”Commovente, incantevole e struggente, insieme, Un dolore così dolce è una commedia amara sull’impervio passaggio all’età adulta, sul potere vivificante dell’amicizia e sulla fulminea, bruciante esperienza del primo amore.
Allora provate a immaginare una fotografia, la tipica foto di gruppo alla fine della scuola, facce così piccole che per riconoscerle devi guardarle da vicino. In quelle foto ricordo c’è sempre una figura vagamente familiare nella fila di dietro, qualcuno a cui non sono associati aneddoti, né scandali, né grandi imprese. Ecco, quello è il Charlie Lewis della classe.
«Storia di un primo amore e di un’innocenza perduta… “Un dolore così dolce” è una travolgente combinazione tra il romanticismo giovanile di Un giorno e le amarezze dell’età adulta di “Noi”» – Guardian
«Il talento letterario di Nicholls è impressionante… nostalgia e struggimento sono così viscerali e intensi da piegare il trascorrere del tempo» – Sunday Times
La trama del romanzo.
È l’estate del 1997 a Londra, l’estate del New Labour, della morte di Lady Diana e della fine della scuola per Charlie Lewis. Cinque anni terminati in un batter d’occhio e suggellati dall’immancabile ballo nella palestra della scuola, coi professori alla consolle che azzardano persino Relax dei Frankie Goes to Hollywood o Girls and Boys dei Blur, i ragazzi che si dimenano selvaggiamente e le ragazze che ancheggiano con malizia. Cinque anni in cui Charlie Lewis si è distinto per non essersi mai distinto in nulla. Né bullo né mansueto, né secchione né ribelle, né amato né odiato, insomma uno di quei ragazzi che, a guardarli nella foto di fine scuola, si stenta a ricordarli, poiché non sono associati ad alcun aneddoto, scandalo o grande impresa. Ora, però, per Charlie è giunta l’ora di definire la propria personalità, il che alla sua età è come cambiare il modo di vestire e il taglio dei capelli. Un’impresa di non poco conto, visto che, dopo aver cominciato a lavorare in nero alla cassa di una stazione di servizio per circa dodici ore la settimana, Charlie non sa che farsene di quella lunga estate. Per giunta, a casa le cose non vanno per niente bene. Sua madre se ne è andata e suo padre, un uomo mite, cade spesso preda della malinconia. Un giorno, il giovane Lewis afferra Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, scelto giusto perché c’è la parola mattatoio nel titolo, e se ne va a leggere su un prato vicino casa. Qualche pagina letta e poi si addormenta all’aria aperta, per svegliarsi qualche tempo dopo intontito dal sole e dalla meravigliosa visione di una ragazza dalla carnagione pallida e i capelli neri. È Frances Fisher, detta Fran. Viene dalla Chatsborne, una scuola per ricchi che se la tirano da artisti e indossano vestiti a fiori vintage e magliette che si stampano da soli. Fran fa parte della cooperativa del Bardo, un gruppo teatrale di ragazzi come lei che vogliono mettere in scena «una storia di bande rivali e di violenza, di pregiudizio e amore»: Romeo e Giulietta di Shakespeare. Charlie non è felice né indaffarato, e dunque si innamora perdutamente di Fran. Per stare con lei, tuttavia, deve affrontare una sfida improba: entrare a far parte della compagnia diretta da un tipo paffuto e con gli occhioni da King Charles Spaniel. Commovente, incantevole e struggente, insieme, Un dolore così dolce è una commedia amara sull’impervio passaggio all’età adulta, sul potere vivificante dell’amicizia e sulla fulminea, bruciante esperienza del primo amore.
Come inizia.
Prima parte
Giugno
Quell’estate stava parecchio per conto suo. Non apparteneva a niente e a nessuno.
Frankie era diventata una persona scombinata che indugiava, impaurita, sulla soglia.
Carson McCullers, The Member of the Wedding
La fine del mondo
Il mondo sarebbe finito quel giovedì alle quattro meno cinque, subito dopo la discoteca.
Prima di allora, la cosa più vicina a un simile cataclisma che avessimo conosciuto alla Merton Grange erano gli annunci apocalittici che si diffondevano un paio di volte l’anno. Non le solite banalità, tipo eruzioni solari o asteroidi, piuttosto una profezia maya letta su una rivista, una frase di Nostradamus, una data dalla simmetria inquietante e si spargeva la voce che ci saremmo liquefatti, che so, durante l’ora di fisica. Rassegnato al clima d’isteria, l’insegnante ci concedeva una pausa, mentre noi ci accalcavamo intorno a quello che aveva l’orologio più preciso e iniziavamo il conto alla rovescia, le ragazze strette fra loro, a occhi chiusi, come se stessero per ricevere una secchiata d’acqua fredda in faccia, i ragazzi che facevano i duri, mascherando l’emozione, ma pensavamo tutti a quel bacio non dato, a una questione rimasta in sospeso, alla nostra verginità, agli amici, ai genitori. Quattro, tre, due…
Trattenevamo il respiro.
Poi qualcuno gridava: «Bum!» e scoppiavamo a ridere, sollevati ma anche leggermente delusi, perché eravamo ancora vivi, sí, ma pur sempre nell’ora di fisica. «Siete contenti? Adesso possiamo rimetterci al lavoro?» E tornavamo a occuparci delle leggi di Newton.
Ma quel giovedì
alle quattro meno cinque, subito dopo la discoteca, le cose sarebbero andate diversamente. Dopo essersi trascinato pigramente per cinque lunghi anni, il tempo si era messo a correre e, specie negli ultimi giorni, l’euforia aveva preso piede insieme alla paura del futuro, e a una ventata di sano nichilismo. Non c’erano più lettere ai genitori o altre punizioni a trattenerci: cos’avremmo combinato sapendo che potevamo farla franca? Gli estintori nei corridoi, per esempio, acquistavano temibili potenzialità. Scott Parker avrebbe davvero detto quelle cose alla signora Ellis? Tony Stevens avrebbe di nuovo dato fuoco alla biblioteca?
