono sin dal primo sguardo, che a ucciderla sia stato proprio il suo essere tale: una bella e giovane donna. È un delitto che sa di sentimento. Se sia odio, o amore tramutato in odio, o entrambe le cose, sarà il tempo a stabilirlo. Per me si tratta di un assioma. E tuttavia ho pure abbastanza esperienza per sapere che sono anch’io parte di quello stesso groviglio di sentimenti che ha ucciso. Imparare a dominarli, i sentimenti, fa parte della dotazione del bravo sbirro. E quando proprio non si può farne a meno, scendere a patti con loro è una soluzione accettabile. Perciò, la verità che sento di aver afferrato – la causale, il movente – non posso affermarla con la sicurezza che sento dentro. Se lo facessi, cadrei in contraddizione con i passi, meditati e meticolosi, grazie ai quali sto costruendo, da anni, la mia figura professionale. Significherebbe dare un calcio a una promettente carriera. Io so, ma devo fare in modo che altri pervengano alle mie stesse conclusioni sulla base di un percorso sufficientemente argomentato, tale da tacitare le obiezioni di una logica fin troppo prevedibile. Scriverò dunque nell’informativa preliminare quanto segue. Siamo in un palazzo tranquillo, in una zona residenziale del centro, abitata da una serena borghesia benpensante. La porta d’ingresso non presenta segni di effrazione. La donna delle pulizie che ha ritrovato il cadavere ha detto che era chiusa, ma senza mandate. È logico – secondo la logica a cui devo necessariamente richiamarmi – che a far entrare l’aggressore sia stata la vittima. Si conoscevano o chi ha ucciso è penetrato con l’inganno in questa casa? Ho pochi elementi per stabilirlo. Lei era in négligé. Quale giovane donna aprirebbe in négligé a uno sconosciuto? Forse una escort? Ma quale escort riceverebbe in un ambiente così raffinato? L’appartamento, a eccezione del corpo, appare in ordine. Nessun mobile rovesciato o cassetto svuotato. Nessuna traccia di rapina.
– Si chiamava Giada Colonna. Ventotto anni. Nata a Casal Velino Scalo… Che razza di posto è?
– Si trova nel Cilento.
– Ah, be’, dalle parti sue, no, dotto’?
– Piú o meno.
– Comunque. Laurea in Storia dell’arte. Qui almeno dice così.
Il sovrintendente Ascanio mi porge una carta d’identità rilasciata dal Comune di Roma.
– Non toccare niente con le mani, Asca’.
– Tutto a posto, dottore. Ho i guanti di lattice e quelle altre stronzate.
– Te ne accorgerai al processo se sono stronzate.
– Se ci sarà un processo.
Ascanio è fatto così. Un pessimista cosmico. Anche se lui ama definirsi «realista». In trent’anni di questura ne ha viste di tutti i colori. Si vanta di non credere piú a niente e di non fidarsi di nessuno. Nemmeno di me. È la seconda volta che collaboriamo, da quando dirigo questo commissariato cruciale, fra i piú importanti della città. Il trampolino di lancio ideale per un ragazzo ambizioso, dice Laura, che dirige la squadra di polizia della quale faccio parte, la mia diretta superiora. Con Ascanio sono state da subito scintille. Il capo della Mobile me lo affiancò, a suo tempo, perché non facessi troppi casini. Sfiducia istintiva dello sbirro di strada nei confronti del provinciale con molti titoli e nessuna pratica. Risolvemmo il primo omicidio in tre ore. Si trattava di una rissa fra manovali assunti in nero. Gente ubriaca e disperata, vite meschine che entrano in rotta di collisione, una domenica d’estate, in un piano nobile da ristrutturare. Anche lì, va da sé, passioni esacerbate: ma estranee al contesto ambientale. Questa è una storia diversa. Qui siamo nell’intimità del focolare, nella privacy violata. La vittima era giovane e avvenente. Ci sono tutti gli ingredienti giusti perché i media si sbizzarriscano. So cosa pensa Ascanio. So che mi ha soprannominato «il baronetto». So che mi considera un raccomandato con la testa nei libri. So che non digerisce l’idea di essere subordinato a uno sbarbatello che potrebbe essere suo figlio. Mi metterà alla prova. Dovrà ricredersi.
– Va bene. Che altro sappiamo?
– Ho preso a verbale la donna delle pulizie. Ha confermato tutto: veniva due volte a settimana, aveva le chiavi, la porta era senza mandate, la signorina di solito a quest’ora non era in casa, a prima vista non manca niente.
– Falle qualche altra domanda. Chiedile se la vittima aveva un amante, se frequentava uomini, cerchiamo di saperne di piú.
– Ok. Ho già avvertito il sostituto di turno.
– Chi è?
– Felicisanti.
– Poteva andare peggio.
– Non c’è mai limite al peggio, dottore.
