Il barone Liborio Ghiffoni era l’ultimo rampollo di un casato che poteva vantare tra i suoi avi perfino un Viceré al tempo in cui la Sicilia era il più obbediente di tutti i domini spagnoli.

 

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racconto

di

Stefano Baroni

Le calde sere d’agosto, erano ormai un ricordo.

E quanto più l’aria era frizzante e fresca, da consigliare l’uso della giacca o qualcos’altro che non fosse una semplice camicia a maniche corte, tanto più la nostalgia per le piacevoli sere agostane suggeriva meditazioni sul veloce passare del tempo e delle stagioni della vita.

Era la fine di settembre, un mese così simile per temperamento all’età matura, quando lo spreco di energie e di entusiasmo deve cedere il posto alla moderazione.

Settembre segnando l’inizio dell’autunno, è una sorta di mese di frontiera durante il quale si fatica a convincersi che l’estate è finita e che bisogna attrezzarsi ad affrontare il lungo inverno.

Un uomo sta entrando in un edificio di stile neoclassico.

Un divorzio alle spalle, due figli che non ricordavano più nemmeno che esistesse. Costretto da ragazzo a lasciare la scuola per la morte improvvisa del padre. Unico figlio maschio, il peso della sua famiglia gli era piombato sulle spalle. Aveva per qualche anno fatto prima il muratore, poi il bracciante, ma quanto ne ricavava non era sufficiente a sostenere una famiglia di cinque donne. Si era così imbarcato come mozzo in una compagnia marittima di navi da crociera. Nel giro di qualche anno era stato promosso prima cambusiere, e successivamente, per la gradevolezza con cui si rapportava con le persone, aveva iniziato a gestire i servizi bar delle navi passeggeri. La sua giovinezza e buona parte dell’età matura l’aveva passata sulle navi da crociera: sei mesi di lavoro, un mese a casa. Ma anche quel mese passato a casa, divenne ben presto una enormità e arrivò al punto da considerare sprecato anche un solo giorno passato lontano dal mare e dalle sue navi.

Considerò sempre quel lavoro, l’unica fortuna che gli fosse mai capitata nella vita, perché gli permetteva di conoscere gente di tutte le razze e di tutte le parti del mondo, nonché di viaggiare e vedere posti che non avrebbe mai potuto conoscere.

Ora arrotondava la pensione facendo il barista al Circolo dei Cavalieri, uno dei tanti circoli nobiliari che possono vantare molti paesi del meridione d’Italia il cui nome cambia da posto a posto; qua si può chiamare Circolo dei Nobili, in un altro posto Circolo dei Cavalieri, in un altro ancora Circolo di Conversazione, tanti nomi con l’unico obiettivo, quello di sottolineare una differenza, si potrebbe dire quasi una distanza da quella miriade di altri circoli di più grezza e umile origine.

Quest’uomo si chiama Gilberto, ma là dentro lo chiamavano Vittorio perché, gli aveva detto il Presidente:

   «Capisci? Si addice di più al luogo»

L’esclusività dell’appartenenza a questo Circolo, rigorosamente per soli uomini, era condizionata all’avere alle spalle un casato con una storia, un titolo nobiliare o in mancanza d’altro una ricchezza acquisita anche di recente, e non importava molto il modo, purché consistente.

Il Circolo si affaccia su una bellissima piazza barocca, un luogo suggestivo e scenografico dominato nella parte alta, dalla settecentesca Chiesa di Sant’Andrea.