E finalmente l’ultimo giorno arrivò, annunciato da qualche scaramuccia sul portone, le cravatte indossate a mo’ di bandane o lacci emostatici, il rossetto e i capelli tinti di azzurro come i cantanti pop. Tanto cosa potevano farci? Mandarci a casa? Gli insegnanti si limitarono a sospirare e ci lasciarono entrare. Siccome non aveva più senso spiegarci l’idrografia, l’ultima settimana era trascorsa fra tediose lezioni sulla cosiddetta “vita adulta” che pareva fatta in larga misura di moduli e cv da compilare. L’ultimo giorno, mentre imparavamo a gestire un conto corrente, guardavamo la bella giornata fuori dalla finestra e pensavamo: manca poco ormai. Quattro, tre, due…
Durante l’intervallo, provvedemmo a imbrattare con evidenziatori e pennarelli indelebili le nostre candide camicie scolastiche: chini uno sull’altro come tatuatori in una prigione russa, riempivamo ogni spazio disponibile con insulti pieni d’affetto. Abbi cura di te, testa di cazzo, scrisse Paul Fox. Questa camicia puzza, scrisse Chris Lloyd. In vena di lirismo, Martin Harper, il mio migliore amico, scrisse amiciXsempre, sotto un cazzo e due palle ben dettagliati.
Harper, Fox e Lloyd. Erano i miei amici più cari a quel tempo, e anche se avevamo intorno qualche ragazza – Debbie Warwick, Becky Boyne e Sharon Findlay – formavamo un quartetto autonomo e impenetrabile. Sebbene
nessuno di noi suonasse uno strumento, ci vedevamo come una band. Voce e chitarra solista Harper, ovviamente, Fox era il bassista su cui puoi contare e Lloyd, il batterista un po’ svitato. E io?
«Maracas!» aveva esclamato un giorno Lloyd ed eravamo scoppiati a ridere. Era diventato uno dei miei soprannomi, e Fox ne disegnò un paio sulla mia camicia, incrociate sotto un teschio, come un’insegna militare. Debbie Warwick, che era figlia di un’hostess, aveva portato di nascosto una borsa piena di mignonette e noi le tracannavamo, fra smorfie e sputacchi, mentre il signor Ambrose, con i piedi sulla scrivania, teneva lo sguardo fisso sul video di Free Willy 2, piccolo intrattenimento da fine anno ignorato dal corpo studentesco.
Le mignonette servirono da aperitivo per il nostro ultimo pasto scolastico. È passato alla storia il combattimento alla mensa del ’94: le bustine di ketchup che scoppiavano sotto i tacchi, le cotolette di pesce che volavano in aria come ninja, le patate bollite scagliate a mo’ di bombe a mano. «Dai, provaci, se ne hai il coraggio!» disse Harper a Fox che aveva già un würstel pronto sul palmo, ma gli insegnanti giravano fra i tavoli come le guardie di una prigione e l’annuncio di un dessert prelibato riuscí a sventare la minaccia.
Il signor Pascoe tenne il discorso di commiato che tutti ci aspettavamo, invitandoci a guardare al futuro, ma senza dimenticare il passato, a mirare in alto, a dispetto delle cadute, a credere in noi stessi pensando però anche agli altri. Era importante ciò che avevamo imparato, e lui si augurava che avessimo imparato molto, ma più importante ancora era che tipo di persone saremmo diventati, e noi ascoltavamo, fra emozione e disincanto, svagati all’apparenza, ma in realtà mesti e intimoriti. Parecchi avevano un ghigno sul viso nell’aula magna, ma c’era chi si teneva per mano, e si sentiva tirare su col naso, mentre il preside ci spronava a custodire le amicizie nate sui banchi e destinate a durare una vita.
«Una vita? Cristo, speriamo di no» sussurrò Fox, serrandomi il collo con il braccio e sfregandomi le nocche sulla testa. Era il momento della premiazione e assistemmo schifati alla parata dei soliti secchioni, che salivano sul palco a ritirare i buoni libro per poi mettersi in posa davanti al fotografo, i cartoncini sotto il mento, come nelle foto segnaletiche.
E poi, musica! La Merton Grange School Swing Band, diretta dal signor Solomon, eseguí una versione a dir poco sgangherata di In the Mooddi Glenn Miller.
«Perché suonano questa?» disse Lloyd.
«Per metterci nel mood giusto» rispose Fox.
«E cioè?» feci io.
«Un mood di merda» disse Lloyd.«Nella Merdadi Glenn Miller» chiosò Fox.
«Ci credo che si è schiantato con l’aereo» disse Harper alla fine, balzando in piedi e applaudendo sarcasticamente. Sul palco, Gordon Gilbert, il trombonista, in evidente stato di alterazione, afferrò lo strumento e lo tirò in aria con tanta forza che quando ricadde si accartocciò sul parquet come fosse di latta. Mentre il signor Solomon gli diceva di tutto, sciamammo verso la palestra per la disco…
Io però sono quasi del tutto assente da questo resoconto. Quel giorno mi è rimasto impresso nella memoria, ma per descriverlo devo affidarmi a ciò che vidi e sentii perché non ricordo di aver detto o fatto nulla di notevole. Da studente, il mio tratto distintivo era l’assenza di tratti distintivi. «Charlie si impegna per raggiungere gli obiettivi minimi»: questo era il meglio che si potesse dire di me, e la mia scarsa reputazione fu ulteriormente offuscata dalle mie sciagurate prove d’esame. Non ero degno di ammirazione, ma neppure di disprezzo: né amato, né odiato. Pur non essendo un bullo, non intervenivo mai a favore delle vittime del branco, perché mi mancava il coraggio. Ogni anno scolastico era contrassegnato da gesti criminali, furti di biciclette, taccheggio e roghi dolosi, e io, pur rimanendo alla larga dai teppisti, non ero popolare neppure fra i secchioni. Non ero mansueto, ma neanche ribelle: cercavo di stare lontano dai guai e tiravo a campare. L’umorismo era il modo migliore per mettersi in luce e io, pur non essendo fra le star della mia classe, a volte facevo ridere tutti con una freddura inaspettata. Però spesso le mie battute migliori erano coperte da qualcuno che aveva la voce più forte, o mi venivano in mente troppo tardi, tanto che a vent’anni di distanza rimpiango le cose che avrei potuto dire nel ’96 e ’97. Sapevo di non essere brutto, di certo me l’avrebbero fatto notare, ed ero vagamente consapevole dei mormorii e delle risatine di ammirazione che suscitavo nelle ragazze, ma a cosa poteva servire se non riuscivo ad attaccare bottone? Da mio padre avevo preso solo la statura: gli occhi, il naso, i denti e la bocca erano quelli della mamma. Buon per te, diceva mio padre, ma avevo ereditato da lui anche la tendenza a farmi piccolo per occupare meno spazio nel mondo. Grazie a una fortunata peculiarità di ghiandole e ormoni fui risparmiato dai brufoli che butteravano le facce dei miei coetanei, non ero sciupato dall’ansia, né obeso per l’abuso di patatine e bevande zuccherate. E tuttavia non ero sicuro del mio aspetto. Non ero sicuro di niente.
