Si chiama Kafè Dosto’ ed è, come si usa dire oggi, uno spazio per parlare di Dostoevskij

UN KAFÈ CON DOSTOEVSKIJ.

CONTRO IL LOGORIO DEL NICHILISMO MODERNO


Si chiama Kafè Dosto’ ed è, come si usa dire oggi, uno spazio per parlare di Dostoevskij e magari anche conversare con lui, con la sua vita, il suo pensiero, le sue opere e la sua fede. L’intento fondamentale è quello di restituire a Fëdor Michajlovič la parola che di questi tempi non solo gli viene negata, ma, peggio ancora, mutata nel senso e nello spirito.

Qui a Ricognizioni, l’idea era nell’aria da tempo e ora non si concretizza banalmente nello stigmatizzare la censura dell’università Bicocca sul più grande romanziere che la Provvidenza abbia regalato a noi poveri mortali. Però bisogna riconoscere che la cronaca spesso manifesta oltre ogni più celata intenzione i segni dei tempi, oggi metafisicamente così inquietanti. Il caso è noto e non mette conto di riassumerlo, se non nel pensiero condizionato che ne sta al fondo. La colpa di Dosto’, come ormai tutti sanno, è quella di rappresentare un vertice della cultura russa ora che il mondo cosiddetto civile “una mattina / si è svegliato / ed ha trovato l’invasor”: russo, naturalmente, perché i tempi cambiano anche se gli idioti restano. Così l’ex opinione ex pubblica, dopo essere stata per due anni covid-centrica, ora si è improvvisamente scoperta ucraino-centrica.

Questo occidente, bislaccamente tramontato senza neppure rendersene conto, oggi è felicemente malato di russofobia e vede nella censura di Dostoevskij un buon esercizio di risveglio muscolare per l’intellettuale collettivo. Scambia per un segno di salute l’ennesima metastasi di un male più profondo e oscuro che il grande russo aveva diagnosticato più di un secolo mezzo fa e si chiama nichilismo. Ma non sono solo i censori di Dosto’ a soffrirne, ne patiscono anche molti, troppi censori dei censori, gelosi custodi di una libertà pelosa preposti a concedere la parola purché venga detta entro i reticolati della cultura dominante.

Mi interessa poco infierire sui poveri argomenti del magnifico rettore dell’ateneo milanese, o magnifica rettrice visto che in questi tempi barbari per una donna si usa dire così. Ho raggiunto un’età in cui si comprende che il grottesco non ha limiti se non negli abissi infernali dove nessuna parola ha più senso. E poi, guardare anche solo da lontano l’orrore dell’intelletto non è mai un esercizio salutare. Neppure ritengo interessante entrare nel dettaglio del corso su Dostoevskij prima negato, poi rinviato, poi concesso ma solo se accompagnato alla lettura di autori ucraini e poi portato dal titolare in altra sede. Siamo nell’ambito del trinariciutismo a suo tempo così ben stigmatizzato da Guareschi che nessuna pochezza di intelletto può veramente coglierci impreparati.

Mi preme di più, nel presentare Kafè Dosto’, accennare a un altro liquame intellettuale, proveniente in realtà dalla stessa cloaca, ma da un ramo più profondo, oscuro e pericoloso. Mi riferisco alle ipocrite alzate di testa di coloro che hanno subissato di improperi la magnifica rettrice bicocchiana e poi hanno spiegato che Dostoevskij va letto e studiato, sì, ma come antidoto a una certa idea della Russia e, ça va sans dire, a quel cattivo di Putin. Il brodo di cultura non lascia dubbi sulla qualità del dado gettato nel calderone. E va notato che, salvo alcune lodevoli nicchie di resistenza, la sbobba se la sono trangugiata voracemente e a reti unificate tanto a destra quanto a sinistra in campo politico, culturale, sociale e religioso.

Il frutto cresciuto su tale terreno mefitico si è palesato in un gran parlare di Dostoevskij in cui hanno messo becco tutti, soprattutto coloro che non ne hanno letto neppure una pagina e quindi non temono il ridicolo o lo spergiuro nel fargli dire quanto più aggrada all’intellettuale collettivo: che “Dostoevskij è da leggere come antidoto a Putin”. Neanche Dosto’ mi lasciano in pace.

Ora, non dico uno dei grandi romanzi, ché sono lunghi e non ci stanno in un messaggio di whatsapp o in un tweet, ma almeno il più breve articolo del Diario di uno scrittore qualcuno avrebbe anche potuto scorrerlo: Bompiani, 1.402 pagine suddivise in pezzi anche brevi, 40 euro. Che ne so, vi si potrebbe esercitare il ministro per gli Affari Esteri dell’attuale governo italiano che ha definito il Presidente della Federazione Russa “peggio di un animale” senza alcuna significativa reazione di maggioranza, opposizione e società “civile”.

Fra le pagine del Diario, gli adattatori di Dostevskij alle sirene del mondo e della Nato si imbatterebbero in qualche sorpresa. Scoprirebbero, per esempio, come, circa la “questione slava” in voga nei circoli culturali moscoviti e pietroburghesi, Fëdor Michajlovič proclamasse la superiorità della sua terra sull’Europa occidentale e sostenesse che quest’ultima, in qualche modo, appartiene a un destino comune per l’oriente e l’occidente da decidere sul suolo russo.

Non c’è un solo rigo di occidentalmente corretto nell’opera di Dostoevskij, stante che l’occidente è divenuto quel che è. Ma è proprio in tale chiave che se ne può cogliere l’universalità, da non confondere con il cosmopolitismo tanto caro a chi non va oltre Woody Allen e le sue turbe. Dio, la religiosità ortodossa, il rapporto con terra e il mondo, il peccato, la redenzione sono temi incomprensibili nello spirito dostoevskijano se si rapportano ai cascami europoidi intrisi di razionalismo e di romanticismo, due facce di una sola medaglia.

