Delma Pugliese, la brillante e tenace investigatrice indaga
UN MISTERO A VILLA DEL BALBIANELLO
Un nuovo caso per Delma Pugliese
racconto
di Riccardo Alberto Quattrini
Immersa nel fascino senza tempo del Lago di Como, Villa del Balbianello nasconde molto più di quello che i suoi splendidi giardini e le eleganti sale lasciano trasparire. Una telefonata inaspettata richiama Delma Pugliese, la brillante e tenace investigatrice, in un luogo dove passato e presente si intrecciano in un gioco pericoloso. Segreti di famiglia, antichi manoscritti e una rete di bugie rischiando di trascinare Delma in un vortice da cui sarà difficile uscire. Questa volta, ogni passo falso potrebbe costarle molto caro. Un’avventura avvincente e misteriosa, in un’ambientazione che incanta con la sua bellezza e inquieta con i suoi segreti.
Era una notte gelida, il tipo di freddo che penetra le ossa e rende il lago un’enorme distesa d’inchiostro scuro. La villa del Balbianello, un gioiello arroccato sulla punta della penisola di Laveno, si stagliava come un’antica sentinella contro il cielo stellato. Il vento sussurrava tra gli alberi, portando con sé un silenzio carico di presagi.
Simonetta Lucrezia Ferrante, donna dai capelli biondo cenere e occhi di giada, era sola nella grande sala principale. Il caminetto acceso gettava ombre danzanti sulle pareti rivestite di arazzi e quadri antichi. Indossava un abito di seta color rubino, una scelta vistosa per una serata in solitaria.
Accanto a lei, un bicchiere di vino rosso e una scatola di velluto nero. Aveva appena estratto il contenuto: un medaglione antico, ornato di pietre preziose e inciso con un’intrigante iscrizione in latino.
Un colpo secco squarciò la notte. La donna crollò al suolo, il medaglione ancora stretto nella mano destra. Sul tappeto persiano si allargava una macchia scura, mentre il silenzio tornava a regnare sovrano.
Delma Pugliese era appena rientrata dal turno serale. Nella sua casa ordinata ma vissuta, si era concessa il lusso di una tisana calda e di un libro lasciato a metà sul tavolino accanto al divano. Il piccolo Bacco, il suo Jack Russell, sonnecchiava acciambellato sul tappeto, ogni tanto scattando nel sonno come se rincorresse qualcosa nei sogni.
Il telefono squillò, spezzando quella tranquillità.
«Pugliese», rispose, con un tono che tradiva la stanchezza.
Dall’altro lato della linea, la voce del sostituto procuratore Bruno Canepa era fredda e diretta. «Maresciallo, abbiamo un caso alla villa del Balbianello. La vittima è Simonetta Lucrezia Ferrante, moglie dell’industriale Mariano Ferrante. Il corpo è stato trovato questa notte. La scientifica è già sul posto. Serve il tuo intuito.»
Delma posò il telefono e sospirò. «Anche questa notte niente riposo, Bacco.»
Si preparò in fretta, infilandosi la divisa impeccabile, e diede un’occhiata veloce allo specchio: i capelli neri raccolti in una treccia, il volto stanco ma determinato. Era consapevole di avere uno sguardo magnetico, quegli occhi profondi che in molti trovavano tanto affascinanti quanto intimidatori. Ma lei non si soffermava mai su queste cose: il suo unico pensiero era il lavoro.
Era il caso “Placebo”, un’indagine complessa che aveva messo in luce non solo l’intuito di Delma ma anche il carattere difficile di Canepa. All’epoca, il sostituto procuratore era appena arrivato a Lecco. Giovane, ambizioso, con un piglio da accademico che alternava arroganza e rigore, aveva fatto subito capire che la sua presenza non sarebbe passata inosservata.
Delma ricordava perfettamente il loro primo incontro. Canepa si era presentato in ufficio con un completo grigio impeccabile, i capelli lunghi e lisci che sfioravano il colletto della camicia e una cartellina di pelle sotto il braccio.
«Maresciallo Pugliese», aveva detto, tendendole la mano con un sorriso appena accennato. «È un piacere conoscerla. Ho letto il suo rapporto sul caso dell’odontoiatra. Mi è sembrato… competente.»
“Competente.” Una parola che a Delma era sembrata più un’arma spuntata che un complimento. Non si era lasciata intimorire. «Grazie, dottore. Mi auguro che troverà altrettanto competenti i risultati di questa indagine.»
Il caso del dottor Fidenziano Calabrò li aveva portati a scontrarsi più volte. Lui aveva una visione rigida e burocratica della giustizia, lei invece si affidava al suo istinto e alla conoscenza diretta delle persone.