Tutti i ragazzi che avevo intorno stavano definendo la loro personalità, che a quell’età è un po’ come cambiare il modo di vestire e il taglio dei capelli. Eravamo ancora elastici e malleabili, avevamo tempo di sperimentare una nuova calligrafia, una nuova risata, la nostra stessa andatura, prima di irrigidirci e assumere una forma definitiva. Gli ultimi cinque anni erano stati un’incessante e caotica sperimentazione, che ci aveva visto prendere e scartare abiti e abitudini, amicizie e opinioni, un processo pauroso e divertente per noi, ma assurdo e logorante per genitori e insegnanti vittime di quelle svolte improvvise, eppure chiamati a mettere ordine nel nostro caos.
Presto sarebbe venuto il momento di trovare un ruolo che potevamo interpretare in modo convincente, ma quando cercavo di vedermi con gli occhi degli altri (a volte proprio guardandomi allo specchio) non scoprivo niente di speciale in me. Nelle foto di quegli anni, sembro il bozzetto di un personaggio dei cartoni animati: simile alla versione definitiva ma con qualcosa fuori posto.
Non un granché come paragone? Allora provate a immaginare una fotografia, la tipica foto di gruppo alla fine della scuola, facce cosí piccole che per riconoscerle devi guardarle da vicino. In quelle foto ricordo c’è sempre una figura vagamente familiare nella fila di dietro, qualcuno a cui non sono associati aneddoti, né scandali, né grandi imprese. Ecco, quello è il Charlie Lewis della classe.
Segatura
Il ballo dell’ultimo giorno di scuola aveva un’aura dissoluta da Basso Impero, seconda in questo solo alle gite didattiche di biologia. Si svolgeva in palestra, uno spazio grande abbastanza da contenere comodamente un aereo di linea. Per creare un po’ d’atmosfera, erano stati appesi festoni alle spalliere e una palla a specchi pendeva dal soffitto come una grossa mazza ferrata, ma l’ambiente era comunque freddo e austero e per le prime tre canzoni rimanemmo tutti seduti sulle panche, scrutandoci attraverso il parquet consumato, come guerrieri sul campo di battaglia. Per farci coraggio tracannavamo le ultime mignonette di Debbie Warwick, finché non rimase solo il Cointreau, un confine che nessuno osava oltrepassare. Alla consolle, il signor Hepburn, docente di geografia, ce la metteva tutta passando disperatamente da I Will Survivea Baggy Trouserse azzardò perfino Relax, che il preside Pascoe gli intimò di sfumare. Non ci rimaneva che un’ora e un quarto, quanto tempo sprecato…
Ma alle prime note di Girls & Boysdei Blur, come a un tacito segnale, ci gettammo tutti in pista dimenandoci selvaggiamente e rimanemmo lí, a ballare e a cantare a squarciagola gli ultimi successi pop. Il signor Hepburn aveva noleggiato una luce stroboscopica e la accese, incurante delle possibili conseguenze. Gli sguardi spiritati, cercavamo di imitare i ravers che avevamo visto alla tv, gettando le braccia in aria e battendo i piedi, fino a inzupparci la camicia di sudore. Quando vidi che la scritta amiciXsemprerischiava di squagliarsi, fui preso dalla commozione e mi feci largo fino alla panca, tirai fuori la maglietta da calcio dallo zainetto e, dopo essermi accertato che non puzzasse troppo, mi diressi verso lo spogliatoio.
Se era vero ciò che avevo imparato dai film horror, ossia che i muri assorbono le emozioni delle persone, lo spogliatoio della scuola andava esorcizzato. Erano accadute cose terribili lí dentro: la pila di asciugamani ammuffiti e fetidi calzini sotto cui avevamo sepolto Colin Smart, lo scherzo delle mutande che aveva spedito Paul Bunce al Pronto Soccorso. Non c’erano colpi proibiti in quell’arena, e mentre sedevo per l’ultima volta sulla panchetta, fra i ganci appendiabiti che erano in realtà armi improprie, fui preso da una profonda tristezza. Non era nostalgia: come si può avere nostalgia degli astucci pieni di sapone liquido o degli asciugamani bagnati usati a mo’ di frusta? Più probabilmente era il rammarico per le cose che non erano successe, per i cinque anni trascorsi invano. La larva si crea un bozzolo e in quel guscio le cellule si dissolvono, le molecole si rimescolano e dal bozzolo esce un altro bruco, più lungo e peloso e ancora più incerto sul proprio futuro.
Negli ultimi tempi andavo soggetto a questi attacchi di malinconia, e scrollai la testa come per svuotarla dai pensieri. Avevo davanti l’estate, un possibile intermezzo fra rimpianto del passato e paura del futuro: perché non provare a divertirmi un po’, a vivere la mia vita sperando negli eventi? La prima cosa da fare era raggiungere i miei amici che ballavano come robot giú in palestra. Mi infilai la maglietta sporca e mentre mettevo via la camicia notai una scritta che prima mi era sfuggita: mi hai fatto piangere.