– Se lo dici tu…
Impartisco qualche altra superflua disposizione –
Ascanio sa benissimo come funziona la procedura – al solo scopo di levarmelo di torno e restare solo con lei. Il corpo è inguainato in una vestaglina rossa che copre con grazia paradossale i piccoli seni modellati, e lascia scoperte lunghe gambe che la morte ha composto in una curiosa sequenza dinamica. La gamba del quadro, le gambe di lei… come se si corressero incontro, nella loro perturbante immobilità… C’è un legame? Fisso il dipinto. Mi invade una curiosa sensazione. Come se… come se qualcuno, nel frattempo, lo avesse cambiato di posto. Andiamo, su! A parte me e Ascanio qui non ci ha messo piede nessuno. E le cornici non si muovono da sole. Eppure la sensazione resta. S’ingigantisce, se possibile. Sono circondato da segni che non sono in grado, non ancora, di decifrare? Lei era giovane. Lei era bella. Lei è andata. La rabbia per la bellezza sprecata mi assale con violenza. Penso alle occasioni perdute, alle vite gettate al vento. Ecco che torna a echeggiare il coro prepotente dei sentimenti. Via, via. Ci sono cose piú importanti da fare. Non adesso, via! Su un tavolo di design, freddo, quasi ascetico nel suo quadrettato bianco e nero, c’è una scultura. Un giocoliere beffardo, col volto del Joker di Heath Ledger. Maneggia due palle che intuisco di materia pesante, bronzo, probabilmente. Non posso toccare, solo immaginare. Mi lascio sfuggire un sorriso. I giocolieri, di solito, di palle ne hanno tre. Qui manca quella centrale, a far perno sulle altre due, ciascuna in una mano della statuina. Calcolo la distanza fra il corpo e il tavolo, la posizione di Giada dopo la caduta, e sono certo di aver trovato l’arma del delitto. La terza palla, quella che manca. Lei di spalle. L’assassino che la colpisce con tutta la forza che ha. E le spacca la testa. Bravo, commissario Brandi. Puoi giocartici la paga di un mese. C’è una certa trivialità, in fondo, nella scelta del «corpo contundente». Giada viveva circondata da oggetti d’arte. È fin troppo ovvio che un frammento di scultura abbia spento la sua giovane vita. Torno sul corpo. Quegli occhi. E gli occhi della bambina nel quadro. La bambina che accende un fiammifero. Come nella fiaba di Andersen. Ma la bambina della fiaba vende i fiammiferi. E Giada? Cosa vendeva? Oggetti d’arte, immagino. Che altro? Sogni? Felicità? Disperazione? Sei tu la «Piccola Fiammiferaia»? I capelli sono biondi, ma quella è una bambina, e tu eri una donna bellissima con un corpo da modella. Hai acceso passioni e le hai pagate. Sembra quasi scontato. Il delitto passionale per eccellenza. Una crisi di gelosia, un amante respinto. Il quadro, lei… Quegli occhi che sembrano seguirmi… D’improvviso capisco. Muovo un passo a sinistra, poi uno a destra. Gli occhi della Piccola Fiammiferaia continuano a seguirmi. Mi allontano dal quadro. Gli occhi continuano a seguirmi. Sposto lo sguardo sulla gamba, all’estremità opposta del dipinto. Sembra essersi mossa, impercettibilmente. Un trompe-l’œil. Uno scherzo visivo. Una prospettiva sfalsata. L’artista ha giocato con l’inganno. E l’inganno, realizzo, sarà la chiave di volta di questa storia. Ma quale inganno? Squilla una suoneria. Anonima, niente melodia personalizzata. L’apparecchio è in terra, accanto a un pouf sul quale è aperto il catalogo di una mostra sulla transavanguardia. Reprimo l’impulso di rispondere. La Scientifica tarda. Forse hanno trovato traffico. Torno a concentrarmi sul cadavere. Mi sembra di cogliere, e prima non l’avevo notata, una sorta di smorfia crudele nella piega delle labbra. Eri una donna cattiva, Giada? Hai condotto il tuo amante all’esasperazione e sei stata punita? Torno alla Piccola Fiammiferaia, ai suoi occhi che continuano a inseguire i miei movimenti. Piú vivi di quelli freddi e straniti del cadavere. C’è la stessa cattiveria nella fisionomia dipinta? Non direi. Ma posso sbagliarmi. Se avanzo mi sembra di afferrarla, se mi sposto di lato svanisce. Inganno. Ma c’è qualcosa che stona, nell’insieme. Qualcosa che non riesco a percepire. L’interferenza dei sentimenti cresce. Presto si farà insopportabile. Rumore di sirene. Passi per le scale del vecchio stabile piantato nel cuore del quartiere Prati. Il sostituto procuratore della Repubblica Mauro Felicisanti entra rumorosamente, accompagnato dai tecnici della Scientifica. Lo metto in breve al corrente della situazione e lo rassicuro sul fatto che le procedure saranno scrupolosamente rispettate.
– Mi fido di lei, dottor Brandi, – commenta, e, sollevato, se ne torna in ufficio.
Il cellulare di Giada è «armato», come usiamo dire fra noi. Acceso e senza codici di protezione. Mi faccio dettare da uno dei tecnici il numero dell’ultima chiamata ricevuta dalla vittima. Chiamo Rubei, il nostro David Copperfield informatico, e in meno di venti minuti ottengo un nome e un indirizzo. Lascio i vicini e le loro intuibili banalità ad Ascanio, e mentre la Scientifica adempie ai suoi arcani incombenti, abbandono la scena del delitto. È una splendida mattinata di primavera. Sotto il portone s’è radunata una piccola folla di curiosi, che l’agente Rodomonti, un veterano del fancazzismo, osserva con l’occhio a mezz’asta. Tanto per mettere in chiaro i ruoli, gli ordino di prendere a verbale chiunque abbia informazioni utili sulla vittima e la sua personalità. Mi guarda stranito.
– Dottore, ma come faccio a sapere chi ha informazioni utili e chi no?
– Non puoi saperlo.
– E allora?
– Sentili tutti.
Faccio cenno all’autista che può rientrare in commissariato, e mi avvio a piedi verso la meta. È una mattinata chiara, di quelle con un’atmosfera sospesa fra l’addio all’ultimo freddo e l’annuncio di Madonna Primavera. Roma riluce di un pulviscolo profumato di sole e di promesse. Ansiosa di lasciarsi alle spalle la lunga notte invernale, la Grande Ingannatrice si trucca e intanto ordisce il prossimo trabocchetto. Mi accorgo che non ho fatto caso se Giada era truccata o no. Se aveva messo su il make-up dell’incontro erotico. Se è stata sorpresa a intimità già consumata o durante i cosiddetti preliminari. Telefono ad Ascanio e gli chiedo di verificare.
– È arrivato il medico legale. Pare che ci siano tracce di sperma nella vagina.
Un delitto del «dopo», dunque. Fanno l’amore, litigano, e poi lui la uccide. Non ti sei negata, Giada, ma non è servito. Forse proprio per questa tua disponibilità sei stata punita. Corro troppo, in tutti i sensi. Una ragazza in motorino quasi m’investe mentre attraverso distratto un Lungotevere stranamente rado di traffico. Ignoro il suo dito medio e l’imprecazione che stona sulle sue belle labbra, e tre sigarette dopo sono nella Galleria Andromeda. È un salone ampio, illustrato da pochi pezzi di pregevole fattura. Fa pendant con la classe di Giada. Fra i quadri, piccoli e grandi, che ne ornano le pareti, individuo figure inquietanti e schizzi rabbiosi. Un’aria di violenza e disperazione diffusa, ineluttabile.
– Lo spirito dei tempi, – sorride un cinquantenne alto e dal volto scavato, mettendosi alle mie spalle.
– Prego?
– È il titolo di questa collettiva… mostra collettiva. Lo spirito dei tempi.
– E quale sarebbe lo spirito dei tempi?