Ricordava quando, durante un interrogatorio, Canepa l’aveva interrotta bruscamente. «Pugliese, la prego di attenersi ai fatti. Questi voli interpretativi sono inutili.»
Lei aveva serrato la mascella, trattenendo a stento un commento pungente. Ma, a sorpresa, era stato proprio quell’istinto tanto criticato a portare alla svolta decisiva nel caso.
Quando il dottor Bonafè aveva rivelato che le pillole di Calabrò erano state sostituite con un placebo, Delma era stata la prima a intuire che dietro il crimine si nascondeva una rete di gelosie e tradimenti.
Durante una lunga serata di lavoro, in cui avevano analizzato insieme i tabulati telefonici, Canepa si era lasciato andare a una confessione inattesa.
«Sa, maresciallo», aveva detto, abbandonando per un attimo il tono autoritario. «Non sono sempre stato così… rigido. Ma la magistratura ti cambia. Ti insegna che non puoi permetterti di sbagliare, nemmeno una volta.»
Delma lo aveva osservato con curiosità. Era una delle poche volte in cui riusciva a intravedere l’uomo dietro la toga. «Non è un peso troppo grande da portare?» aveva chiesto.
«Lo è», aveva ammesso lui. «Ma è il prezzo da pagare per fare giustizia.»
Alla fine del caso, la loro relazione professionale aveva trovato un equilibrio, sebbene le differenze tra loro fossero rimaste evidenti. Canepa era un uomo affascinante, ma troppo concentrato su sé stesso e sulla sua carriera. Delma sapeva che la loro collaborazione avrebbe continuato a essere una danza delicata tra rispetto e scontro.
Quando uscì di casa, il freddo le sferzò il viso. Mentre si avviava verso la macchina, il ricordo di Canepa e del caso “Placebo” la seguiva come un’ombra. Sapeva che, nonostante tutto, quel procuratore ambizioso sarebbe stato un alleato prezioso anche questa volta.
L‘Alfa Romeo 155 si fermò a pochi metri dal cancello d’ingresso della villa del Balbianello, il motore che borbottava sommessamente prima che l’Appuntato Luca Cigolani spegnesse il contatto. «Eccoci, maresciallo», disse, tirando il freno a mano con un gesto deciso. Era sempre lui a guidare, e non solo per abitudine. Delma Pugliese ammetteva a se stessa, con un filo di ironia, che la sua guida fosse a tratti un po’ troppo impulsiva per un’auto di servizio. Cigolani, invece, aveva quella calma che sembrava rendere persino una manovra nel traffico cittadino un gesto misurato.
«Grazie, Luca», rispose Delma, aprendo la portiera e scendendo dall’auto. «Preparati. Questa sarà una di quelle mattinate che non dimenticheremo facilmente.»
Luca annuì, sistemandosi il berretto della divisa. Alto e robusto, aveva una presenza rassicurante e un atteggiamento pragmatico che lo rendeva un partner ideale per Delma. Non parlava molto, ma quando lo faceva, era diretto e mai fuori luogo. Aveva imparato a osservare e ascoltare, doti che Delma apprezzava profondamente. E poi c’era il suo senso dell’umorismo, sottile e mai invadente, che ogni tanto riusciva persino a strapparle un sorriso nelle giornate più cupe.
«Che posto incredibile,» disse Luca, osservando la villa. Il suo sguardo si soffermò sui giardini terrazzati e sui cipressi che ondeggiavano nella brezza mattutina. «Non ci sono mai stato, ma mi sembra di essere in un film.»
«È un film di cui non conosciamo ancora la trama», rispose Delma con un tono che tradiva una lieve preoccupazione. Poi si incamminò verso l’ingresso, seguita dall’appuntato, che portava con sé una valigetta contenente i documenti necessari per la relazione preliminare.
Al cancello li attendeva Filippo Orsini, il maggiordomo. Con una compostezza quasi teatrale, l’uomo li salutò con una leggera inclinazione del capo. «Maresciallo Pugliese. Appuntato Cigolani.»
Luca ricambiò il saluto con un cenno, ma rimase in disparte mentre Delma prendeva la parola. «Ci accompagni alla scena del delitto, Orsini. Voglio che mi racconti tutto ciò che sa lungo il tragitto.»
Il maggiordomo li condusse attraverso il portico e nel cuore della villa, le scarpe dei tre che producevano un rumore ovattato sui pavimenti in marmo lucidati a specchio. Luca osservava tutto, con lo sguardo di chi è abituato a cogliere dettagli utili. Aveva notato subito il fasto del luogo: lampadari di cristallo, antichi dipinti alle pareti, e mobili che sembravano usciti da una collezione museale. Ma c’era qualcosa di opprimente in tutta quella perfezione.