La chiesa, con la facciata fiancheggiata da colonne, si erge sulla sommità di un’ampia e ripida scalinata dalla quale si domina tutta la piazza che si sviluppa con una notevole pendenza. La piazza a sua volta, è delimitata da tutta una serie di palazzi classici e barocchi. Tra questi, il Circolo. Quest’ultimo, una costruzione del primo ottocento, era stato realizzato come luogo di ritrovo affinché i nobili potessero ritrovarsi dopo una giornata dura passata a governare i propri feudi, per conversare e trascorrere il tempo lontani e isolati dalla gente comune. L’edificio, su un unico piano, ha tre entrate direttamente dalla piazza e su un unico lato per i soci, separate da sei finte colonne scanalate con capitelli in stile dorico impreziosite ai fianchi da tre bassorilievi rappresentanti scene di caccia, mentre al centro del prospetto, sopra il cornicione, un’aquila aragonese sorveglia con fare arcigno l’immobile. Il grande salone interno, delimitato nel suo perimetro da grandi specchiere con ricche cornici dorate a coronamento di tutta una serie di divani in broccato rosso, colore che crea un efficace contrasto con gli affreschi sul soffitto, su temi mitologici, su cui predominano le tinte bluastre.

Dal salone principale, alcune porte mettono in comunicazione con altri locali, tra cui il piccolo bar di recente realizzazione, a cui è addetto il nostro Gilberto-Vittorio, mentre un’altra porta, immette in una pregevole biblioteca ricca di volumi preziosi e rari e i cui tavoli spesso usati per il gioco delle carte, di mattina vengono riforniti di quotidiani di rigorosa ispirazione cattolico-liberale. La biblioteca, impreziosita da un’ampia parete finestrata con vetri termicamente isolati dall’esterno, permette la visione ad ampio raggio dell’altopiano e nei giorni sgombri da nuvole anche la possibilità di vedere l’enorme cono nero dell’Etna, a muntagna come con rispetto la chiamano tutti i siciliani.

Naturalmente, dove c’è un circolo per i nobili, esiste sempre un circolo degli umili. E nel paese di cui stiamo parlando infatti altro Circolo era quello degli Artigiani, frequentato per l’appunto da artigiani, agricoltori e pensionati. Si accede a questo Circolo da una porta posta all’interno di un dedalo di stradine strette, anguste e poco illuminate. Alcune di queste, risalenti al medioevo, ancora basolate all’uso antico con conci di pietra calcarea bianca resa liscia e scivolosa dall’usura e dal tempo. I materiali con cui ai primi del novecento era stato costruito il Circolo, essendo di modesta fattura si erano alquanto degradati, soprattutto all’esterno non riuscendo adeguatamente a proteggere la struttura dagli attacchi del tempo e del clima, abbastanza rigido in inverno e torrido in estate, scolorando il colore originario della facciata che qua e là presentava ampi distacchi d’intonaco.

Il Circolo, naturalmente lontano dalla piazza, era inserito in un quartiere dalle caratteristiche di una casbah, con case piccole e stradine collegate tra loro da scale per superarne i dislivelli più critici. Per tale collocazione, l’edificio si mimetizzava e confondeva tra le tante case anonime, anch’esse con gli intonaci di facciata deteriorati dalle piogge.

I locali del frequentatissimo Circolo, odoravano di muffa per la scarsità di finestre e la relativa difficoltà di cambiamento dell’aria. L’unica possibilità di vista panoramica, era offerta dalla finestra sconnessa del cesso, dalla quale era possibile osservare il vallone scavato nel corso dei millenni da un fiume a carattere torrentizio, costeggiato su uno dei versanti, dallo snodarsi di una vecchia e quasi inutilizzata linea ferroviaria, il cui tracciato era stato disegnato in epoca borbonica.

Mentre il nostro Gilberto era affaccendato, con le spalle rivolte al bancone, tutto preso a sistemare tazzine e bicchieri, quando una voce aveva comandato imperiosamente:

   «Vittorio, un caffè nero come il carbone e…»,

   «…caldo come una femmina», aveva anticipato il barista, che girandosi di scatto e senza lasciare trasparire alcuna sorpresa ma con una buona dose di cordialità formulò dei convenevoli di benvenuto al nuovo avventore.