– Cattiveria, crudeltà, ferocia… scelga lei.
E dunque è stato lo spirito dei tempi a portarsi via Giada? È in questa direzione che volge il girotondo dei sentimenti?
Marco Lulli mi osserva perplesso quando esibisco il tesserino e gli chiedo se sia stato lui a chiamare, poco fa, Giada.
– Le è successo qualcosa?
Sembra sinceramente allarmato. Decido di sondare un po’ il terreno, prima della rivelazione.
– Quando l’ha vista l’ultima volta?
– Ieri sera. Alle diciannove. Chiudiamo sempre alle diciannove. Ci siamo salutati e dovevamo vederci un paio di ore fa, ma lei non si è presentata. Le ho telefonato, ma…
– Giada è morta.
Con poche battute, persino brutalmente, gli racconto l’accaduto. Non si tratta di sadismo, ma di un esercizio di tecnica. A meno di non trovarsi di fronte a genitori affranti o figli che al momento del delitto studiavano dall’altra parte dell’oceano, nelle prime fasi di un’indagine non si è sicuri di niente. Tantomeno del fatto che le persone piú vicine alla vittima siano estranee alla vicenda. Troppe volte mariti disperati, amanti basiti, correttissimi datori di lavoro, mogli devote e amici premurosi si sono poi rivelati i veri responsabili. Troppe maschere si sono sgretolate davanti ai miei occhi perché uno come me possa fidarsi. Io non so niente di questo Marco Lulli. E ho bisogno di sapere tutto di lui. Lo vedo impallidire, scuotere la testa, vacillare. Si puntella al tavolo da lavoro, sul quale è squadernato un registro con annotati, su ordinate file, elenchi di cifre. Poi scoppia a piangere.
Briefing del tardo pomeriggio, nel mio ufficio. Metto il telefono in viva voce. Prima il medico legale. Lavorerà sul corpo nei prossimi giorni. Per il momento, è confermata la presenza di sperma nella vagina – e anche all’esterno, precisa – e l’ora della morte è approssimativamente fissata fra le tre e le quattro del mattino. Congedo il dottore. Ascanio si schiarisce la voce e mi fa un cenno.
– Che c’è, Asca’?
– Io farei un’analisi chimica.
– Perché?
– Be’, era giovane, lavorava in mezzo agli artisti, se sa com’è quella gente, tutti mezzi sballati… magari pippava…
– Buona idea. Occupatene tu. Avvisa il Pm.
Ascanio esce, ringalluzzito. Chiamo la Scientifica. Il Dna è al sicuro, repertato e custodito. Ovviamente, in mancanza di materiale di raffronto, è inutile procedere all’analisi. Raccomando, se dovessero esserci sviluppi, la massima celerità. Dall’altra parte mi arriva un ghigno sarcastico. È il turno di Rubei. In attesa dei tabulati, sta lavorando sul cellulare di Giada. Mi dice che ha trovato qualcosa di interessante, ma prima di parlarmene vuole approfondire.
– Interessante in che senso?
– Be’, a prima vista ci sono i soliti contatti, un numero di giù, Casal come si chiama…
– Casal Velino Scalo.
– Ecco. Dev’essere di casa, la Baldoni sta controllando… Poi la galleria, voglio dire il cellulare di quel Marco Lulli che lei ha sentito…
– Sì. E poi?
– C’è un numero strano…
– Strano?
– Gliel’ho detto, devo controllare.
Rubei è il classico nerd, completo di adipe, brufoli e improvvisi rossori da fanciulla, oggetto di lazzi continui da parte della sbirraglia testosteronica. Ma nel suo campo è un’autorità. Può persino vantare un passato nell’antiterrorismo. La sua pagina nera. Si è fatto trasferire a domanda dopo una clamorosa rottura con i cacciatori di anarchici. Una storia mai chiarita di software alterati a fini di giustizia. Vale a dire per incastrare degli innocenti. Da allora s’è fatto estremamente prudente, e prima di rilasciare un’informazione effettua decine di controlli. Ma quando l’informazione arriva, potete star certi che è quella giusta. Inattaccabile.
– Sta bene. Ma fai in fretta.
Rubei annuisce. E senza ghigno sarcastico.
Ascanio rientra. Fra uno sbuffo e un grugnito comunica le cattive nuove.
– Il Pm ha dato l’ok. Ma per il resto… la donna delle pulizie non sa un cazzo.
– Uomini?
– Gliel’ho chiesto e si è incazzata. Mi ha risposto che non si metteva ad annusare la biancheria intima della signorina. Non faceva parte dei suoi compiti. Però, dotto’, una come quella… se l’immagina lei senza un uomo? O piú uomini?
– Era laureata e lavorava in una galleria d’arte.
– Ma alle volte, sa com’è, per arrotondare…
– Piantala, Asca’. Non è sempre vero che a pensare male ci si azzecca.
– E te pareva!
– I vicini?
– I vicini… boni, quelli. ’Na manica de mausolei, a momenti per entrare in casa dovevo sfondare la porta. Niente ho visto, niente ho sentito.
– La portiera?
– Per la verità, una portiera c’era, poi i condomini l’hanno mandata via. Per risparmiare.
– Videocamere?
– Ce ne sarebbe una sul portone d’ingresso, ma i condomini non si sono accordati sulle spese, così non è mai stata attivata.
– La fortuna non ci assiste.
– Se è per questo, dotto’, due anni fa in un altro palazzo, proprio all’angolo della strada, decisero di metterci un’altra videocamera…
– E?
– E poi si è rotta e nessuno l’ha fatta riparare. Pare che siano in causa.
– Di bene in meglio!
La Baldoni entra senza bussare, com’è suo solito. La sovrintendente Carlotta Baldoni è alta uno e ottanta, corti capelli neri, fisico palestrato, atteggiamento imperioso e impudente. Nella sbirraglia gode fama di lesbica. Non sanno quanto si sbagliano. Squadra freddamente Ascanio, ai suoi occhi il capo di un’orda machista da distruggere con ogni mezzo, e relaziona sulla famiglia della vittima.
– Orfana di entrambi i genitori. Ha una sorella piú grande di due anni, che ha avuto la notizia dalla televisione prima che potessimo avvisarla. Stasera stessa verrà a Roma.
– Altro?
– Per il momento, niente.