La piegai con cura e la infilai nella borsa.
Quando tornai in palestra, il ballo si era fatto ancora più sfrenato, con i ragazzi che si schiantavano uno contro l’altro, come per buttare giú una porta. «Non è toccante, Charlie?» mi disse la signorina Butcher, la nostra insegnante di recitazione. Altroché, pensai, mentre i miei compagni davano libero sfogo a istinti repressi da anni, e per sfuggire a quell’atmosfera sovreccitata mi arrampicai su una spalliera. Avevo ancora nella mente le quattro parole scritte sulla mia camicia. Mi guardai intorno cercando di capire quale mano le avesse tracciate, ma era come uno di quei delitti dove tutti possono avere un movente.
Intanto, a cavalcioni sulle spalle di un compagno, i ragazzi giostravano come gli antichi cavalieri e i tonfi dei caduti sul parquet si sentivano nonostante la musica. Ormai sembrava una rissa, e c’era chi brandiva le chiavi a mo’ di pugnale. In qualità di tutore dell’ordine, il signor Hepburn mise sul piatto le Spice Girls che agirono sui ragazzi meglio di un cannone ad acqua facendoli disperdere. Le ragazze presero il loro posto, ancheggiando con malizia. A quel punto il signor Hepburn si fece dare il cambio alla consolle dalla signorina Butcher e venne verso di me attraversando la pista da ballo con la cautela di un pedone in una strada trafficata.
«Come sono andato, Charlie?»
«Lei era nato per fare il dj».
«Ma sarebbe stata una perdita troppo grave per la geografia» disse il professore, arrampicandosi accanto a me. «E dammi del tu. Ora sono Adam per te, non sono più un tuo insegnante».
Mi piaceva il signor Hepburn e ammiravo la sua perseveranza di fronte all’indifferenza dichiarata degli studenti. Scusi, professore, ma a che serve questa roba? Ci trattava in modo amichevole, pur senza mostrarsi troppo compiacente, e il suo aspetto trasandato – cravatta allentata, barba del giorno prima e capelli scarmigliati – ci aiutava a vedere in lui un compagno, se non un complice. A volte diceva perfino le parolacce, come zuccherini gettati alla folla.
Però non sarei mai riuscito a dargli del tu.
«Allora, sei pronto per il college?»
Fiutai il solito discorsetto di incoraggiamento. «Non credo che ci andrò».
«Però hai fatto domanda?»
Annuii.
«Bene».
«Ma non penso che verrà accettata».
Mi diede un timido colpetto sul ginocchio. «Be’, puoi sempre riprovare. Un ragazzo di talento come te…» Ricordavo ancora con piacere le parole di elogio che aveva avuto per il mio disegno dei vulcani, la mia sezione pareva averlo mandato in visibilio, neanche avessi scoperto una verità che i vulcanologi inseguivano da anni.
«No, mi cercherò un lavoro, a settembre…»
«Erano splendidi i tuoi vulcani, un’ombreggiatura davvero magnifica».
«È passato tanto tempo». Mi strinsi nelle spalle e di colpo mi resi conto che avevo le lacrime agli occhi. Mi voltai dall’altra parte.
«Ma potrebbero esserti utili».
«Cosa? I vulcani?»
«Le tue capacità. È chiaro che sei portato per la grafica. Se vuoi che ne parliamo, sono a tua disposizione…»
Ci stava provando? Dovevo scappare o era meglio se lo buttavo di sotto?
«Me la caverò, stia tranquillo».
«Va bene, Chaz, ma lascia che ti confidi un segreto…» Si sporse verso di me e sentii il suo alito che odorava di birra. «Non importa. Non importa quel che succede adesso. O meglio, importa, ma meno di quanto pensi… Sei cosí giovane. Puoi andare al college, oppure aspettare finché non ti sentirai pronto, hai tutta la vita davanti a te!» Il signor Hepburn accostò la guancia alla struttura di legno con aria d’intesa. «Ah, come mi piacerebbe avere di nuovo sedici anni…»
E, fortunatamente, proprio mentre ero sul punto di saltare giú, la signorina Butcher scoprí la luce stroboscopica e iniziò a farla girare a tutto spiano. Poco dopo si udí un urlo e la folla ondeggiante si fermò, formando un cerchio dentro il quale si scorgeva Debbie Warwick intenta a vomitare nel biancore delle lampade al magnesio. Come in una sequenza di fermo immagine dal vivo, si vedevano scarpe e gambe nude inzaccherate e Debbie con la mano sulla bocca che aveva solo l’effetto di ampliare l’arco dello spruzzo, come un dito sulla manichetta, finché non rimase l’unica sulla pista. Solo allora la signorina Butcher spense la luce stroboscopica e si avvicinò in punta di piedi a Debbie sfregandole la schiena.
«Studio 54» disse il signor Hepburn, scendendo dalla spalliera, poi rivolto alla collega: «Abbiamo un po’ esagerato con la luce stroboscopica, eh?» La musica si era fermata e i ragazzi si pulivano gambe e braccia con i fazzolettini di carta mentre Parky, l’addetto alla manutenzione, andava a prendere la segatura e il disinfettante. «Signore e signori, si chiude fra venti minuti» disse il signor Hepburn, tornato sul ponte di comando. «Per cui è tempo di darsi una calmata…»
I lenti che seguirono offrirono l’opportunità, autorizzata dalla scuola, di pomiciare in posizione eretta. Le prime note di 2 Become 1avevano svuotato la pista da ballo, ma frenetici negoziati erano in corso, e grazie alla macchina del ghiaccio secco fornita dal laboratorio tecnico, un manto di fumo bianco si stava diffondendo ovunque. Sally Taylor e Tim Morris furono i primi a inoltrarsi fra la nebbia, seguiti da Sharon Findlay e Patrick Rogers, i pionieri sessuali della scuola, e poi Lisa “the Body” Boden e Mark Solomon, Stephen Shanks, detto “Shanksy” e “Queen” Alison Quinn, tutti a saltellare giulivi sulla segatura.