   «Barone Ghiffoni, che piacere rivederla… Come è andato il suo viaggio?», accompagnando la domanda, con un sorrisino ammiccante per preparargli il terreno per la solita confessione sulle sue avventure boccaccesche di cui prima o poi avrebbe informato un pò tutti all’interno del Circolo nobiliare.

Gilberto appoggiò il caffè appena preparato sul bancone, e senza che il barone glielo avesse ordinato, aggiunse un po’ di Gordon Gin riscaldato col vapore dell’espresso.

   «Ah Vittorio, che palazzi e che bellissime donne le viennesi, così vaporose, così ammalianti, così femmine…».

Sorseggiò il caffè caldissimo, facendo schioccare le labbra con un colpo secco.

Poi il barone, corrugò la fronte e con aria indagatrice, formulò una domanda pur essendo assolutamente convinto che dal suo interlocutore non avrebbe mai potuto ricevere nessuna risposta.

   «Vittorio, sai chi era Kulczycki?»

   «Kul… che? Veramente no, mi pare un nome russo… Forse qualche viaggiatore incontrato durante la vacanza?»

   «Kulczycki, caro Vittorio, è in un certo senso un tuo antenato. Fu il primo che col caffè abbandonato dagli assedianti turchi di Vienna, realizzò alla fine del Seicento, la prima caffetteria europea dove serviva caffè inventandosi nuovi modi di prepararlo oltre a quelli che aveva imparato nei suoi viaggi in Turchia.»

   «Be’, spero per lui che si sia arricchito, perché io ancora non ci sono ancora riuscito. E credo che arrivato a questo punto non ci riuscirò mai» osservò Gilberto sorridendo.

 

Il barone Liborio Ghiffoni era l’ultimo rampollo di un casato che poteva vantare tra i suoi avi perfino un Viceré al tempo in cui la Sicilia era il più obbediente di tutti i domini spagnoli. Era quello che si potrebbe definire uno scapolo d’oro attorno a cui ronzava ancora qualche nobildonna o qualche aspirante a diventarlo.

Andava sui cinquanta, ed era convinto che prima o poi il mondo intero lo avrebbe ricordato e onorato come scrittore. Il barone era sempre alla ricerca della suprema ispirazione che lo avrebbe portato a scrivere il capolavoro della sua vita, ed era noto a tutti, che aveva iniziato un libro che quanto prima avrebbe visto case editrici di una certa importanza, scontrarsi per accaparrarsi l’opera senza uguali.

Quelle sudate carte di cui tanto si parlava nei locali del Circolo soprattutto quando il barone era assente, non le aveva mai viste nessuno, per il semplice fatto che non esistevano.

Conosceva tutte le opere di Pirandello, e sebbene lo avesse letto senza trarne grande profitto intellettuale, di tanto in tanto citava qualche battuta tratta di peso dalle sue novelle, che utilizzava durante le conversazioni con i suoi pari, proprio come fanno coloro che intramezzano i loro discorsi con frasi latine o con sentenze e citazioni tratte dalle ricchissime opere dell’inglese Shakespeare, che qualcuno vorrebbe addirittura di origini sicule.

Tuttavia lo scrittore che lo aveva sedotto sulla strada dell’arte era Hemingway, e lo amava a tal punto che nei viaggi che poteva permettersi senza preoccuparsi del numero dei giorni che vi dedicava, dei luoghi da visitare o dei mezzi di trasporto da utilizzare, andava spesso alla ricerca dei posti in cui il grande scrittore americano aveva vissuto o soggiornato.

Sentiva dentro di sé la convinzione che vedendo i posti dove aveva scritto i suoi capolavori, si potesse risvegliare dentro di lui il sacro fuoco dell’arte che sornione doveva covare sotto la cenere da qualche parte della sua anima.

Questa ricerca della fonte dell’ispirazione da scrittore, simile per certi versi a quella cavalleresca del Sacro Graal, lo aveva portato in diverse parti del mondo, da Key West a Cuba, da Pamplona a Parigi, dal Kenia a Venezia… e ovunque andasse, era alla ricerca di quei motivi condizionanti, che secondo lui dovevano esistere, dai quali erano scaturiti i suoi romanzi.