Stessa considerazione vale per le rivendicazioni territoriali, la storia, il futuro di città e popoli su cui il grande russo si intrattiene a lungo e con profondità illuminante anche sull’oggi. Tutte argomentazioni difficilmente comprensibili per un occidente nato già vecchio e preda dei poveri appetiti nazionalisti di cui l’esempio italiano è un caso di scuola fin nella cultura che lo ha cullato.

Più o meno in quegli anni l’Italia, nel sentimento borghese incarnato da Manzoni, si diceva “Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” e tanto le bastava per aspirare a un posto al sole. Intanto, nel Diario, Dostoevskij auspicava l’annessione di Costantinopoli alla Russia in nome di una inequivocabile chiamata all’universalità. A questo proposito scrive Armando Torno nell’introduzione che “il desiderio di annettere Costantinopoli alla Russia dobbiamo intenderlo come un sogno religioso e non semplicemente come un’esperienza politica. (…) Dostoevskij chiede appunto Costantinopoli in nome dell’universalità del cristianesimo russo”.

Elemento tanto presente al suo spirito da portarlo a rispondere così a chi gli chiedeva come entrasse la sua idea di Russia in una tale visione metafisica della storia: 

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]“Come guida dell’Ortodossia, come protettrice e conservatrice di essa, una parte le spetta già dai tempi di Ivan III e per indicare la quale questi mise l’aquila bizantina a due teste al di sopra dell’antico stemma della Russia. (…) Questo diritto sull’antica Zargrad sarebbe comprensibile e non offensivo per gli stessi slavi, gelosi della loro indipendenza, e perfino per gli stessi greci. In questo modo si darebbe a conoscere la vera essenza dei rapporti politici che debbono immancabilmente sorgere tra la Russia e tutte le nazioni ortodosse, greche o slave che siano. La Russia è la loro protettrice e forse anche la loro guida, non però la loro dominatrice; la loro madre e non la loro padrona”. [/stextbox]

Bastano poche citazioni per capire quanto siano peregrine le reprimende ai censori di Dostoevskij esibite in favore di camera in nome di un Dostoevskij che non esiste. Il paradosso di una realtà così grottesca sta nel fatto che gli uni e gli altri, censori e pelosi censori dei censori, appartengono allo stesso mondo che lo scrittore russo descrive nei suoi romanzi come frutto di un nichilismo già conclamato anche se riconosciuto soltanto dai grandi spiriti. Come Fëdor Michajlovič, che lo aveva individuato e vinto nell’abbandono a Cristo, o come Nietzsche, che ne era divenuto preda assumendolo nel tentativo di superarlo affidandosi all’uomo nuovo.

Nessuno pretende che l’intellettuale collettivo studi e annoti I demoni con l’ acribia e la lacerante passione del filosofo tedesco, ma che almeno ci buttasse un occhio. Troverebbe il suo credo nelle pagine in cui i nichilisti discettano sulla vita, sulla morte, su Dio.

Verchovenski, per esempio, nella reperibilissima edizione Oscar Mondadori pagina 428: 

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]“Le persone con doti superiori non possono non essere dispotiche e hanno sempre corrotto più che giovato; esse vengono scacciate o soppresse. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi, Shakespeare viene lapidato (…). Gli schiavi devono essere eguali: senza dispotismo non c’è ancora stata né libertà né eguaglianza. (…) La sete di istruzione è una sete aristocratica. Non appena sorge la famiglia o l’amore, ecco già anche il desiderio della proprietà. Noi faremo morire il desiderio: diffonderemo le sbornie, i pettegolezzi, le denunce; spargeremo una corruzione inaudita, spegneremo ogni genio nelle fasce. Tutto allo stesso denominatore, l’eguaglianza perfetta. (…) Piena obbedienza, completa assenza di personalità, ma una volta ogni trent’anni (…) si scatena anche una convulsione e tutti cominceranno a un tratto a divorarsi l’un l’altro, però fino a un certo punto, unicamente per evitare la noia”.[/stextbox]

Difficilmente l’intellettuale collettivo, peloso difensore di Dostoevskij, potrà dire che questo non sia l’occidental way of life a cui si è votato e in cui sguazza così bene poiché tutto è permesso. Non può dirlo, lui che è figlio spirituale del Kirillov (è il geniale personaggio de I Demoni) teorico del suicidio metafisico come espediente ultimo per sostituirsi a Dio. Medesima opera e medesima edizione, pagina 116: 

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]“Chiunque voglia la libertà suprema deve avere il coraggio di uccidersi. (…) Più in là non c’è libertà; qui è tutto e più in là non c’è nulla. Chi ha il coraggio di uccidersi, quello è Dio. Ora ognuno può fare che non ci sia più Dio e che non ci sia più nulla”. [/stextbox]

Per essere la presentazione di un’iniziativa pur importante e appassionante come la riflessione sulla figura di Dostoevskij mi pare di averla tirata anche troppo in lungo. Ma ritengo importante spiegare onestamente cosa cercheremo di offrire a chi ci segue.

Dunque, si chiama Kafè Dosto’ e ora l’abbiamo aperto. In lettura e scrittura è accessibile a tutti gli amici di Ricognizioni: redattori, collaboratori e lettori dotati di un pensiero che nulla abbia di collettivo. Si entra senza green pass.

Alessandro Gnocchi

 

 

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