Queste però erano coppie storiche e la folla era avida di novità. Vi furono sogghigni ed esclamazioni di stupore quando Little Colin Smart prese per mano Patricia Gibson e la trascinò verso la luce, mentre lei si copriva il volto, come un’imputata che entra in aula. Ovunque, ragazzi e ragazze si lanciavano in missioni suicide verso l’oggetto delle loro brame che a volte li accoglieva a braccia aperte e a volte li respingeva con un sorrisetto gelido, fra il pubblico ludibrio.
«È odiosa questa roba, vero?»
Helen Beavis si era arrampicata accanto a me sulla spalliera. Artista e campionessa di hockey, Helen era chiamata La Roccia a causa della stazza. «Guarda Lisa!» disse. «Sembra che voglia infilarci anche la testa in bocca a Mark Solomon, non solo la lingua».
«E scommetto che lui sta masticando il chewing gum».
«Sí, fra un po’ farà le bolle».
C’era una certa simpatia fra me e Helen, ma la cosa non aveva mai quagliato. Lei era davvero brava nelle materie artistiche, dipingeva grandi tele con titoli evocativi, tipo Divisione, e aveva sempre qualcosa ad asciugare nel forno da ceramica. Io ero solo un “buon disegnatore”, specializzato in zombie e pirati spaziali, teschi con ancora un occhio vivo nell’orbita, tutte figure che prendevo dai videogame e dai fumetti, il tipo di immagini che dovrebbero insospettire un buon psicopedagogista. «Sai una cosa, Lewis?» mi aveva detto un giorno Helen, osservando attentamente uno dei miei mercenari intergalattici. «Sei proprio bravo a disegnare il corpo umano. E anche i vestiti. Pensa cosa potresti fare se disegnassi una persona vera!»
Non avevo risposto. Helen Beavis era troppo in gamba per me, e le sue battute mi facevano morir dal ridere anche se a volte le pronunciava sottovoce, quasi solo per se stessa. Però non sempre riuscivo a cogliere la sua ironia, e anche quando parlava sul serio faticavo a seguire i suoi ragionamenti. Era questo l’ostacolo principale fra noi.
«Lo sai che ci vorrebbe in questa palestra? Dei portacenere. Ehi, si può già fumare?»
«No… mancano venti minuti».
Helen Beavis era una fumatrice incallita e non vedeva l’ora di uscire per accendersi una delle sue Marlboro al mentolo che quando rideva le ballavano sulle labbra come la pipa di Braccio di Ferro. Una volta l’avevo vista tapparsi una narice e tirare il moccio su una siepe di ligustro, a tre metri di distanza. Aveva il peggior taglio di capelli che si potesse immaginare, punte da punk e basettoni che parevano uno scarabocchio. Nel misterioso codice della nostra adolescenza, capelli orribili, più hockey, più gambe non depilate equivaleva a lesbica, una parola potente all’epoca per noi maschietti, capace di rendere una ragazza molto interessante o del tutto priva di interesse. Esistevano solo due tipi di lesbiche e Helen, non essendo come quelle che comparivano sulle riviste comprate da Martin Harper, non riscuoteva alcun successo, ma non gliene importava niente, credo.
Finalmente, la palla a specchi iniziò a ruotare lentamente. «Ah, che magia» disse Helen in tono sarcastico, guardando i ballerini avvinghiati sulla pista. «Hai notato che la gente balla sempre in senso orario?»
«Allora nell’altro emisfero ballano in senso antiorario? E all’equatore?»
«Boh, staranno fermi».
Ci rimettemmo a guardare i ballerini. «Povera Trish» disse Helen, guardando Patricia Gibson che, una mano sugli occhi, pareva indecisa se continuare a ballare o tagliare la corda. «E la patta di Colin Smart ha una forma interessante. Strano posto per metterci il righello». Helen fece finta di sparargli. «È capitato anche a me» aggiunse «con uno di cui non mi è consentito fare il nome. Non è divertente, come se ti piantassero un cuneo in un fianco!»
«Per i ragazzi è più piacevole» osservai.
«E allora andate a sfregarvi contro gli alberi! Toglilo dal tuo arsenale, Charles». Altrove, si vedevano mani in cerca di natiche, vi posavano incerte o le palpavano come se fosse l’impasto della pizza. «Mi disgusta questa roba e non perché sono una lesbica dichiarata». Mi mossi inquieto sulla sbarra, stupito dalla sua franchezza. Ma poco dopo Helen disse: «Non è che vuoi ballare?»
Aggrottai la fronte. «Io? Neanche per idea».
«Neanch’io» fece Helen. «Ma se vuoi chiedere a qualcuna…»
«No, sto bene qui».
«Nessuna cotta, Charlie Lewis? Non hai nessuno a cui dichiararti, nell’ora estrema?»
«No. E tu?»
«Io? È come se fossi morta dentro. E comunque l’amore è un’invenzione borghese. La vedi quella nebbiolina bianca?» disse Helen indicando la pista da ballo. «Non è il ghiaccio secco, sono i feromoni. Senti che odore» aggiunse annusando l’aria. «L’amore sa di vomito e disinfettante».
Poi la voce del signor Hepburn tuonò: «Questa è l’ultima canzone, signore e signori! Coraggio, ragazzi, tutti in pista!» Mentre partivano le prime note di Careless Whisper, Helen indicò una ragazza che stava venendo verso di noi. Era Emily Joyce. Emily disse qualcosa ma era ancora troppo lontana perché potessimo sentire.
«…»
«Cosa?»
«…»
«Non sento…»
«Ciao! Ti stavo solo salutando, Charles».
«Ah, ciao, Emily».
«Helen».
«Emily».
«Che state facendo?»
«Siamo due voyeur» disse Helen.
«Cosa?»
«Ci piace guardare» dissi.
«Allora avete visto quando Mark ha infilato la mano sotto la gonna di Lisa?»
«Purtroppo quello ce lo siamo perso» disse Helen. «Ma li abbiamo visti mentre si baciavano, una cosa incredibile. Hai mai visto un pitone che inghiotte un cinghialetto?»
«Cosa?» strillò Emily facendole gli occhiacci.