La liquido con un vago ringraziamento, e violando il divieto di legge e sfidando i sensori mi accendo l’ennesima sigaretta. Ascanio interpreta il fumo come un gesto di apertura. Si precipita ad aprire la finestra – il tramonto è ormai calato, l’aria si va rinfrescando – e mi si piazza davanti, corroso dalla curiosità.
– Allora, dotto’?
– Allora cosa?
– Quel tipo, Lulli, il gallerista…
– Ha identificato l’arma del delitto. In fotografia. Nei prossimi giorni provvederemo a una ricognizione formale. È come pensavamo: la palla mancante della scultura. Pare che sia un piccolo capolavoro.
– E che ci faceva a casa della vittima?
– Dono dell’artista. Ascanio s’illumina tutto. La classica «intuizione investigativa».
– C’avevano una storia, dotto’. E lui l’ha ammazzata, – e sottolinea con un gesto osceno.
– L’artista è gay.
Ascanio si smonta, deluso e irritato.
– E che cazzo! E il gallerista?
– Pure lui.
– No!
– Proprio così. Marco Lulli è gay. Ha contratto regolare matrimonio col suo compagno in Spagna.
– Ma porca puttana! ’Na monaca e ’na banda de froci! Ma si può essere piú… Almeno di lei avete parlato, co’ ’sto Lulli?
– Giada era una brava persona. Competente, molto colta. Una grande venditrice. Vita privata molto riservata. Nessuna relazione nota.
– Tutto qui?
– Tutto qui. Domani facciamo un altro giro di interrogatori. Io, intanto, preparo la prima informativa per il Pm.
Ascanio esce bestemmiando. Spengo la sigaretta e chiudo la finestra. Comincio stancamente a redigere l’informativa. C’è molto di lei che non finirà in queste pagine. Tutto quello che non ho detto ad Ascanio e che non riporterò al Pm. Non metterò per iscritto se non una breve, neutra sintesi delle due ore di conversazione con Marco Lulli. Non racconterò la gioia che Giada irradiava intorno a sé. La sua freschezza. La forza di quel sorriso che ammaliava i clienti. Era la persona piú sincera che abbia mai conosciuto, dottor Brandi. Sincera sino all’eccesso, e solare. Una persona speciale. Detesto l’aggettivo «solare» quando viene riferito a un essere umano. Detesto anche l’altro aggettivo: speciale. Per Lulli, Giada era solare e speciale. Lulli è sincero, ma nello stesso tempo mente. Perché? Non riesco a spiegarmelo. Sono certo che non c’entri col delitto, e forse non mi ha mentito deliberatamente, ma sento che qualcosa di molto profondo, di rilevante, mi sfugge. Questa dannata relazione non vuol saperne di lasciarsi addomesticare. Ma non posso riferire le mie «sensazioni». Al processo farebbero a pezzi l’indagine. E farebbero a pezzi me. Torno a compulsare, per l’ennesima volta, le fotografie della scena del delitto. Il quadro continua a tormentarmi. Quegli occhi continuano a tormentarmi. Perché il trompe-l’œil? Dove sta l’inganno? Noto un dettaglio che non avevo colto prima, come un tratto di pennarello, poco sotto lo sbuffo di sangue. Ingrandisco finché l’immagine non è sgranata. Mi pare di scorgere delle lettere. Ash-X. Forse la firma dell’autore? Vado in rete. Ash-X è un artista quotato. Dietro lo pseudonimo si nasconde un quarantenne di Urbino. Mando una mail al suo indirizzo ufficiale. La risposta è immediata. Un messaggio automatico mi informa che il sito è in ristrutturazione e l’indirizzo temporaneamente disattivato. Chiamo Marco Lulli. Non è sorpreso di sentirmi. Ha la voce stanca. In sottofondo, le note di un blues straziante.
– Che mi sa dire di un certo Ash-X?
– È un bravo artista. Un po’ matto.
– Può mettermi in contatto con lui?
Sospira, tirando su col naso.
– È un tipo particolare. Sparisce per lunghi periodi. Al momento dovrebbe essere in Sudafrica.
– Ha un telefono, un recapito qualunque?
– Proverò a rintracciarlo.
Ma il quadro continua a tormentarmi. La Piccola Fiammiferaia e la ragazza morta. L’inganno dello sguardo mobile. Lei e l’altra. Ma l’altra è la stessa, e qual è la vera Giada, quale la Piccola Fiammiferaia? Sono loro la storia. Gli occhi della bambina e quelli di Giada. Sono loro la storia. Anche se la scena sembra preludere a un dramma imminente, quegli occhi comunicano un’aspra freddezza. Sono occhi avidi, di chi vorrebbe dilaniare la vita a morsi. La Piccola Fiammiferaia è diventata cattiva. E col suo sguardo mobile segue ogni cambiamento della realtà circostante, pronta a coglierne il massimo profitto. La Piccola Fiammiferaia si è messa al passo con lo spirito dei tempi. E i suoi occhi sono quelli di Giada. Hanno lo stesso riflesso rapace. E comprendo che cosa Marco Lulli mi ha involontariamente taciuto, e comprendo che il bravo e sensibile mercante d’arte non ha colpa. Ci sono cose che non accettiamo. Marco Lulli ha una storia troppo diversa per capire la determinazione di una ragazzina nata nello sprofondo che una mattina si presenta in una galleria del centro di Roma e seduce un riservato omosessuale convincendolo a darle una possibilità. Ciò che Marco Lulli non può sapere è l’origine della forza irresistibile a cui si è piegato. C’è chi lo chiamerebbe coraggio e chi ferocia. Personalmente, appartenendo alla stessa categoria umana, propendo per la seconda. Giada. Ti immagino soffocata nel piccolo mondo angusto del paese, abbarbicata con una tenacia indomabile al tuo sogno di successo. Ti immagino pronta a tutto. Disposta ad alternare menzogna e verità, a dispensare doni e punizioni, a blandire e a colpire. Emi chiedo: da che passione sei stata ferita, alla fine, a morte? Dall’amore o dall’odio? Siamo nati a pochi chilometri l’uno dall’altra, Giada, e tutti e due siamo approdati in questa città eternamente carogna per conquistarla e farla nostra. Che ne sarebbe stato di me se ci fossimo incontrati? Sarei caduto ai tuoi piedi? O ci saremmo annusati e, dopo il riconoscimento reciproco, scansati con la paura che si prova per chi è troppo simile a noi? Quell’artista, Ash-X, ha visto lontano. Devo rintracciarlo.
