L’epopea omerica del viaggio di Ulisse e la fuga da Capo Malea
ULISSE E LA FUGA DA CAPO MALEA: TRA OBLIO E RITORNO
di Riccardo Alberto Quattrini
Un viaggio tra mito e storia: dalla lotta contro i venti di Poseidone al fascino insidioso del loto dei Lotofagi
Ulisse fugge da Capo Malea: Un viaggio tra mito e geografia
Nel libro IX dell’Odissea (vv. 82-102), Omero racconta uno dei momenti più significativi del viaggio di Ulisse: la fuga da Capo Malea. Questa narrazione non è solo un episodio geografico, ma un racconto simbolico che incarna le difficoltà di Ulisse nel raggiungere la sua meta, la patria. Capo Malea, situato nel sud-est della penisola del Peloponneso, rappresenta un punto critico per i navigatori antichi, notoriamente insidioso per le sue tempeste improvvise e le forti correnti. In questi versi, Ulisse è costretto a deviare dalla sua rotta a causa dei venti contrari inviati da Poseidone, il suo eterno antagonista divino.
«E quando ormai doppiai Malea, i venti mi trascinarono a Citerà» (IX, 81-82): con queste parole Omero evidenzia come la forza della natura si ponga come un ulteriore ostacolo per l’eroe. La deviazione da Capo Malea porta Ulisse a perdersi ancora di più nel mare aperto, ritardando il suo ritorno. Ma questa fuga è anche un espediente narrativo per introdurre uno degli incontri più enigmatici del poema: quello con i Lotofagi.
Ulisse descrive così l’isola di Malea
Malea gli appare come un’isola lontana e misteriosa, circondata da un’atmosfera surreale. È un luogo che sembra sospeso nel tempo, dove la natura è opulenta e abbondante, ma al tempo stesso letargica, quasi soffocante. L’aria è densa di profumi dolci, il terreno è fertile e rigoglioso, ma questa fertilità non è vivace: trasmette un senso di torpore e immobilità.
Ulisse in seguito viene a conoscenza che gli abitanti dell’isola si chiamano Lotofagi, cioè popolo dei mangiatori di loto. Questi vivono in uno stato perpetuo di oblio, dimenticando ogni senso del tempo e le proprie responsabilità. Consumano il loto, un frutto dolce e narcotico, che cancella ogni desiderio di azione o di ritorno alla realtà.
Ulisse osserva con preoccupazione come il loto intrappoli la mente, togliendo ogni spinta verso il viaggio e l’avventura.
Metafora della tentazione e della fuga:
L’isola diventa un simbolo potente: un luogo di seduzione mentale, dove gli individui possono sfuggire alla realtà e alle difficoltà della vita. Tuttavia, Ulisse riconosce che questo stato di indolenza non è libertà, ma piuttosto una forma di prigionia dolce e insidiosa. La sua reazione è duplice: un’iniziale attrazione per la pace che l’isola sembra offrire, seguita dalla consapevolezza che cedere a essa significherebbe perdere la propria identità e il senso del viaggio.
La misteriosa popolazione dei Lotofagi non ha incuriosito solo Omero, ma è stata oggetto di riflessione anche per autori successivi, come Erodoto, Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, descrive il loto come una pianta dalle proprietà alimentari, legandola alle abitudini dei Lotofagi. Strabone, dal canto suo, colloca questa popolazione nel Nord Africa, evidenziando l’importanza geografica del loto nella loro dieta.
L’incontro con i Lotofagi, descritto da Omero, non è un episodio isolato nella letteratura antica. Diverse opere, sia classiche che moderne, hanno esplorato il mito, ampliandone i significati o ricollegandolo a contesti geografici e culturali specifici.

Il loto e l’oblio dei compagni
Nella narrazione omerica, i compagni di Ulisse che mangiano il loto cadono in uno stato di oblio e apatia: dimenticano il desiderio di tornare a casa e smettono di preoccuparsi del futuro. Questo è espresso chiaramente nei versi:
«E chi di loro mangiava il dolce frutto del loto, non voleva più portare notizie né tornare, ma restare lì con i Lotofagi, a mangiare loto, dimentico del ritorno.» (IX, 94-96).
Il loto, in questo contesto, rappresenta una tentazione pericolosa, una sorta di “pozione” che elimina il senso di responsabilità e il desiderio di ricongiungersi alla propria identità (la patria). Questa debolezza si riflette nella condizione umana più ampia: la facilità con cui ci si lascia sopraffare dall’indolenza e dalla tentazione dell’oblio.
Il loto e le droghe: il desiderio di fuga.
Ulisse, invece, non cede alla tentazione di mangiare il loto. La sua fermezza dimostra il tratto distintivo dell’eroe omerico: la capacità di resistere alle insidie del viaggio e di mantenere il focus sull’obiettivo finale, il ritorno a Itaca. Ulisse agisce rapidamente e con determinazione:
«Io li ricondussi piangenti alle navi, e li trascinai sotto i banchi. E ordinai agli altri compagni fedeli di salire subito sulle navi ben costruite, perché nessuno mangiasse il loto e dimenticasse il ritorno.» (IX, 97-102).