«Signore», iniziò Luca a bassa voce, rivolgendosi a Delma. «Non so se è solo una mia impressione, ma questo posto… mi sembra più un mausoleo che una casa.»
Delma non rispose subito, ma il suo silenzio lasciava intendere che fosse d’accordo. La villa del Balbianello non dava l’impressione di essere vissuta, almeno non nel senso tradizionale. Sembrava un palcoscenico, un luogo dove ogni cosa era in posa, congelata nel tempo. Una casa senza anima.
Arrivati nel grande salone, la scena del delitto li accolse con la sua crudezza. La luce artificiale delle lampade della scientifica illuminava l’ambiente con un bagliore innaturale. Sul tappeto persiano, una chiazza scura rompeva l’armonia cromatica, testimone silenzioso dell’orrore accaduto.
«Che ne pensi, maresciallo?» chiese Luca, avvicinandosi alla chiazza con un’espressione seria. Il suo solito atteggiamento rilassato aveva lasciato il posto alla concentrazione.
Delma si chinò accanto a lui per osservare il punto sul tappeto. «Penso che sia solo l’inizio, Luca. La scena è piena di dettagli, ma sono sparpagliati. Bisogna collegare i punti.»
Luca annuì. «Ho notato una cosa mentre entravamo,» disse, abbassando il tono della voce. «Quel maggiordomo, Orsini… sembra calmo, ma c’è qualcosa nei suoi occhi. Un nervosismo sottile. Non so se sia dovuto al delitto o a qualcos’altro.»
Delma si permise un sorriso appena accennato. «Bravo, Luca. Non sottovalutare mai la capacità degli occhi di rivelare ciò che le parole nascondono.»
Si alzò e cominciò a girare lentamente per la stanza, lasciando che il suo sguardo percorresse ogni dettaglio. Fu allora che notò la scatola di velluto nero abbandonata su una poltrona, il bicchiere di vino mezzo pieno e una libreria che attirò la sua attenzione.
«C’è qualcosa qui», disse, indicando una strana bozza sul tappeto sotto la libreria. Sembrava che un oggetto fosse stato spostato in fretta, lasciando un’ombra sul tappeto. «Luca, vieni a vedere.»
Luca si avvicinò, accovacciandosi accanto a lei. «Sembra che mancasse qualcosa. Forse un mobile? O un oggetto pesante.»
«Esatto», confermò Delma, scrivendo rapidamente le sue osservazioni sul taccuino. Poi si voltò verso uno dei tecnici della scientifica. «Voglio sapere cosa c’era qui, e perché è stato spostato.»
Luca si alzò e iniziò a esaminare la libreria. Con la sua altezza, poteva raggiungere facilmente i ripiani più alti, ma ciò che lo incuriosiva di più era uno scaffale vicino al pavimento, vuoto. «Maresciallo, questo scaffale sembra fatto apposta per contenere qualcosa di preciso. Non è un caso che sia vuoto.»
Delma si avvicinò per osservare meglio. «Orsini», chiamò il maggiordomo, che si trovava poco distante. «C’era qualcosa qui?»
Orsini si avvicinò con la stessa compostezza che lo aveva contraddistinto fino a quel momento. «Sì, maresciallo. Un cofanetto di legno. Conteneva documenti di famiglia, niente di particolare, almeno a mia conoscenza.»
«E ora è sparito», commentò Luca, scambiando uno sguardo con Delma.
«Non c’è niente di casuale in una scena del delitto», rispose lei. Poi aggiunse, quasi tra sé: «Se qualcuno ha preso quel cofanetto, doveva sapere cosa conteneva e quanto era importante.»
Mentre i tecnici continuavano il loro lavoro, Delma e Luca si scambiarono un’occhiata d’intesa. Avevano lavorato insieme per anni, e lui sapeva che lei stava già mettendo insieme i pezzi di un puzzle che solo lei sembrava vedere. E sapeva anche che sarebbe stato lì, al suo fianco, per ogni passo dell’indagine.
«Chissà quante storie nasconde questo posto», mormorò tra sé, prima di tirarsi indietro i capelli con un gesto deciso e infilarsi i guanti di pelle nera.
«Maresciallo Pugliese», la salutò con una leggera riverenza. La sua voce era ferma, educata, ma il dolore velato nei suoi occhi tradiva il dramma che si era consumato tra quelle mura. «È un onore averla qui, anche se in circostanze tanto terribili.»
Delma annuì appena. «Grazie, Orsini. Mi racconti cosa è successo.» Mentre parlava, estrasse dal taschino il suo inseparabile taccuino nero e una penna. Il gesto era diventato un rituale che la aiutava a immergersi nell’indagine.