«Ho detto, hai mai visto un pitone che inghiotte…»
«Senti, vuoi ballare o no?» disse Emily, toccandomi la rotula con aria spazientita.
«Vai» mi disse Helen. «Non preoccuparti per me».
«Va bene» dissi, saltando giú senza troppo entusiasmo.
«E cercate di non scivolare sul vomito, piccioncini!» ci gridò dietro Helen mentre andavamo verso la pista da ballo.
Balli lenti
Rimanemmo per qualche istante imbambolati, come due pensionati in un dancing, poi Emily corresse la posizione della mia mano, guidandola sulla sua schiena, e a quel punto chiusi gli occhi cercando di capire come mi sentivo. Il firmamento artificiale mi invitava al romanticismo, il sax rauco, la prossimità del corpo femminile e la fibbia del reggiseno sotto le mie dita avrebbero dovuto accendere il desiderio in me, ma ero solo imbarazzato e non vedevo l’ora che la canzone finisse. Mi sentivo ridicolo e mi parve di vedere Lloyd e Fox che mi guardavano fingendo di baciarsi. Come contromossa, mostrai loro il dito medio e rotolai via con la mia dama, fra le note dell’assolo di sassofono. Di’ qualcosa, qualunque cosa…
Ma fu Emily la prima a parlare. «Sai di ragazzo».
«Oh. Sí, è una vecchia maglietta da calcio. Non avevo altro, scusami».
«No, mi piace» disse, annusandomi, e subito dopo sentii le labbra di Emily come una pezzuola umida sul collo. Avevo baciato solo due ragazze prima di allora, anche se si era trattato più che altro di collisioni facciali. La prima volta era successo nella penombra di una saletta durante la proiezione di un audiovisivo sulle rovine romane. Come lo snowboard e il tip tap, l’arte di baciare non è innata e non basta guardare gli altri per impararla. Inoltre Becky Boyne aveva visto la gente baciarsi solo nei film di Walt Disney, e teneva le labbra a bocciolo, picchiettandomi sul viso come un uccellino affamato. I film le avevano anche insegnato che un bacio non è un vero bacio se non fa rumore, per cui accompagnava ogni contatto con schiocchi simili a quelli che si fanno per imitare lo zoccolio dei cavalli. E gli occhi, bisognava tenerli aperti o chiusi? Io li avevo tenuti aperti temendo che qualcuno ci cogliesse sul fatto e, guardando le immagini alle spalle di Becky, avevo scoperto fra l’altro che i romani erano stati gli inventori del riscaldamento a pavimento.
Invece quando avevo limonato con Sharon Findlay avevamo entrambi la bocca spalancata come squali voraci. Harper disponeva di una tana, una specie di bunker nello scantinato di casa sua che il venerdí sera sembrava il rifugio antiatomico della Playboy Mansion. Harper vi organizzava festicciole scalmanate a base di dvd e birra corretta con l’aspirina, e una sera mi ero appartato con la bella Sharon dietro il divano, fra ciuffi di polvere e mosche morte. Avevo scoperto cosí che la lingua è un muscolo potente come le braccia di una stella marina, e la mia lingua si era azzuffata ferocemente con quella di Sharon, come due ubriachi che s’incontrano in un corridoio troppo stretto. Ogni volta che cercavo di sollevare la testa, lei me la tirava giú con forza nella polvere, come un pompelmo nello spremiagrumi. A un certo punto le era scappato un rutto che mi aveva gonfiato le guance e quando, finalmente, ci eravamo staccati, si era asciugata la bocca sul braccio. L’esperienza mi aveva lasciato scosso, con le mandibole indolenzite, qualche escoriazione sulle labbra e un lieve senso di nausea, avendo ingerito un bicchierotto di saliva altrui. Però ero anche stranamente eccitato, come dopo un inebriante giro di giostra, e non avrei saputo dire se volevo rifarlo immediatamente o mai più nella vita.
Il dilemma aveva trovato soluzione quella sera stessa, quando Sharon si era messa con Patrick Rogers. Passammo loro accanto volteggiando, io ed Emily, mentre si divoravano a vicenda sotto la palla a specchi. Poco dopo sentii un’altra pezzuola bagnata sul collo, seguita da una frase sussurrata che si perse nella musica.
«Cosa?»
«Ho detto che…» Emily bofonchiava con la faccia sulla mia gola, per cui afferrai solo l’ultima parola, «vasca».
«Non ti sento…»
Ripeté la frase e capii che aveva detto qualcosa a proposito del bagno. Forse voleva dire che avevo bisogno di una bella lavata?
«Puoi ripetere?»
Emily farfugliò qualcosa.
«Nella vasca? Cosa nella vasca?» feci io.
A quel punto la mia dama mi tolse la faccia dal collo e mi guardò con aria inviperita. «Cazzo, ho detto che ti penso quando sono nella vasca!»
«Ah. Davvero? Mi fa piacere!» dissi, ma non mi pareva abbastanza, per cui aggiunsi: «Anch’io!»
«Cosa?»
«Anch’io, no?»
«Volevo dire che… Oh, lascia perdere. Gesú!» Con uno sbuffo Emily rimise la testa dov’era prima, ma eravamo entrambi a disagio, ormai, e fummo sollevati quando la canzone finí. Nel silenzio improvviso, le coppie cominciarono ad allontanarsi, le facce accaldate e sorridenti. «Dove vai dopo?» mi chiese Emily.
«Non lo so, pensavo di fare un salto da Harper».
«Nella tana. Ah, okay». Mise il broncio, soffiando sulla frangetta. «Non ci sono mai stata» disse. Avrei potuto invitarla, ma la tana di Harper era un posto estremamente esclusivo. L’attimo passò ed Emily mi diede una manata sul petto. «Ci vediamo». Ero stato scaricato.
«Okay, signore e signori!» fece il signor Hepburn avvicinandosi al microfono. «Mi dicono che c’è tempo per un’altra canzone! Voglio vedervi tutti in pista! Tutti! Siete pronti? Più forte, non vi sento: siete pronti? E mi raccomando, ballate intorno alla segatura! Andiamo!»