In uno dei suoi numerosi viaggi, il barone Ghiffoni si era convinto di aver trovato la fonte da cui scaturiva l’ispirazione del grande scrittore americano. Quel luogo era stato l’Harrys Bar di Venezia.

Era qui che Liborio Ghiffoni aveva avuto la sua folgorazione.

Dentro l’Harry’s Bar di piazza San Marco, era proprio sicuro di aver capito il grande segreto dello scrittore. Entrando, in fondo a sinistra si era seduto al tavolo su cui abitualmente si sedeva il suo amato, ed era stato lì, che aveva accettato il suggerimento del cameriere: bere un caffè alla Hemingway, che altro non era che un caffè corretto con Gordon Gin.

Il segreto deve essere il caffè, il suo profumo, la sua proprietà di eccitare il cervello, renderlo ricettivo e sensibile” aveva pensato. Il barone aveva appoggiato poi le mani su quel tavolo, lo aveva accarezzato come una reliquia socchiudendo gli occhi e annusando l’aria piena degli aromi provenienti dalla calda e nera miscela, immaginando Hemingway, che tra un sorso e l’altro del suo caffè speciale, scriveva di getto le indimenticabili pagine di Verdi colline d’Africa o l’abbozzo dell’immortale Il vecchio e il mare.

Era un po’ di tempo che voleva chiedere il parere di Gilberto, ma le sue supposizioni dovevano trovare una base più solida. Fu così che quella sera, dopo aver bevuto il suo caffè speciale gli chiese a bruciapelo:

   «Vittorio, tu che sei un esperto di caffè, perché secondo te agli scrittori piace scrivere in mezzo alla gente? Come fanno a concentrarsi e a trovare l’ispirazione a scrivere capolavori?»

   «Signor barone, voi mi ponete domande troppo complicate per un uomo come me che non ha fatto le scuole pesanti, però una risposta da barista gliela posso dare…», fece Gilberto diventando serio.

   «Per quanto riguarda la confusione, io penso che anche in un locale pieno di gente si può trovare un angolo tranquillo e mettersi a fare un cruciverba, leggere un libro, scrivere una lettera alla fidanzata, o scrivere i capolavori che dice lei. Meglio è se in questi locali non ti conosce nessuno. E che differenza c’è tra stare soli e stare in un posto pieno di gente che non ti conosce?»

   «Nessuna», ammise il barone.

   «Benissimo. Ma il vero motivo è che il Caffè, come locale voglio dire, è un posto magico signor barone», disse quasi sussurrandogli come se stesse rivelando un gran segreto al nobiluomo che lo ascoltava in religioso silenzio.

   «E lo sa perché?», chiese Gilberto interrompendo la sua dissertazione per qualche secondo. «Perché il caffè, quello della tazzina intendo, è un liquido che, sia se è preso con la spuma di latte, ristretto con e senza latte, lungo, all’americana, alla turca, espresso, con panna servito in vetro o corretto con cognac whisky o gin, sempre liquido magico è, perché è magico il sapore, è magico l’aroma… e noi ne siamo pazzi perché… mi scusi signor barone, non è che la faccio troppo lunga e le sto facendo perdere tempo? », si schermì Gilberto.

   «Assolutamente NO. Ti impongo di continuare», gli ordinò il barone Ghiffoni con l’indice puntato verso di lui.

   «Andiamo pazzi del caffè signor barone, perché il caffè si sposa bene con una fetta di torta, con la lettura di un giornale, con la conversazione con una bella femmina… e con tante altre cose. Ma solo con una cosa il caffè non va d’accordo…», fece Gilberto, fermandosi come se aspettava il rullo di tamburo che nei circhi prelude all’esercizio più difficile.

   «Con cosa, con cosa, Vittorio…», incalzò il barone.