– C’è uno che vuole parlarti. Dice che ha notizie sull’omicidio.
Non ho sentito arrivare la Baldoni, che mi fissa con un’espressione curiosa.
– Qualcosa che non va? Ti vedo strano.
– Niente. È questa maledetta informativa. Quando non hai niente da dire ti viene difficile dirlo con poche parole.
– Magari questo tizio ci dà qualche dritta. O magari confessa, hai visto mai.
– Fallo entrare.
Un’ora dopo siamo al Foxy, un club al Monte dei Cocci dove si beve, si fa musica e si balla. È ancora presto perché la movida diventi una cosa seria. La gioventù che prende d’assalto i localini di Testaccio è impegnata nella fase dell’accumulo. Si carica di energia elettrica per sfogarsi nella notte complice. In capo a un paio d’ore qui non ci sarà spazio neppure per respirare. E tantomeno per pensare. Il tipo si chiama Daniele qualcosa, e sostiene di aver visto Giada proprio qui al Foxy. Era sola, ha bevuto un bicchiere, poi è uscita per rientrare dopo qualche istante.
– L’ho notata perché non era una che passava inosservata. Poi ho visto la fotografia in rete e ho pensato che forse l’informazione poteva servirvi…
Ce lo siamo portato appresso, io e la Baldoni, perché non si sa mai. Forse il giovanotto è in buona fede, sinceramente intenzionato ad agevolare le indagini su un clamoroso caso di omicidio, o forse ha qualcosa da nascondere. Meglio tenerselo stretto con le buone finché non ci vediamo chiaro. Il locale è una specie di cantina, pareti rosse, musica dal volume ancora accettabile, tavolini, qualche avventore in anticipo che si guarda intorno. Sono tutti ragazzi, appena qualche anno meno di me e della Baldoni, che comunque, come Giada, non passa inosservata. Mentre Daniele si prende un gin tonic, facciamo girare fra il personale la foto di Giada. Una barman col piercing dice che la faccia non le è ignota, poi la riconosce.
– È quella che hanno ammazzato con la botta in testa, no? Ecco dove l’ho vista! Su Internet.
Se ci fosse Ascanio, partirebbe col suo elogio del buon tempo andato, quando le indagini si facevano con una certa riservatezza, senza tanti esperti e tabulati fra i piedi (fra i coglioni, direbbe, per la verità) e con un po’ di cervello e due schiaffoni ben assestati il colpevole finiva per confessare. Poi concluderebbe con una filippica contro la contemporaneità. Anche lui sofferente per lo spirito dei tempi. Ma Ascanio non era il caso di coinvolgerlo, non quando ci sono dei giovani di mezzo. Come molti della sua razza, Ascanio detesta i giovani. Forse per invidia. Forse perché, ogni volta che si imbatte nei loro riti, si sente defraudato di qualcosa. Ma insomma, stiamo perdendo tempo. Il Foxynon è uno di quei posti per pochi intimi che si conoscono fra loro e sanno riconoscersi. Il Foxy, fra un po’, diventerà una bolgia di rumori e sudori. Meglio tentare un’altra strada. Mi faccio scortare dalla barman nell’ufficio del direttore, un cinquantenne secco e tatuato, e per una volta la fortuna è dalla nostra. Sì, ci sono le telecamere all’esterno. E, sì, i nastri li conserviamo per tre giorni, dunque quelli di ieri notte ci sono. Quando gli chiedo di consegnarmeli, inalbera un’espressione perplessa.
– Non ci vorrebbe un mandato, scusi?
– Come si chiama lei?
– Pieri Ottavio, ma cosa c’entra…
– Risolviamo la questione fra noi o devo chiamare Peppe?
Pieri Ottavio impallidisce. Sto giocando d’azzardo, ma entro certi limiti. Il Foxy, ufficialmente intestato a una società di facciata, è in realtà il fiore all’occhiello delle proprietà di Peppe Scansa, boss emergente di medio calibro. Un solo precedente per piccolo spaccio, da minorenne. Poi un evidente salto di qualità, sostenuto da vispa parlantina, decisione, uno stuolo di ottimi avvocati. Peppe Scansa è sicuramente il tipo da usare telefoni criptati. Ma se fosse coinvolto in qualche modo nell’assassinio di Giada, al Foxy non esisterebbero telecamere e al nostro ingresso sarebbe scattato l’allarme. Il solo fatto di essere qui a parlarne con questo coatto rivestito da prestanome mi suggerisce che Peppe non ha niente a che vedere con l’omicidio.
– Mi scusi un attimo, commissario.
Pieri Ottavio scompare dietro una tendina color blu notte. Si riaffaccia cinque minuti e due sigarette dopo. Rinfrancato, mi porge sorridendo un pacchetto.
Quando l’hard disk è nelle nostre mani, la tentazione di dare subito un’occhiata è forte, quasi irresistibile. Ascanio non si farebbe scrupoli, in una simile circostanza. Ma commetteremmo un grave errore. Se quelle immagini contengono le prove di un crimine, un giorno finiranno tra le grinfie di un’agguerrita batteria di avvocati pronti a giocarsi il piú squallido cavillo pur di strapparci dalle mani un assassino. Quindi la visione deve procedere nel rispetto delle regole. In poche parole, se ne parla domani.
– Allora, – mi fa la Baldoni, – qui abbiamo finito.
– Io ho finito. Tu senti comunque il gestore, i barman e fatti un giro qua intorno, se vedi qualche tipo interessante prendilo a sommarie informazioni. Io deposito il materiale in ufficio e me ne vado a nanna.
Lei mi guarda, delusa, e il suo tono è piccato.
– Pensavo che dopo una dura giornata di lavoro avremmo bevuto una cosa insieme.
– Puoi sempre rifarti col giovane Daniele.
– Non è il mio tipo.
– Allora digli grazie e mandalo a casa. Tanto con questa storia non c’entra niente.
Così mi ritrovo nelle mie due stanze con terrazzino in via Domenico Comparetti, nel quartiere Talenti, con un goccio di whisky e un vecchio film che scorre, a sonoro muto, steso su un divano Ikea in attesa del sonno del giusto. Ed è in questa posizione che mi sorprende lei. Giada. Ha gli occhi scintillanti e la lingerie rossa, con uno spacco laterale che lascia baluginare un lembo della coscia pallida. Senza dire una parola si siede accanto a me e comincia a baciarmi. Ma quando faccio per accarezzarla si ritrae. Nelle sue mani è comparsa una scatola di fiammiferi. Ne prende uno e lo sfrega lentamente. Di colpo le fiamme invadono la stanza. Mi sveglio di soprassalto. Telefono alla Baldoni.