Il maggiordomo iniziò il suo racconto con la precisione tipica di chi aveva dedicato la vita alla disciplina e al servizio. «La signora Ferrante aveva trascorso la serata in solitudine, come spesso accadeva quando il marito era fuori per lavoro. Non c’erano ospiti, la villa era chiusa dall’interno, e io stesso mi ero ritirato nei miei alloggi attorno alle ventidue.»
«Non ha sentito nulla di insolito durante la notte?» chiese Delma, senza mai smettere di prendere appunti.
Orsini scosse il capo con un’espressione di genuina perplessità. «Nulla, maresciallo. Nessun rumore, nessun segnale di allarme. Sono stato svegliato solo questa mattina da uno dei giardinieri, che ha notato una luce accesa nel salone principale. Era strano, perché la signora era sempre molto attenta a spegnerle prima di ritirarsi.»
Delma lo osservò attentamente. La postura rigida, il tono calmo, la mancanza di esitazioni. Ma qualcosa in quella sicurezza le sembrava forzato, come una maschera indossata per nascondere un’emozione più profonda. Non era mai tutto così semplice.
All’interno, la scena del delitto la accolse con il suo silenzio carico di tensione. Il grande salone della villa sembrava ancora vivo, impregnato della personalità della vittima. Un immenso tappeto persiano, dai colori ormai sbiaditi, dominava il pavimento, e su di esso una chiazza scura rompeva l’armonia. La luce fredda e artificiale delle lampade della scientifica illuminava ogni angolo, ma nulla riusciva a dissipare del tutto l’aura di tragedia che gravava sulla stanza.
Delma si fermò un attimo, lasciando che i suoi occhi percorressero lo spazio. Ogni oggetto, ogni dettaglio sembrava volerle parlare: il bicchiere di vino mezzo pieno sul tavolino accanto al divano, una scatola di velluto nero abbandonata su una poltrona, e, sopra il camino di marmo, un grande specchio dorato che rifletteva la scena con un distacco inquietante.
«Maresciallo», la voce di uno dei tecnici della scientifica la distolse dai suoi pensieri. «Il corpo è stato trovato qui, supino sul tappeto. Colpo alla nuca, con ogni probabilità. L’arma non è stata ancora rinvenuta.»
Delma annuì, avvicinandosi al punto indicato. Si accovacciò per osservare meglio la chiazza sul tappeto. Era scura, ormai quasi secca, ma aveva un contorno irregolare che suggeriva un movimento o un tentativo di pulizia.
«Cos’è questo?» chiese, indicando una strana bozza sul tappeto, proprio sotto la libreria. Sembrava che qualcosa fosse stato spostato, forse in fretta.
Uno dei tecnici si avvicinò e si chinò accanto a lei. Scrollò le spalle. «Non saprei, maresciallo. Forse un mobile o un oggetto pesante. Non c’è niente di simile nella stanza.»
Delma strinse le labbra. La disposizione della stanza non le sembrava casuale, eppure c’era qualcosa di incongruo. Si alzò lentamente, lasciando che il suo sguardo scivolasse sulla libreria. I volumi erano ordinati con precisione, ma un ripiano, quasi all’altezza del pavimento, era vuoto. «C’era qualcosa qui?» chiese, indicando il punto al maggiordomo, che nel frattempo era entrato.
Delma appuntò il dettaglio con cura. «Eppure ora manca. E quando qualcosa manca in una scena del crimine, di solito è importante.»
Lo sguardo di Orsini si abbassò per un istante, un lampo di nervosismo che Delma non poté fare a meno di notare. «Non saprei cosa dire, maresciallo. Posso giurarle che tutto era al suo posto ieri sera.»
Delma lo fissò per un momento, poi distolse lo sguardo, lasciando che il silenzio parlasse al posto suo. Era nei dettagli che si nascondevano le risposte, e sapeva che quel cofanetto, o il suo contenuto, avrebbe avuto un ruolo centrale in ciò che era accaduto.
Il sole iniziava appena a filtrare attraverso le finestre, facendo brillare le particelle di polvere che danzavano nell’aria. Delma si voltò verso uno dei tecnici. «Controllate tutto: impronte, fibre, qualunque cosa. E cercate di capire cosa è stato spostato sotto quel tappeto.»
Mentre usciva dal salone per esplorare il resto della villa, un pensiero le balenò in mente: nulla è mai come sembra, soprattutto in un luogo che ha custodito segreti per generazioni.