   «Con la fretta signor barone, con la fretta. Il caffè non si sposa con la fretta», rispose scandendo l’ultima parola.

   «Oh bella! Questa è pura psicologia del caffè, caro Vittorio. Bravo! Il caffè odia la fretta, la scrittura odia la fretta, e solo Dio sa se io non ne so qualcosa, e di conseguenza gli scrittori amano il caffè. Vero Vittorio?»

   «La sua conclusione è veramente impeccabile signor barone.»

   «Vittorio, fai un caffè anche a me!», proruppe improvvisamente una voce ancora più imperiosa di quella con cui l’aveva ordinato il barone Ghiffoni.

Era il barone Donnafugata che mettendo una mano sulla spalla del suo pari lo incalzò:

   «Come sta il nostro romanziere ah, come sta? L’hai trovata l’ispirazione giusta a Vienna ah, l’hai trovata? E di che colore aveva il pelo questa ispirazione, di che colore ce l’aveva?»

 

Bisogna dire che il barone Donnafugata era un ottimo parlatore nonostante la marcata cadenza dialettale. Puttaniere impenitente il barone Donnafugata che ormai aveva superato i settant’anni, non solo era un ottimo oratore che tutti i soci rispettavano e qualcuno temeva, ma aveva la capacità di spaziare su argomenti diversissimi, con competenza e scioltezza. Ma la cosa che più incuteva timore era la sua ironia, quella capacità di prendere per il culo con garbo e arguzia, che lasciava disarmato il malcapitato che cadeva nelle sue grinfie. Il viso del barone Ghiffoni, inizio allora a intonarsi con le tende damascate della stanza, mentre il suo pari si accingeva a bere il caffè che prontamente Gilberto gli aveva preparato.

   «Liborio com’è Vienna? È un secolo che non ci vado».

   «Bella come sempre», rispose il barone Ghiffoni, contenendosi nel racconto e limitando le sue descrizioni al clima e ai palazzi.

   «Liborio, non mi dire minchiate ah, da quando in qua si va a Vienna per guardare i palazzi? E che mi vorresti anche parlare di Schönbrunn? Dimmi piuttosto di quella rossa di Ellerstrasse che ti ho consigliato, sei andata a trovarla? L’hai visitato il suo giardino delle meraviglie?»

Il barone Ghiffoni farfugliò qualcosa, poi si diressero entrambi verso la biblioteca, aulico luogo che degradava a bisca nelle tarde ore notturne e a tempo pieno nel periodo natalizio, quando anche alle legittime consorti dei soci era consentito l’accesso, ma solo fino ad una certa ora, e limitatamente allo Chemin de fer e al Bridge.

Gilberto vide allontanare il barone Donnafugata, sempre con la mano sulla spalla del barone Ghiffoni, quasi fosse un carceriere che portava in cella il suo detenuto.

Poi la porta della biblioteca si chiuse pesantemente e un rumore grave risuonò nel salone degli specchi ancora deserto.

 

Finito il suo turno, Gilberto si tolse la divisa bianca da cameriere, indossò una giacca in finta pelle, prese i sacchi dell’immondizia, li legò e uscì da una porta secondaria. Infilò i sacchi dentro il solito cassonetto, quindi si incamminò verso la parte bassa della piazza. Imboccò le stradine dal percorso tortuoso che portavano verso il Circolo degli Artigiani dove era atteso per il solito giro di scopa.

Appena entrò un coro di saluti lo accolse. Gilberto scambiò delle brevi battute con ciascuno di loro, poi si diresse filato nella saletta dove un tavolo con dei giocatori e una sedia vuota lo aspettavano.

   «Dai, forza Gilberto che siamo in ritardo, iniziamo il primo giro di scopa», fece uno.

   «Cosa ci giochiamo?», fece un secondo giocatore.

   «E cosa vuoi giocarti, la solita birra… A meno che i tuoi alberi non hanno iniziato a fare mele d’oro…», disse Gilberto accendendosi, tra un coro di proteste, un puzzolente mezzo sigaro toscano, e dopo quattro tiri, nella sala da gioco già piena di fumo di sigarette, sembrò calare la nebbia.