La canzone era Heart of Glassdei Blondie, una cosa remota per noi quasi quanto In the Mood, ma potente perché l’intero corpo studentesco scese in pista, i ragazzi del corso di recitazione, gli artistoidi e perfino Debbie Warwick, ancorché pallida e malferma sulle gambe. I tecnici del laboratorio diedero fondo al ghiaccio secco, il signor Hepburn alzò il volume e, fra urla e risate, Patrick Rogers si tolse la camicia e la fece roteare in aria, nella speranza di lanciare una nuova tendenza; poi, visto che nessuno lo imitava, se la infilò di nuovo. Ora a fare sensazione erano Lloyd e Fox che fingevano di limonare, e Little Colin Smart, unico maschio del corso di recitazione, che faceva le capriole. Intanto Gordon Gilbert, distruttore di tromboni, era salito sulle spalle di Tony Stevens e si era aggrappato alla palla a specchi, come fosse una boa, ma Tony se lo scrollò di dosso lasciandolo lí a penzolare nel vuoto, con Parky, l’addetto alla manutenzione, che lo pungolava da sotto col manico della scopa. «Guardate! Guardate!» gridò qualcuno, e vidi Tim Morris che faceva la breakdance roteando sul pavimento come una trottola; ma appena finí sulla segatura, balzò in piedi spolverandosi i calzoni. Qualcuno mi posò le mani sui fianchi ed era Harper che mi gridava: «Ti voglio bene, amico!» dandomi un bacio assordante sull’orecchio, e intanto qualcun altro mi era salito in groppa e un attimo dopo eravamo un pacchetto di mischia, io, Fox, Lloyd e Harper, e ci sbellicavamo dalle risate per battute che capivamo solo noi. A un tratto pensai che forse quelli erano stati gli anni più belli delle nostre vite e mi venne il magone. Avrei tanto voluto che fosse sempre cosí, l’affetto e il senso di complicità di una banda di scapestrati, parlarsi sempre a viso aperto. Perché avevamo aspettato fino all’ultimo ad aprirci? Ma era troppo tardi ormai, la canzone stava per finire: uh-uh uh-oh-oh, uh-uh uh-oh-oh. Il sudore ci incollava i vestiti alla pelle, bruciava negli occhi e ci colava dal naso, e quando mi alzai dalla mischia vidi per un attimo Helen Beavis che ballava da sola, ingobbita come un pugile, poi all’improvviso le porte antincendio si spalancarono e un chiarore atomico si riversò dentro, come la luce della nave spaziale alla fine di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Abbagliato, Gordon Gilbert si lasciò cadere dalla palla a specchi e la musica cessò di colpo. La festa era finita.
Erano le tre e cinquantacinque.
Avevamo dimenticato il conto alla rovescia e ora eravamo lí, le nostre sagome che si stagliavano contro la luce del giorno, e sbattevamo le palpebre confusi, mentre il personale ci invitava a uscire. Raccogliemmo le nostre cose – bastoni da hockey e vasetti di creta, cestini del pranzo, diorama sgualciti e magliette sporche – e ci trascinammo verso il cortile come profughi. Le ragazze si aggrappavano in lacrime alle amiche, e dalla rimessa giunse la notizia che tutti i copertoni delle biciclette erano stati squarciati, un ultimo e insensato atto di vandalismo.
Fuori dai cancelli, molti ragazzi si accalcarono intorno al furgoncino dei gelati. La libertà che avevamo appena finito di festeggiare ci appariva di colpo assurda e inquietante come un esilio e, simili ad animali liberati troppo presto, guardavamo la gabbia quasi con nostalgia. Scorsi mia sorella Billie dall’altra parte della strada. Ormai non ci parlavamo quasi più, ma la salutai con la mano. Lei mi sorrise e si allontanò.
Noi quattro ci avviammo verso casa per l’ultima volta, consapevoli di star vivendo un momento memorabile. Vedemmo una colonna di fumo levarsi dal bosco di betulle accanto alla ferrovia, le fiamme arancioni della pira funeraria che Gordon Gilbert e Tony Stevens alimentavano con quaderni, divise e libri di testo. Esultavano, gridando come selvaggi, ma noi proseguimmo fino all’incrocio dove ci separavamo di solito. Indugiammo ancora. Forse avremmo dovuto celebrare anche noi l’evento? Dire qualche parola, magari abbracciarci? Ma eravamo poco inclini al sentimentalismo. E la nostra era una piccola città dove perdersi di vista non era facile, anche se volevi.
«Allora, ci si vede».
«Ti chiamo uno di questi giorni».
«Venerdí?»
«Ti saluto».
«Ciao».
E cosí mi avviai, tristemente, verso la casa di mio padre.
L’infinito
Avevo spesso lo stesso incubo ispirato a 2001: Odissea nello spazio, che avevo visto quando ero ancora troppo piccolo: precipitavo nello spazio infinito ed ero terrorizzato, non perché temessi di morire soffocato, ma perché non avevo niente a cui aggrapparmi e sapevo che avrei continuato per sempre a ruzzolare nel vuoto.
L’estate dopo la fine della scuola era un po’ cosí. Come riempire quelle giornate infinitamente lunghe? Nelle ultime settimane avevamo fatto dei progetti: gite a Londra a caccia di ragazze, o spedizioni nei boschi alla Tom Sawyer, gli zaini pieni di lattine di birra. «Sbevazze da campo», era cosí che le chiamavamo. Ma Fox e Harper si erano messi a lavorare in nero per il papà di Harper che aveva un’impresa edile, e il piano era naufragato. Poi anch’io avevo cominciato a lavorare, anch’io in nero, alla cassa di una stazione di servizio.
Questo però mi assorbiva solo per dodici ore la settimana. Avevo per me tutto il resto del tempo e non sapevo che farmene. Il gusto di dormire fino a tardi era durato poco e mi deprimeva la luce che filtrava dalle tende, il pensiero delle giornate interminabili che mi attendevano. Avevo imparato dalla fantascienza, più che dalle lezioni di fisica, che il tempo si comporta in modo diverso a seconda del luogo in cui ti trovi, e nel mio letto di sedicenne, alla fine di giugno del 1997, scorreva più lentamente che in ogni altra parte del cosmo.