Quella sera, dopo ore trascorse a rileggere i suoi appunti e a ricomporre mentalmente il mosaico del caso Ferrante, Delma si concesse un momento per sé. Non era qualcosa che faceva spesso, e non senza un pizzico di senso di colpa. Ma l’invito di Lorenzo Visconti era arrivato in un momento in cui anche lei si era resa conto di aver bisogno di una pausa.
Lorenzo, con la sua calma innata e il sorriso che sembrava fatto apposta per metterla a proprio agio, era entrato nella sua vita con discrezione. Si erano conosciuti mesi prima, durante l’indagine sul cosiddetto “Delitto Placebo”, un caso che aveva ruotato attorno a una clinica privata e che aveva rivelato più segreti di quanto chiunque avrebbe immaginato. Lorenzo era stato coinvolto come testimone, e il loro primo incontro non era stato privo di scintille: lei diffidente, lui incuriosito. Con il tempo, però, quelle scintille si erano trasformate in una curiosità reciproca, poi in qualcosa di più profondo.
La cena era stata organizzata in un ristorante intimo a Bellagio, affacciato sul lago. La sala, arredata con eleganza discreta, era illuminata da una luce calda, mentre fuori il lago rifletteva le luci tremolanti dei borghi circostanti. Lorenzo aveva scelto un tavolo appartato, lontano dalla folla e dal brusio, come a voler creare uno spazio in cui lei potesse davvero rilassarsi.
«Sei troppo seria, Delma», disse Lorenzo con tono scherzoso, mentre il cameriere posava davanti a loro un piatto di tagliolini al tartufo. Il profumo avvolgente del piatto sembrava voler cancellare, anche solo per un attimo, le ombre della giornata.
Delma sollevò lo sguardo dal bicchiere di vino che stava osservando, il liquido rosso che ondeggiava lentamente nella luce soffusa. «Non lo sono sempre?» replicò con un mezzo sorriso, un gesto raro ma prezioso.
Lorenzo la guardò, inclinando leggermente la testa, come se stesse studiando ogni sfumatura della sua risposta. «Solo quando sei immersa in un caso», disse con dolcezza. «Ma anche tu hai bisogno di una pausa ogni tanto. Sei umana, sai?»
Lei rispose con un lieve sospiro, lasciando cadere per un momento le barriere che solitamente innalzava. «Forse hai ragione», ammise, giocando con la forchetta sul bordo del piatto. «Ma non è facile per me staccare. È come se le vite delle persone con cui entro in contatto si attaccassero alla mia pelle, come una seconda ombra.»
Lorenzo sorrise comprensivo. «Lo capisco. E credo che sia proprio questa tua empatia a renderti così brava nel tuo lavoro. Ma…», fece una pausa strategica, inclinando il bicchiere verso di lei, «forse dovresti imparare a lasciare che qualcun altro porti il peso ogni tanto.»
Delma lo fissò per un istante, sorpresa dalla semplicità e dalla sincerità delle sue parole. Era raro che qualcuno guardasse oltre la sua facciata professionale. Lorenzo non solo lo faceva, ma sembrava anche apprezzare le sue complessità senza cercare di cambiarla.
La serata proseguì tra conversazioni leggere e momenti di silenzio che, stranamente, non risultavano mai imbarazzanti. Lorenzo sapeva quando parlare e quando lasciarle spazio. Le raccontò aneddoti divertenti dai suoi turni in ospedale, cercando di strapparle un sorriso, e ci riuscì più volte. Delma, a sua volta, parlò di Bacco, il suo fedele Jack Russell, e della sua passione segreta per i libri gialli, una curiosità che Lorenzo trovò irresistibile.
Più tardi, mentre Lorenzo la riaccompagnava a casa con la sua Alfa Romeo color grigio perla, Delma si ritrovò a osservare il riflesso delle luci della strada sul parabrezza. La serata le aveva lasciato una strana sensazione di leggerezza, qualcosa che non provava da molto tempo.
«Grazie per questa serata», disse infine, rompendo il silenzio. Il suo tono era più morbido, come se avesse abbassato una delle tante difese che portava con sé.
Lorenzo la guardò per un attimo prima di rispondere, il suo sorriso illuminato dalla luce del cruscotto. «Grazie a te, Delma. Non capita spesso di vederti rilassata. Ma sai una cosa? Dovresti farlo più spesso.»
Lei sorrise, stavolta senza trattenersi. «Vedremo.»
Quando arrivarono sotto casa, Lorenzo accostò l’auto e spense il motore. Per un momento rimasero in silenzio, entrambi consapevoli del significato di quell’attimo. Lorenzo le sfiorò la mano, un gesto lieve ma carico di intenzioni. «Buonanotte, Delma.»
Lei annuì, il cuore che batteva un po’ più forte del solito. «Buonanotte, Lorenzo.»