Giocarono fino a mezzanotte, tra sfottò e barzellette spinte.

Usciti passarono dall’unico tabaccaio ancora aperto, per rifornirsi di sigarette per la notte e il giorno dopo. Azione questa che spesso veniva accompagnata dall’acquisto collegiale di gratta e vinci che li portava tra un commento e l’altro sulla soglia dell’una di notte, orario che poi li vedeva dipartire e sparire nelle direzioni più diverse.

Più o meno alla stessa ora, anche il barone Ghiffoni, che una giacca in fine cashmere proteggeva dall’umidità della notte, si incamminava verso il palazzo degli avi.

I mostri raffigurati negli ornatissimi mensoloni di sostegno dei balconi sembravano aspettarlo.

Il barone entrò nel cortile interno, salì l’ampio scalone curvo dell’ingresso, aprì un secondo portone, e attraversò il lungo corridoio. Entrò nella camera da letto. Si spogliò, indossò il pigiama di seta e camminando a piedi scalzi sul piacevole e caldo parquet si recò nello studio e sedette alla scrivania.

Si era appena seduto quando qualcuno bussò alla porta. All’assenso del barone, entrò un cameriere in livrea bianca che portava un vassoio con una tazzina fumante: era un caffè alla Hemingway, l’ultimo della giornata.

Il barone lo sorseggiò, poi come per un rito consolidato, prese un foglio bianco, lo sistemò per bene sul tavolo di noce massiccio e con una scorrevolissima Mont Blanc d’oro scrisse in alto e al centro del foglio

IL CAFFÈ DELLO SCRITTORE

Meditò parecchi minuti su quanto discusso con il barista del Circolo. Era indeciso se scrivere un racconto breve, iniziare un romanzo o cimentarsi su un saggio.

Dopotutto tra quanto gli aveva suggerito Vittorio, e le sue esperienze di viaggio c’era materiale per scrivere un saggio sul caffè e le sue qualità magiche a cui avevano fatto ricorso scrittori di ogni epoca e parte del mondo. Poteva partire anche dai caffè dove era stato ultimamente, quelli di Vienna. Dal Café Landtmann ad esempio, dove il protagonista della Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth, cerca, vanamente, di ritrovare le antiche e rassicuranti atmosfere della Vienna asburgica. O il leggendario Café Central che tra i suoi clienti può vantare il padre della psicanalisi Sigmund Freud, il rivoluzionario Lev Trotsky, l’architetto Adolf Loos e gli scrittori Robert Musil e Arthur Schnitzler. Qui, tra scenografiche colonne, pavimenti in legno, divani rossi e lampade da tavolo, si passa il tempo tra piatti di cucina viennese e dolci fatti in casa. O i più esclusivi caffè di Parigi come l’antichissimo Café Procope una vera e propria istituzione della capitale francese con il suo tipico arredamento. Qui, erano soliti sedersi Voltaire, Diderot, Rousseau per parlare di politica e filosofia. Nel 1800 era frequentato anche da Paul Verlaine, Victor Hugo, Alfred de Musset e Honoré de Balzac. Insomma ai suoi tavoli si sono consumate grandi discussioni sui massimi sistemi del mondo e scritte grandi pagine della letteratura francese. E poi il rinomato Café de la Paix che, data la sua vicinanza all’Opéra Garnier, assunse un ruolo importante nella vita di diversi personaggi della cultura e l’arte del periodo sin dalla sua apertura. Tra i suoi prestigiosi ospiti possiamo annoverare lo scrittore Émile Zola, Guy de Maupassant, Oscar Wilde, Marcel Proust, André Gide e ovviamente Ernest Hemingway, grande ammiratore della città francese. Ed infine le Café de Flore a Saint Germain des Prés che ha accolto nel corso del ‘900 alcuni tra i più importanti nomi della letteratura mondiale. Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir ci passavano quasi otto ore al giorno. Albert Camus, Boris Vian e Jacques Prévert si ritrovavano qui molto spesso per discutere sulla corrente esistenzialista. Per poi concludere con l’Harry’s Bar di Venezia.