– Ce ne hai messo di tempo per deciderti!
– E tu sei ancora sola o hai trovato compagnia?
– Fra mezz’ora sono da te.
Quando lei arriva, ci prendiamo con la furia dei cani. Mentre le scivolo dentro, immagino di possedere Giada. Mi sforzo di farlo per evitare di ammettere la verità: è lei, Giada, che ha preso possesso di me.
I filmati delle telecamere di sicurezza sono fra le piú raffinate torture che la tecnologia ha deciso di infliggere agli sbirri. Mezz’ora di immagini a scatti, sfocate, alonate di ogni sorta di riverbero, a dir poco confuse, se non indecifrabili, e anche il peggior bastardo, diciamo un Ascanio qualunque, si è guadagnato il posto in paradiso. Il materiale del Foxy non fa eccezione alla regola. Ci vuole l’abilità di Rubei per dare un senso a quell’accozzaglia di fotogrammi che sembrano partoriti dalla mente distorta di un regista d’avanguardia sotto metanfetamina. Siamo nel mio ufficio, e procediamo alla visione debitamente assistiti dal decreto di acquisizione e da ogni sorta di autorizzazione firmata dal Pm Felicisanti. C’è la squadra al completo: Rubei che governa la macchina, la Baldoni che, protetta dalla scrivania, ogni tanto mi afferra la coscia, e Ascanio, che sbuffa come un tricheco e mormora fra sé e sé bestemmie sin troppo intellegibili quando i tempi morti si prolungano. Il fatto è che se vai in Ffw rischi di perderti qualche dettaglio rilevante, e quindi la sbobba devi sciroppartela tutta. Da qui la tortura. Passa un’ora, ne passano due. Poi finalmente succede qualcosa. Il timer segna le 22.25:56 quando una figura femminile attraversa l’inquadratura. Nell’istante in cui sta per varcare la soglia del Foxy, si volta, quasi per mettersi in posa, rivelando il volto all’occhio elettronico.
– È lei! È Giada!
Ho urlato, senza rendermene conto. La Baldoni mi lancia un’occhiata strana.
– Sì, – conviene, – in effetti c’è una certa somiglianza…
Ordino a Rubei di ingrandire, ingrandire ancora, sino al limite della sgranatura. Il volto di Giada occupa l’intero schermo sul quale proiettiamo le immagini rimandate dal pc di Rubei. L’eccitazione si impossessa di noi. Da questo momento in avanti seguiremo secondo per secondo i movimenti di gente anonima, frugheremo in quell’angolo di strada in cerca della traccia giusta, ispezioneremo ogni frammento delle scene a venire in cerca della rivelazione decisiva… L’unico immune sembra Ascanio.
– Cazzo. La vedo lunga.
– Secondo il medico legale l’hanno ammazzata fra le tre e le quattro, – gli ricordo.
– So’ sempre come minimo quattro ore, commissa’. A meno che ’sta stronza non s’è data ’na mossa…
Reprimo la voglia di prenderlo a cazzotti. Ma come si permette di parlare così di lei? Perché… già. Perché me la prendo tanto a cuore per un commento che avrò sentito ripetere chissà quante volte? Un commento che non ha niente di personale. Io stesso quante volte ho detto, o pensato, cose simili? È la rabbiosa frustrazione dello sbirro di razza che vuole mettere la parola fine a una brutta storia. E poi tornarsene a un mondo piú degno e meno orribile, dove non si spaccano le teste alle ragazze e tutti vissero felici e contenti. È, a suo modo, quel commento, un atto d’amore e di fede. No, non ci siamo, Brandi. Sta succedendo qualcosa di pericoloso. Quel mondo immaginario non esiste. E comunque, se esiste, non è disposto ad accogliere uno sbirro feroce come te. E il tuo compito resta sempre e solo uno: dare un volto e un nome all’assassino.
Rubei si schiarisce la voce.
– Posso fare un tentativo, dottore?
– Che tentativo?
Rubei fruga tra i suoi appunti, poi fa scorrere le immagini sino alle 23.07. Un capannello di fumatori si scambia battute fuori dal locale. Un uomo il cui aspetto stride con il côté giovanilista dell’ambiente compulsa nervosamente un orologio da polso. Un uomo massiccio, tarchiato, non troppo alto, che indossa quello che ha tutta l’aria di essere un cappotto di alta sartoria. Ascanio sbotta.
– Rube’, ma che cazzo fai? Qua non succede niente…
– Forse mi sbaglio, ma…
Ma esattamente quarantaquattro secondi dopo, come per un miracolo annunciato, ecco che Giada esce dal locale. Non ha piú il giubbotto che aveva al momento dell’ingresso, regge in mano un bicchiere.
– Ma come cazzo hai fatto…
Lo stupore di Ascanio è il nostro comune stupore. Rubei ferma l’immagine e, tanto per non smentirsi, arrossisce.
– La telefonata… o meglio, l’sms. È delle 23.07, quarantaquattro secondi prima che lei esca.
– E che dice? Che dice ’sto sms?
– Un attimo, voglio essere preciso. Ecco qua: «Sono fuori, ti aspetto. MV».
– MV?
– MV tutto maiuscolo.
– E che è, ’na moto?
– Sembra un nome e cognome.
Interrogo Rubei sui tabulati.
– Abbiamo un problema, dottore. Si ricorda che le avevo parlato di una cosa strana?
– Be’?
– È stranissima. Non riesco a risalire al numero.
– Che cazzo vuol dire «non riesco a risalire al numero»? Tutti i cellulari hanno ’sto codice Imei, o come diavolo si chiama. È l’abc. Che te sei rincojonito, Rube’?
Rubei, sempre piú rosso in volto, fissa Ascanio con il massimo dell’odio che un bravo ragazzo come lui è in grado di esprimere. E infatti, piú che odio sembra condiscendenza.
– Non tutti, – spiega, – ci sono apparecchi che rigenerano l’Imei a ogni nuovo contatto. Si chiamano stealth phones e servono, appunto, per mascherare l’identità del chiamante.
– Roba de servizi segreti! – trasecola Ascanio. – Oh, ma con chi scopava ’sta stronza? Co’ Obama?