Rientrando in casa, fu accolta dal solito scodinzolio di Bacco, che sembrava sempre percepire il suo umore. Si chinò per accarezzarlo, lasciandosi cadere sul divano. Ma il senso di leggerezza lasciò presto spazio ai pensieri che aveva momentaneamente messo da parte. Sul tavolino c’era il suo taccuino aperto, le pagine coperte di appunti sul caso Ferrante. Si passò una mano tra i capelli, sciogliendo la treccia che aveva portato tutto il giorno.
«Domani si ricomincia, Bacco», mormorò. Eppure, una parte di lei si sentiva diversa, come se la serata con Lorenzo le avesse ricordato che, oltre la divisa e i delitti, c’era anche una donna con il diritto di vivere, amare e, ogni tanto, concedersi una pausa.
Nei giorni successivi, la villa del Balbianello divenne il centro di un’indagine che sembrava complicarsi a ogni passo. Delma si ritrovò immersa in un intricato intreccio di relazioni familiari, leggende e rancori sopiti.
Al suo fianco, come sempre, c’era l’appuntato Luca Cigolani, fedele spalla e presenza costante nelle sue giornate. Era lui che guidava l’Alfa 155 lungo le curve del lago, sempre concentrato, il volto disteso ma pronto a cogliere ogni indicazione di Delma.
Luca era un uomo discreto, ma il suo sguardo tradiva spesso ciò che cercava di nascondere: un affetto profondo e, forse, qualcosa di più per il maresciallo Pugliese. Non ne aveva mai parlato apertamente – sapeva bene che Delma non era una donna facile da avvicinare, e tanto meno da conquistare – ma non passava giorno in cui non si chiedesse se lei si fosse mai accorta di quei suoi sentimenti.
Era il terzo giorno di indagini quando trovarono il medaglione antico accanto al luogo del delitto. Un piccolo gioiello di straordinaria fattura, che riportava un’incisione consumata dal tempo: “Ad perpetuam memoriam”. Il medaglione sembrava essere la chiave di un mistero più grande, qualcosa che risaliva agli antichi proprietari della villa, i Balbi, una nobile famiglia decaduta ormai ridotta a poche lontane discendenze.
«Balbi, eh?» disse Luca, osservando l’oggetto con interesse mentre lo consegnavano alla scientifica. «E chi sono questi Balbi? Non ne ho mai sentito parlare.»
«Un tempo erano una delle famiglie più ricche della Lombardia», rispose Delma, scrutando il medaglione come se potesse rivelarle i suoi segreti con un solo sguardo. «La villa apparteneva a loro. Ma c’è qualcosa di strano. Non credo che sia solo un cimelio familiare.»
«Sembra roba da romanzo giallo», commentò Luca, con un mezzo sorriso. Poi, con un tono più serio, aggiunse: «Tu pensi che sia stato messo accanto al corpo di proposito? Un messaggio?»
Delma annuì, lanciando un’occhiata fugace al collega. «È possibile. Ma dobbiamo capire perché. Ogni dettaglio conta.»
Durante il tragitto verso Bellagio, Luca colse l’occasione per rompere il silenzio. «Delma, non ti fermi mai, vero? Neanche un attimo per te stessa.»
Lei sorrise appena, senza distogliere lo sguardo dalla strada davanti a loro. «E tu quando ti fermi, Cigolani? Sei sempre il primo ad arrivare in ufficio e l’ultimo ad andare via.»
Luca rise, un suono caldo che riempì l’abitacolo. «Tocca farlo, con un maresciallo come te. Qualcuno deve assicurarsi che non ti consumi del tutto.»
Per un attimo, Delma si concesse di guardarlo. Luca aveva trentacinque anni, due più di lei, ma sembrava sempre un po’ più giovane con quei capelli castani leggermente spettinati e il sorriso sincero. Non era un uomo appariscente, e forse era proprio la sua normalità, così radicata e affidabile, a renderlo speciale.
C’era stato un momento, tempo addietro, in cui Delma si era chiesta se Luca provasse qualcosa per lei. Ma era stata solo un’idea fugace, subito messa da parte. Lavorare insieme era già abbastanza complicato senza aggiungere un ulteriore livello di complessità.
Arrivati alla villa, incontrarono Andrea Balbi, un lontano parente della famiglia originale. Era un uomo sulla cinquantina, con un’aria di sufficienza che non passava inosservata. Indossava un completo grigio elegante, ma i polsini della camicia leggermente stropicciati tradivano un certo nervosismo.
«Simonetta stava violando un codice sacro», disse Andrea, mentre fissava con disgusto il medaglione posato sul tavolo. «Quella donna non capiva il valore di ciò che aveva tra le mani.»