Stette per qualche minuto con lo sguardo vitreo fisso sul titolo. “Argomento interessante ma complicato” pensò dopo un po’ il barone. Convenne allora sull’opportunità di impostare un romanzo avente un Caffè come location in cui ambientare una storia di una certa complessità. Magari una storia d’amore che si dipanava tra alti e bassi attorno alle tazzine di caffè e whisky con sullo sfondo l’intreccio di un complotto per l’assassinio di un uomo di Stato organizzato per l’appunto dentro un Caffè da spie senza scrupoli di un paese straniero.

Mmhhh… no, meglio di no!”

Un romanzo era di certo un’idea fin troppo azzardata e rischiosa, che presupponeva una esperienza notevole che al momento non era disponibile. E poi un romanzo presuppone un concatenamento di trame, di profili psicologici di personaggi da far vivere, intrecciare, storie da dipanare… Troppe le cose di cui tenere conto e in grado di presentarsi come un ostacolo difficilmente superabile per un’opera prima.

Il barone si convinse allora che il racconto era la dimensione ideale per la storia che voleva delineare, per la sua insita essenzialità. Per giunta, il racconto poteva costituire un esercizio propedeutico a quello più corposo della realizzazione di un romanzo che avrebbe potuto iniziare da lì a qualche giorno.

Aveva deciso.

Quella notte avrebbe scritto il suo primo racconto.

Acquisita questa convinzione, il barone stette davanti al foglio una buona mezz’ora, senza scrivere niente né sopra né sotto né di lato al titolo che ancora solitario, campeggiava come un tiranno sul foglio. Aveva tante volte sentito parlare del dramma dello scrittore davanti alla pagina bianca.

Come era vero!

Poi stanco di aspettare parole che non venivano, con gli occhi che desideravano solo di chiudersi, si convinse che ancora non era arrivato il momento propizio.

Prese quindi il foglio di carta, lo accartocciò nel pugno e lo buttò nel cestino pieno di altri fogli accartocciati.

All’incirca alla stessa ora in cui il barone Ghiffoni era entrato nel suo palazzo, Gilberto rientrava nella sua abitazione. Aveva salito le scale in pietra pece facendo attenzione al quinto scalino che si era smussato qualche anno prima e che gli aveva già procurato due cadute per fortuna senza gravi conseguenze.

Andò in bagno a svuotare la vescica. Quindi si organizzò per la notte indossando un pigiama di lana.

Un’unica stanza con alle pareti poster di navi da crociera e di cartoline provenienti da tutto il mondo, scritte da quelli che un giorno furono i suoi colleghi di lavoro, qualcuna forse scritta da fugaci e passeggere amanti, o da cordiali signori e signore che aveva intrattenuto nei bar delle navi che avevano solcato i mari e gli oceani.

Si preparò il solito caffè della notte mettendo dentro la moka un bastoncino di cannella.

In breve la piccola stanza, che ricopriva contemporaneamente le funzioni di camera da letto, pensatoio, salotto e cucina, si riempì dell’aroma inebriante. Versò il caffè nero come il carbone e caldo come una femmina in una tazzina, si sedette e iniziò a sorseggiarlo.

Appoggiò gli avambracci sulla piccola scrivania posta davanti al finestrone dal quale, quella notte si poteva ammirare una splendida luna piena.

Pensò che quella era la notte ideale per scrivere una poesia.

Prese un quaderno, lo aprì all’ultima pagina, stette un paio di minuti fermo poi iniziò a scrivere, guardando ora il foglio, ora la luna, e sorseggiando di tanto in tanto il caffè che andava raffreddandosi molto velocemente.