Ulisse non è spaventato dai Lotofagi in sé, ma è profondamente consapevole del pericolo rappresentato dalla loro offerta. La sua calma e risolutezza sottolineano la sua intelligenza e la capacità di discernere il vero rischio: non un nemico violento, ma la seduzione di un’esistenza priva di lotta e significato.
Questo episodio è emblematico del carattere di Ulisse, che privilegia la missione e il ritorno a casa rispetto alle sirene della comodità e dell’oblio.
Ulisse non si limita a salvare i compagni che hanno già ceduto, ma si preoccupa anche di proteggere gli altri membri dell’equipaggio, ordinando loro di salire immediatamente a bordo per evitare ulteriori tentazioni. Questo episodio esalta la figura del leader responsabile, che deve prendere decisioni difficili e impopolari per il bene comune.
È interessante che Omero non specifichi perché Ulisse non mangia il loto. Questa omissione suggerisce che Ulisse, in quanto eroe, sia immune alla tentazione? O, più probabilmente, che egli abbia scelto consapevolmente di non farlo? Questo silenzio permette di leggere l’episodio come un elogio alla virtù della consapevolezza: Ulisse comprende il pericolo del loto e decide di astenersi, un atto che lo distingue dai suoi compagni e ne ribadisce il ruolo di guida.
Confronto tra mito e realtà storica: Omero ed Erodoto a confronto
L’approdo nella terra dei Lotofagi segna un momento sospeso tra realtà e mito. Questi misteriosi abitanti si nutrono di loto, un frutto che provoca l’oblio e l’abbandono di ogni desiderio di ritorno. Nel testo omerico, il loto diventa un simbolo della tentazione di Ulisse e dei suoi compagni a dimenticare la patria e rimanere prigionieri di un’esistenza senza scopo.
«E chi di loro mangiava il dolce frutto del loto, non voleva più portare notizie né tornare, ma restare lì con i Lotofagi, a mangiare loto, dimentico del ritorno.» (IX, 94-96): queste parole sottolineano come il loto sia metafora di una pericolosa perdita di sé stessi, un tema ricorrente nell’epica omerica.
Se Omero utilizza il loto come simbolo mitico di oblio e tentazione, autori storici come Erodoto e Diodoro Siculo ne offrono una lettura più concreta. Nei loro resoconti, i Lotofagi appaiono come una popolazione reale, dedita alla coltivazione e al consumo del loto, una pianta identificabile con specie africane come il Ziziphus lotus.
È interessante notare come il loto omerico, simbolo di fuga e perdita di sé, si differenzi dal loto descritto da Plinio e dal loto egiziano, che invece simboleggia fertilità e rinascita. Questo dimostra la ricchezza di significati che questa pianta ha assunto nelle diverse tradizioni.
Il loto descritto da Plinio il Vecchio
Plinio il Vecchio discute il loto nella sua enciclopedia naturale, “Naturalis Historia” (Libro XIII e XXIV), dove descrive diverse piante identificate come loto. Parla sia di un albero con frutti commestibili (probabilmente il Ziziphus lotus, una specie di giuggiolo) sia di un’erba che cresce nei corsi d’acqua (forse il Nelumbo nucifera o il Nymphaea caerulea).
Come lo descrive Plinio:
Plinio descrive il loto come un albero presente in alcune regioni dell’Africa e dell’Asia, i cui frutti sono dolci e nutrienti. Alcuni studiosi associano questa pianta con quella consumata dai Lotofagi descritti nell’Odissea. Egli menziona anche il loto come simbolo di abbondanza e prosperità. Oltre alla sua descrizione botanica, Plinio osserva come il loto fosse utilizzato in diverse culture per scopi alimentari, medicinali e ritualistici.
Il loto egiziano: fertilità e rinascita
Nell’antico Egitto, il loto (specialmente il loto blu o Nymphaea caerulea) era un simbolo sacro associato alla fertilità, alla rinascita e al sole. Questo significato deriva dal comportamento della pianta: i suoi fiori si aprono al mattino e si richiudono al tramonto, simboleggiando il ciclo del sole e la rigenerazione.
Il loto appare frequentemente nell’arte egiziana, nei geroglifici e nei testi sacri. È spesso rappresentato come un’offerta agli dèi o come ornamento nei rituali funerari. Nei Testi delle Piramidi, il fiore di loto è menzionato in relazione alla resurrezione dell’anima e al viaggio verso l’aldilà.
Il mito del loto:
Il loto è associato al dio Ra, che sorge ogni giorno dal fiore. Simbolizza anche il processo di rigenerazione spirituale e materiale. Era utilizzato nei riti religiosi e nelle cerimonie legate alla fertilità e alla creazione.
Erodoto, nella sua “Storie” (IV, 177), offre una prospettiva diversa ma complementare sui Lotofagi. Egli li identifica con una popolazione reale situata nella regione della Cirenaica, in Nord Africa, sottolineando come la loro dieta a base di loto fosse una caratteristica distintiva. Il loto descritto da Erodoto differisce notevolmente da quello evocato da Omero: non è un frutto simbolico, ma un cibo reale, identificabile con un arbusto locale il cui frutto era usato per produrre un tipo di farina o vino.