«A cosa si riferisce, signor Balbi?» chiese Delma, con il tono neutro ma autoritario che usava sempre durante gli interrogatori.
«A questo», rispose, indicando il medaglione. «È un simbolo della nostra famiglia. Un oggetto che non avrebbe mai dovuto lasciare la villa, men che meno essere venduto. Ma Simonetta… lei non rispettava nulla. Pensava solo al denaro.»
Delma lo scrutò attentamente. «Sta dicendo che si opponeva alla vendita?»
«Assolutamente. Ho cercato di fermarla, ma non mi ha mai ascoltato», rispose, incrociando le braccia sul petto. «Ora capite perché non mi sorprende che sia finita così. Una donna come lei, senza scrupoli, si fa facilmente nemici.»
Mentre Delma prendeva appunti, Luca osservava Andrea. C’era qualcosa nel suo atteggiamento – una freddezza calcolata, un modo di scegliere con cura ogni parola – che non lo convinceva. Aspettò che l’uomo lasciasse la stanza prima di avvicinarsi a Delma.
«Cosa ne pensi?» le chiese a bassa voce.
«Che mente», rispose lei, riponendo il taccuino nella tasca interna della giacca. «E che ha paura. Ma di cosa, non lo so ancora.»
Più tardi, interrogarono anche Sofia Seregni, una donna elegante sulla quarantina, amica intima della vittima. Si presentò con un abito scuro impeccabile, e i suoi occhi verdi sembravano nascondere più di quanto fosse disposta a rivelare.
«Simonetta non era così innocente come sembrava», disse Sofia, fissando il medaglione con un’espressione di disgusto. «Aveva molti nemici, anche tra coloro che le erano più vicini.»
«Si riferisce a qualcuno in particolare?» chiese Delma, inclinando leggermente la testa.
Sofia esitò per un momento, poi distolse lo sguardo. «Non spetta a me dirlo. Ma se fossi in voi, guarderei nella sua cerchia più ristretta. Le cose non sono mai quello che sembrano.»
Luca rimase in silenzio durante l’interrogatorio, ma mentre uscivano dalla stanza si rivolse a Delma. «Questa ha qualcosa da nascondere, te lo dico io. È troppo… compita.»
Delma lo guardò, divertita dalla sua intuizione. «Ah, stai iniziando a pensare come un vero investigatore.»
Luca sorrise. «Qualcuno dovrà pur imparare da te, maresciallo.»
E mentre salivano sulla loro Alfa, pronti a seguire un’altra pista, Luca non poté fare a meno di osservare Delma di sfuggita. Era consapevole che il lavoro era tutto per lei, ma una parte di lui non poteva smettere di sperare che, un giorno, lei si accorgesse di quanto fosse disposto a fare pur di starle accanto.
L’indagine sulla villa del Balbianello aveva prodotto più domande che risposte, e per Delma era giunto il momento di relazionare al sostituto procuratore Bruno Canepa. Come sempre, la tensione professionale che caratterizzava i loro incontri era palpabile: lui, preciso e formale, lei, rigorosa e con quel tono asciutto che mascherava ogni emozione.
L’ufficio del procuratore si trovava in una storica palazzina a Como, con grandi finestre che si affacciavano sul lago. Quando Delma entrò, Canepa stava sistemando una pila di fascicoli sulla scrivania in legno scuro. Alzò lo sguardo e la salutò con un cenno del capo.
«Maresciallo Pugliese», disse, indicando con un gesto una sedia di fronte a lui. «Si accomodi.»
Delma annuì e si sedette. Posò davanti a sé il fascicolo delle indagini, ordinato e completo come sempre. Aprendolo, iniziò a esporre con precisione i dettagli raccolti fino a quel momento.
«Il medaglione antico trovato accanto al corpo sembra essere il centro di una disputa familiare», spiegò. «Andrea Balbi sostiene che la vittima stesse cercando di venderlo contro la sua volontà. Tuttavia, non possiamo escludere che il suo ritrovamento sia stato orchestrato per sviare le indagini.»
Canepa annuì, il volto impassibile ma concentrato. Era un uomo sulla quarantina, con un portamento impeccabile e un’attenzione ai dettagli che Delma rispettava, anche se trovava il suo atteggiamento talvolta fin troppo rigido.
«Interessante», commentò. «E per quanto riguarda gli altri sospettati?»
«Sofia Seregni, un’amica intima della vittima, ha lasciato intendere che Simonetta Ferrante avesse molti nemici, anche tra coloro che le erano più vicini. Ma non ha fornito nomi o dettagli precisi. Stiamo cercando di verificare la sua posizione la notte del delitto.»