Che vuoi, lacrima solitaria?

Perché turbi ancora il mio sguardo?

Perché?

Mentre scriveva la sua mente andava agli anni di lavoro passati su quelle incredibili, enormi, luccicanti navi, con sale da pranzo sterminate, palestre, piscine con labirintici corridoi, scale e quant’altro rende una nave una città che si sposta da un punto all’altro della terra.

Non erano di certo le navi che all’inizio del Novecento solcavano i mari, piene di quell’umanità dolente alla ricerca di una speranza e di una vita migliore, di uomini e donne che si lasciavano alle spalle miserie e sofferenze e che si giocavano tutto quello che avevano, cioè niente, per scommettere su un futuro su cui qualcuno già favoleggiava.

Le navi su cui Gilberto aveva passato buona parte della sua gioventù, pullulavano di gente ricca in viaggio di piacere, ma anche di impiegati, professionisti, gente comune alla ricerca di un’esperienza di viaggio. Esperienza che a volte sconfina con il tentativo di dare un senso alla vita o in quello di uccidere la noia, uscire dalla normalità, cosa questa da sempre più facile a dirsi che a farsi.

Tuttavia sembrava a Gilberto che tutto il mondo gli fosse passato accanto, sfilato con le sue luci e le sue ombre come in quelle passerelle sulle quali sfilano modelle e modelli. Mille volti, mille personaggi, tutti diversi tra loro eppure tutti così dannatamente uguali. Gli capitava nei momenti di solitudine e silenzio di passarli in rassegna, chiedendosi cosa stessero facendo in quello stesso istante, o in quale angolo di camposanto stessero riposando.

Unica superstite dei bei tempi di allora.

Le tue fulgide sorelle,

nella notte e nel vento

sono tutte svanite tra la gioia e il tormento.

Gilberto aveva imparato a riconoscere al primo sguardo la signora attempata a caccia di emozioni, le coppie stanche di matrimoni che non avevano più niente da dire, ricchi gay alla ricerca di marinai compiacenti. Riusciva a distinguere poi tutti quelli che erano partiti soltanto con il semplice obiettivo di conoscere nuove zone del mondo. Ricordava soprattutto come su tutti, proprio su tutti, calava quel velo di tristezza, man mano che la fine della crociera si approssimava.

È svanita anche la luce che avevo negli occhi

quando la gioia e il tormento

sorridevano al mio cuore.

Quante donne evanescenti, di alcune delle quali ancora ricordava il colore degli occhi e il profumo della pelle.

Risuonava nelle sue orecchie anche il rumore dei suoi passi che si affrettavano appena uscito dalle loro cabine, per paura di incontrarne i mariti, il pianto soffocato per qualcuna che, giurava, avrebbe potuto essere la donna della sua vita.

Ahimè, anche il mio primo amore

è un sospiro che fu!

E allora, vecchia lacrima solitaria,

va via… svanisci anche tu!

Gilberto, un po’ commosso e con gli occhi ancora lucidi per quello che aveva scritto, chiuse il quaderno pieno zeppo di pagine scritte, sistemandolo su una pila di quaderni che nessuno mai avrebbe letto e che dal pavimento raggiungeva in altezza il piano della scrivania.

Poi estrasse un letto dal divano, scosse un po’ il cuscino, quindi dopo aver aggiunto una coperta si infilò sotto le lenzuola che non lavava da tempo.

Per qualche minuto stette a fissare il soffitto con l’intonaco ammuffito dalle infiltrazioni d’acqua piovana.

L’inverno che si avvicinava sarebbe stato come al solito lungo, e questa volta probabilmente l’acqua piovana sarebbe filtrata e caduta dritta dritta sul letto.

Devo impermeabilizzare il tetto” pensò “e sostituire le tegole rotte quanto prima.”

Quindi spense la luce, si girò su un fianco, sospirò e chiuse gli occhi, speranzoso di incontrare in sogno qualcuno che non avrebbe più rivisto.

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