– O con un malavitoso, – suggerisce la Baldoni.
– O con quel tipo là, – dico, indicando col dito, sullo schermo, l’uomo anziano in mezzo ai ragazzi.
Rubei, che sembra avermi letto nel pensiero, riavvia le immagini.
Giada si guarda intorno, individua l’uomo col cappotto e gli va vicino. I due si parlano. Il tono sembra animato. A un certo punto lui le posa una mano sul braccio, e lei lo respinge, con un gesto secco. L’uomo torna a farsi avanti. Lei inclina la testa all’indietro. Giurerei che lascia partire una risata cattiva, acida. Poi gli volta le spalle e torna nel locale. L’uomo scuote la testa e si allontana, senza seguirla. Ascanio è fuori di sé.
– Oh, ma che è, la giornata del mago Silvan? Mo’ ce devi di’ com’è che l’hai beccato. Perché che hai tirato a indovinare non ci credo!
– Erano tutti giovani, e quello era l’unico di una certa età.
– L’amante maturo, – chiosa la Baldoni.
– Allora l’abbiamo beccato! – trionfa Ascanio. – Amante maturo, telefono segreto, un boss, o che so, uno spione, comunque un figlio di puttana. Lei lo manda in bianco, lui va a casa, l’aspetta e l’ammazza.
– Ha una sua logica, non c’è che dire. E torna col quadro d’insieme.
– Vediamo di dargli un volto, a questo mister MV, Rubei.
Ma ogni tentativo è vano. Rubei taglia, isola, definisce: niente. Di questo individuo che forse ha spaccato il cranio a Giada non abbiamo che una descrizione vaga. Sembra anziano e corpulento, veste elegantemente. O è un autentico professionista, e l’uso del telefono criptato lo lascerebbe presumere, o ha avuto una fortuna sfacciata, e ha schivato per puro caso le videocamere.
– E adesso che si fa?
La Baldoni dà voce allo scoramento collettivo. Prendo in mano la situazione, come è compito del capo, e illustro le prossime mosse. Acquisire i filmati di eventuali altre videocamere presenti in zona per evidenziare se l’uomo aveva una macchina, se è stato comunque inquadrato, e via dicendo. Cercare di identificare i ragazzi che stazionavano fuori dal Foxy per vedere se qualcuno si ricorda della scenata fra Giada e il misterioso individuo.
– E il telefono? – insiste Ascanio. – Voglio di’, vabbè che rigenera l’Imei, ma insomma, qualcuno gliel’avrà venduto, a ’sto stronzo. Facciamo un’indagine a tappeto, no? Il numero c’è?
– È una scheda americana, di quelle che si comprano senza documenti.
– E te pareva.
– Possiamo avviare una rogatoria internazionale, ma ci vorrà tempo, – aggiunge Rubei, – questa roba la vendono poche ditte selezionate, e dovremmo conoscere l’Imei originale…
– Puoi provare? – lo incalzo.
Rubei annuisce, e subito dopo precisa: non garantisco i risultati. A volte ci si riesce, poi magari viene fuori che a comperare l’apparecchio è stato un prestanome, un rumeno, uno che per dieci euro ha mostrato un documento… e siamo punto e daccapo.
– Ehi, guardate un po’ qua…
Mentre noi eravamo intenti a concionare, e io distribuivo compiti che forse si sarebbero rivelati inutili, le immagini scorrevano. La Baldoni ha buttato un occhio e lanciato un grido eccitato. Giada è ricomparsa sullo schermo. Con lei c’è un ragazzo che indossa uno zuccotto di lana. Alto, molto alto e dinoccolato.
Controlliamo piú volte la scena. Non ci sono dubbi. I due si incamminano insieme. Per un istante, il volto del maschio finisce sotto l’occhio della camera.
– È un negro! Cazzo, se la faceva coi negri!
Nemmeno la Baldoni, che di solito non gliela fa passare liscia, questa volta obbietta. Ascanio ha colto il punto. Di colpo, il misterioso amante maturo esce di scena e il sospettato numero uno diventa un ragazzo di colore. Quello che alle 23.42 ha lasciato il locale insieme alla vittima.
– Guarda chi c’è! – fa sarcastica la Baldoni.
Appoggiato al bancone del Foxy, ancora semideserto, Tagliaboschi prende appunti sul suo leggendario Moleskine. Se il decano della «nera» romana è sceso in pista, vuol dire che la notizia dell’avvistamento di Giada è già trapelata. Mi chiedo se la gola profonda sia uno dei nostri. Non ci sarebbe niente di strano: questa è Roma, ragazzi, il pettegolezzo qui lo intendono come un’arte sublime, e «segreto» è una parola sconosciuta. Fatti simili accadono ogni giorno, non c’è niente di sconvolgente. Sono modeste rotture di coglioni finché riguardano la gente comune. I problemi sorgono quando la «soffiata» coinvolge qualche personalità in vista. Allora si scatenano le immancabili polemiche sul segreto istruttorio, si annuncia la caccia serrata ai responsabili, e per un po’ di tempo scoprire chi ha cantato diventa decisivo. Quasi piú importante di dare un volto e un nome all’autore del crimine. Poi, passato qualche giorno, tutti se ne scordano. Ipocrisia, gioco delle parti, chiamatelo come vi pare. Mentre la Baldoni, con una certa discrezione, comincia a far girare la foto del ragazzo che Rubei ha estrapolato dai nastri delle videocamere, mi avvicino a Tagliaboschi e gli metto una mano sulla spalla. Il cronista è un cinquantenne piccolo, nervoso, avvolto da un sentore di nicotina e sudore. Si irrigidisce al mio tocco, ma lo placo con un sorriso affabile e l’offerta di un drink, che accetta prontamente.
– Le notizie volano a Roma, eh, Tagliabo’?
Il cronista si rilassa. Parlottiamo per un po’ come vecchi amici davanti a due spritz. Ha già intervistato la sorella della morta, che definisce «un tipo ordinario», niente a che vedere, aggiunge, con quel pezzo di fica di Giada. Il ritratto agiografico della vittima, confida, contrasta con la sua presenza in un club, diciamo così, «particolare», come il Foxy.
– Perché particolare?
– Andiamo, Brandi, non mi dire che non lo sai! È roba di Peppe Scansa.
Tagliaboschi ha scambiato il mio silenzio per una doverosa copertura del segreto.