Ci eravamo trasferiti lí poco dopo Natale, e mi mancava tanto la “grande casa” dove stavamo prima, imponente e squadrata come le case disegnate dai bambini, con il corrimano dove era bello scivolare e una camera ciascuno per me e mia sorella, il parcheggio e il giardino con le altalene. Mio padre l’aveva comprata spinto da un ingiustificato accesso di ottimismo. Com’era orgoglioso il giorno che ce l’aveva fatta vedere, picchiettando sulle pareti per dimostrare la loro robustezza e accarezzando i termosifoni che ci avrebbero fatto stare sempre belli caldi.
C’erano il bovindo dove potevo sedermi a guardare il traffico come un piccolo lord, e la cosa più straordinaria di tutte, una finestrella a vetri colorati sopra la porta d’ingresso, un’alba giallo oro e rossa.
Ma la grande casa apparteneva al passato. Ora io e mio padre abitavamo in un quartiere costruito negli anni Ottanta, chiamato “La Biblioteca” perché le strade avevano il nome di grandi scrittori, con Woolf Road che sbucava in Tennyson Square e Mary Shelley Avenue che attraversava Coleridge Lane. Noi stavamo in Thackeray Crescent, e sebbene non avessi mai letto Thackeray sapevo che la nostra casa non aveva nulla a che fare con lui. Erano edifici moderni, mattoni chiari e tetto piano, con la caratteristica forma arcuata che, vista dagli aerei in avvicinamento all’aeroporto, dovevano far pensare a grassi bruchi gialli. Lloyd diceva che sembrava uscita da Star Wars. Quando ci eravamo trasferiti – eravamo ancora in quattro allora – papà diceva che gli piacevano le pareti curve, perché a suo parere esprimevano meglio il carattere creativo e anticonformista della nostra famiglia. Certo, il quartiere aveva perduto il fascino modernista delle origini, i minuscoli giardinetti delle case erano quasi tutti incolti e a volte ti imbattevi in un carrello della spesa abbandonato nei viali deserti, ma sarebbe stato comunque un nuovo capitolo della storia di famiglia, e non avremmo più avuto grattacapi economici. D’accordo, io e mia sorella saremmo stati costretti a dormire nella stessa stanza, ma i letti a castello erano divertenti e poi non sarebbe stato cosí per sempre.
Sei mesi dopo, c’erano ancora scatoloni da aprire contro le pareti ricurve o ammucchiati sul letto vuoto di mia sorella. I miei amici non venivano quasi mai a trovarmi, preferendo di gran lunga la casa di Harper, che sembrava il palazzo di un dittatore rumeno, con due juke-box e i vogatori, i quad in giardino e televisori immensi, una spada da samurai e abbastanza fucili ad aria compressa da respingere un’orda di zombie. A casa mia invece c’era solo un padre svitato e la sua collezione di dischi jazz. Nemmeno io avevo voglia di andarci.
Né di rimanerci. L’obiettivo principale che mi proponevo per quell’estate era di evitare papà. Avevo imparato a valutare il suo stato d’animo in base ai rumori che produceva, e ne seguivo le tracce come un cacciatore. Le pareti di casa erano sottili come quelle giapponesi e finché c’era silenzio conveniva rimanere rintanati sotto il piumone, nella mia stanzetta con l’aria che odorava di chiuso. Se per le dieci non aveva ancora dato segni di vita, voleva dire che era una di quelle giornate che papà trascorreva a letto, e potevo avventurarmi al piano di sotto. Negli anni di vacche grasse, papà aveva comprato un computer di seconda mano, grosso come un mobiletto e fatto, credo, di bakelite. Se rimaneva a letto, potevo allegramente perdere la mattinata nei labirinti claustrofobici di Doome Quake, purché fossi svelto a spegnere il monitor appena sentivo i suoi passi sulle scale: i videogame suscitavano in mio padre una furia irrazionale, quasi fosse a lui che sparavo.
Ma la maggior parte dei giorni si alzava verso le nove e lo sentivo andare in bagno, al di là della parete. Il fruscio di mio padre che pisciava accanto alla mia testa era la più efficace delle sveglie e saltavo giú dal letto, mi infilavo i vestiti del giorno prima e scendevo, agile e silenzioso come un ninja, a vedere se gli erano rimaste delle sigarette. Se ce n’erano almeno dieci potevo tranquillamente prenderne una e infilarla nella tasca dello zaino. Facevo colazione in piedi davanti alla mensola – un’altra bizzarria della casa era l’assenza di un tavolo degno di questo nome – e uscivo prima che lui scendesse.
Ma se non facevo in tempo, me lo vedevo comparire davanti, gli occhi cisposi e i segni del cuscino sul viso, e ci scontravamo armeggiando fra il bollitore e il tostapane, secondo il solito copione.
«Cos’è, pranzo o colazione?»
«Io lo chiamo brunch».
«Il raffinato. Sono quasi le dieci…»
«Senti chi parla!»
«Non riuscivo a dormire… perché non usi il piatto?»
«Ce l’ho il piatto».
«E allora com’è che la mensola è sempre piena di briciole?»
«Perché non ho avuto il tempo di…»
«Usa i piatti!»
«Eccolo, ce l’ho in mano, il piatto, il mio piatto…»
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L’autore
David Nichollsha lavorato a lungo con la BBC realizzando adattamenti shakespeariani e numerose serie di successo, premiate con due nomination per i BAFTA Awards. Tra i suoi romanzi Le domande di Brian (BEAT 2011), Il sostituto (BEAT 2012) e Un giorno (Neri Pozza 2010), da cui è stato tratto un celebre film diretto da Lone Scherfig, con Anne Hathaway e Jim Sturgess.
- Un dolore così dolce
- David Nicholls
- Traduttore: Massimo Ortelio
- Editore: Neri Pozza
- Collana: Bloom
- Anno edizione: 2019
- Pagine: 383 p., Brossura
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