Erodoto, inoltre, distingue il loto africano da quello egiziano, che fioriva durante le piene del Nilo e simboleggiava rinascita e fertilità. La discrepanza tra queste descrizioni dimostra come il loto abbia assunto significati diversi a seconda del contesto culturale: per Omero, una tentazione mitica; per Erodoto, un elemento di osservazione etnografica.
Analisi finale: Il significato della fuga e dell’oblio
La fuga da Capo Malea e l’incontro con i Lotofagi rappresentano due momenti cruciali che condividono un significato profondo: l’opposizione tra il ritorno e l’oblio. Se la deviazione da Malea costringe Ulisse a confrontarsi con il caos del mare e l’imprevedibilità della natura, l’incontro con i Lotofagi lo pone di fronte a un rischio ancora più insidioso: la perdita della propria identità e del desiderio di casa.
Il mito dei Lotofagi non è confinato al mondo antico. Nella modernità, autori come James Joyce, nel capitolo ‘Lotofagi’ del suo Ulisse, hanno riletto il loto come metafora della fuga dalla realtà e dell’indolenza che paralizza la volontà. Allo stesso modo, Margaret Atwood, in The Penelopiad, rievoca il mito per riflettere sul tema dell’identità e della memoria.
“Dov’è il pane e il miele che sogniamo? Dove si scioglie l’ansia come zucchero nell’acqua? Sapore dolce, torpore profondo, e il mondo si ritrae. Seduti, lasciati scivolare, non c’è bisogno di andare avanti.” Dalla scena di Bloom con il panino al formaggio e la tazza di tè. (James Joyce Ulisse)
In entrambi i casi, Ulisse si dimostra un eroe non solo per la sua forza fisica, ma soprattutto per la sua capacità di resistere alle tentazioni che minacciano la sua integrità. Il viaggio, in questo senso, non è solo una prova di resistenza contro gli elementi esterni, ma un percorso interiore in cui Ulisse riafferma costantemente il valore della sua meta.
Approfondimenti moderni sull’episodio
Alcuni critici moderni, come Marcel Detienne in Il loto e l’oblio, leggono l’episodio come una metafora del rischio della perdita di identità. I compagni che mangiano il loto smettono di essere se stessi, diventando prigionieri di un’esistenza senza scopo. Ulisse, invece, è simbolo della resilienza umana.
In chiave psicologica, il loto potrebbe rappresentare la fuga dalle ansie della vita reale. In questo senso, Ulisse può essere visto come l’individuo che lotta per mantenere un equilibrio, mentre i suoi compagni cedono alla “facile via di fuga”.

- Bibliografia
- Omero, Odissea, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Mondadori, Milano, 2021.
- Erodoto, Le Storie, trad. it. di Andrea L. Bonazzi, BUR Classici Greci e Latini, Milano, 2022.
- Detienne, M., Il loto e l’oblio: L’arte della memoria nell’antichità greca, Einaudi, Torino, 1988.
- Purcell, N., The Lotus-Eaters in Myth and History, Harvard University Press, Cambridge, 1990.
- Opere classiche:
- Plinio il Vecchio – Naturalis Historia
Plinio menziona il loto africano, collegandolo alle piante consumate dai Lotofagi. La sua descrizione si focalizza sugli aspetti botanici e sulle caratteristiche alimentari della pianta. - Diodoro Siculo – Bibliotheca Historica
Diodoro fornisce un resoconto sulle popolazioni africane, accennando ai Lotofagi come parte delle sue descrizioni geografiche ed etnografiche. - Strabone – Geografia
Strabone descrive i Lotofagi situandoli nel contesto della geografia nordafricana. La sua narrazione esplora sia le loro abitudini alimentari sia la collocazione territoriale.
- Opere moderne e riletture:
- James Joyce – Ulisse
Nel capitolo intitolato “Lotofagi,” Joyce usa il mito come metafora per l’indolenza e l’oblio nella società moderna. Questa reinterpretazione introduce il tema del loto in un contesto urbano e psicologico. - Margaret Atwood – The Penelopiad
Anche se non si concentra direttamente sui Lotofagi, il testo di Atwood rilegge alcuni episodi omerici da una prospettiva alternativa, permettendo di riflettere sul significato simbolico del loto. - David W. Ball – Empires of Sand
Un romanzo storico che richiama l’antica tradizione dei Lotofagi intrecciandola con la cultura nordafricana.
- Temi ricorrenti nelle descrizioni:
- Oblio e tentazione: Il loto rappresenta una tentazione pericolosa, simbolo della perdita della memoria e della volontà di tornare a casa.
- Identità etnica e botanica: Testi classici e moderni spesso dibattono sull’identità geografica e culturale dei Lotofagi, così come sulla natura della pianta stessa (fico del deserto, palma da dattero, etc.).
- Reinterpretazioni moderne: Nei testi moderni, i Lotofagi assumono spesso significati metaforici o psicologici, diventando simbolo di fuga dalla realtà.