– Allora, lo posso scrivere che lei è stata vista qua poco prima di essere uccisa?
– Servirebbe a qualcosa se ti dicessi di no?
– E di Peppe Scansa?
– In che senso?
– Be’. Lo sanno tutti che questo locale è suo. C’entra qualcosa?
– Facciamo così. Ti autorizzo a scrivere che il locale, e la sua gestione, sono estranei all’accaduto.
– Sicuro?
– Sicuro.
– Ti devo un favore. Intanto, scriverò che gli uomini agli ordini del commissario Brandi indagano in tutte le direzioni. Alla tua!
Quando solleva il bicchiere con il liquido color arancione gli blocco il braccio a mezz’aria.
– Do ut des, Tagliaboschi.
– E te pareva. Sarebbe a dire?
– La soffiata. Da chi l’hai avuta?
Tagliaboschi prende tempo. Finge di meditare. Ma sa meglio di me che il giochino delle informazioni riservate funziona in entrambi i sensi. Do ut des, appunto. Quando l’attesa gli sembra sufficiente a salvare la faccia, fa il nome. A contattarlo è stato Daniele, il ragazzo che ha messo noi per primi sulla strada giusta.
– S’è fatto dare duecento euro. In fin dei conti, niente di che.
– Grazie. Siamo pari. E ora levati dalle scatole, stiamo lavorando.
Mentre il giornalista ripiega, e finisco il mio spritz, mi scopro a pensare che in fondo siamo parte di un comune ingranaggio. Tagliaboschi ha la sua notizia, il ragazzo il suo compenso, noi la nostra pista investigativa. Ognuno guadagna qualcosa, e non ci sono perdite. Il tutto ha un che di meschino, di miserabile? Può essere. Ma se si esamina la questione sotto un diverso punto di vista, non solo queste sono le regole del gioco, ma funzionano pure. Diciamo che la trivialità è un piccolo prezzo da pagare allo spirito dei tempi. Chissà perché l’espressione di Marco Lulli continua a ronzarmi in testa. Lo spirito dei tempi. La Baldoni mi strappa alle mie riflessioni.
– Vieni. È importante.
Nell’ufficio di Pieri Ottavio ora siede Peppe Scansa in persona. Scuro, massiccio, in giacca e cravatta, coi capelli rasati a zero, la barba incolta e un sorriso mellifluo sul volto tondeggiante, sembra l’incrocio tra un figurante della serie Gomorra e un jihadista in libera uscita. Con una mano zeppa di anelli regge un bicchiere di whisky, con l’altra sventola la foto ingrandita del ragazzo nero.
– Si chiama Amadou o qualcosa di simile. È senegalese, o comunque africano. Prima che lei me lo chieda, commissario: spaccia.
– Che genere di roba?
– Un po’ di tutto. Coca, ecstasy, meth, speed, quello che gli capita fra le mani. Una volta l’abbiamo pizzicato con del crack e gli abbiamo fatto capire che non era il caso di farsi vedere da queste parti.
– Immagino i sistemi, Peppe.
– Come direste voialtri? Ordine pubblico. Quello stronzo qua dentro non può mettere piede.
– Ma davvero! L’altra sera era qua, guarda caso. E s’è allontanato con una ragazza che poco dopo è stata ammazzata.
Peppe aggrotta le sopracciglia e alza le mani, come in segno di resa.
– Ho già provveduto perché la cosa non si ripeta. D’altronde, lei lo sa meglio di me, commissario, di questi tempi gira certa gentaglia…
– È lo spirito dei tempi, – commento, a mezza voce.
Peppe annuisce vigorosamente.
– Vedo che ci capiamo!
La Baldoni, che sino a questo momento è rimasta in disparte, ne ha abbastanza.
– Sai dove possiamo trovarlo?
Peppe la fissa, come se la vedesse per la prima volta. E mi rivolge un sorriso cattivo, da professionista della strada.
Continua a leggere…
Gli autori
Cristina Cassar Scalia è nata nel 1977 ed è originaria di Noto. Medico oftalmologo, attualmente vive e lavora a Catania. Ha pubblicato per Sperling & Kupfer La seconda estate (2014, Premio Internazionale Capalbio Opera Prima) e Le stanze dello scirocco (2015). Per Einaudi ha pubblicato Sabbia nera (2018), di cui sono già stati opzionati i diritti per il cinema e la tv, La logica della lampara (2019) e La Salita dei Saponari (2020).
Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956), è magistrato, drammaturgo, sceneggiatore. Ha scritto molti romanzi (il più noto è di certo Romanzo criminale, edito nel 2002 per Einaudi e vincitore l’anno successivo del Premio Scerbanenco: da questo libro Michele Placido ha tratto un celebre film, seguito poi da una serie tv), sceneggiature per cinema e televisione e testi teatrali. Collabora a quotidiani e a riviste come, tra le altre, «la Repubblica», «Il Messaggero», «L’Unità» e «Corriere della Sera Magazine». Nel giugno del 2007 esce nelle librerie Nelle mani giuste, ideale seguito di Romanzo criminale, ambientato negli anni ’90, dal periodo delle stragi del ’93, a Mani Pulite e alla fine della cosiddetta Prima…
Maurizio De Giovanni
Nato nel 1958 a Napoli, è autore della fortunata serie di romanzi con protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta, su cui è incentrato un ciclo di romanzi, tutti pubblicati da Einaudi, che comprende finora: Il senso del dolore (2007), La condanna del sangue (2008), Il posto di ognuno (2009), Il giorno dei morti (2010), Per mano mia (Einaudi, 2011), Vipera (2012, Premio Viareggio, Premio Camaiore), Anime di vetro (2015) Serenata senza nome (2016), Rondini d’inverno (2017) e Il purgatorio dell’angelo (2018). Insieme a Sergio Brancato ha pubblicato due graphic novel sulle inagini del commissario Ricciardi: Il senso del dolore. Le stagioni del commissario Ricciardi (Sergio Bonelli 2017) e La condanna del sangue. Le stagioni
- Tre passi per un delitto
- Cristina Cassar Scalia, Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni
- Editore: Einaudi
- Collana: Einaudi. Stile libero big
- Anno edizione: 2020
- In commercio dal: 14 luglio 2020
- Pagine: 200 p., Brossura
- EAN: 9788806243586. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/tre-passi-per-delitto-libro-vari/e/9788806243586″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 16,15[/btn]