Delma continuò a elencare i progressi fatti, le piste aperte e gli ostacoli incontrati, mantenendo il tono professionale che l’aveva sempre contraddistinta. Quando finì, chiuse il fascicolo con un gesto deciso e attese il verdetto del procuratore.
Canepa la osservò per un momento, in silenzio. Poi, invece di commentare direttamente la relazione, si appoggiò allo schienale della sedia e pronunciò una frase che la colse del tutto impreparata.
«Maresciallo, cosa ne dice di pranzare insieme?»
Delma rimase interdetta per un istante, lo sguardo fermo ma vagamente sorpreso. Non era un invito che si aspettava, né tanto meno uno che rientrava nelle consuetudini dei loro rapporti formali. Tuttavia, non diede segno della sua perplessità.
«Se crede sia utile per discutere ulteriormente il caso, procuratore», rispose con calma.
Canepa sorrise leggermente. «Non si preoccupi, parleremo anche del caso, ma ogni tanto è bene concedersi una pausa.»
Poco dopo, la sua macchina li condusse in un piccolo ristorante a Lecco, nascosto tra le vie acciottolate del centro storico. “La Taverna dei Pescatori”, così si chiamava il locale, era famoso per il pesce di lago e per la sua atmosfera accogliente ma raffinata. Le pareti erano decorate con vecchie fotografie in bianco e nero del lago di Como, e l’ambiente era permeato dall’aroma invitante del pesce fresco e delle erbe aromatiche.
Un cameriere li accolse con un sorriso e li condusse a un tavolo vicino a una finestra, da cui si poteva intravedere uno scorcio del lago. La luce naturale che filtrava attraverso i vetri rendeva l’atmosfera calda e intima, anche se Delma non si concesse di abbassare la guardia. Era ancora nel pieno del suo ruolo, professionale e attenta a ogni gesto e parola.
Canepa ordinò per entrambi, mostrando una certa familiarità con il menu. «Le consiglio i filetti di pesce persico con burro e salvia. È il loro piatto forte», disse, osservandola con curiosità.
Delma annuì. «Mi fido del suo giudizio, procuratore.»
Dopo qualche minuto di silenzio, interrotto solo dal suono discreto delle stoviglie e delle conversazioni basse dei pochi altri clienti, Canepa si concesse un commento personale.
«Sa, maresciallo, apprezzo il suo rigore. Non è facile trovare qualcuno che metta la stessa dedizione che ci mette lei in quello che fa.»
Delma sollevò lo sguardo dal bicchiere d’acqua. «Grazie, procuratore. È il mio lavoro.»
«Forse, ma c’è qualcosa di più», insistette lui. «La sua capacità di leggere le persone, di andare oltre le apparenze… È un talento che non tutti possiedono.»
Delma non rispose subito. Non era abituata a ricevere complimenti, soprattutto sul lavoro. Si limitò a un lieve sorriso, distogliendo lo sguardo per un istante.
Quando arrivarono i piatti, la conversazione si spostò nuovamente sul caso. Discutettero delle prossime mosse da compiere, analizzarono i punti deboli delle varie piste e considerarono nuove strategie per incastrare il colpevole.
Ma, nonostante l’apparente normalità del pranzo, Delma non poteva fare a meno di notare una leggera rilassatezza nel tono di Canepa, un’apertura che raramente aveva visto in lui.
Quando infine lasciarono il ristorante, Canepa si fermò un attimo prima di salire in macchina. «È stato un pranzo piacevole, maresciallo. Dovremmo farlo più spesso.»
Delma rispose con il suo solito tono controllato. «Lo terrò a mente, procuratore.»
E mentre tornava alla sua Alfa 155, guidata dall’immancabile Luca Cigolani che l’aspettava pazientemente al parcheggio, non poté fare a meno di chiedersi se quel pranzo fosse stato solo una parentesi insolita o l’inizio di qualcosa di diverso. Ma, come sempre, lasciò quel pensiero da parte e si concentrò sul lavoro. I segreti della villa del Balbianello l’aspettavano, e lei era determinata a scoprire la verità.
La mattina seguente, il cielo era grigio e minacciava pioggia. L’aria fredda e umida sembrava anticipare la giornata densa di interrogativi che attendeva Delma Pugliese. Seduta accanto a Luca Cigolani sull’Alfa 155, osservava i riflessi delle nubi scure sul lago.
«Non sembri dell’umore migliore oggi, maresciallo», azzardò Cigolani, lanciandole un’occhiata rapida mentre guidava con la consueta attenzione.
Delma si concesse un raro momento di confidenza. «Non sono i casi come questo a pesarmi, Cigolani. È il silenzio. Quando i dettagli non si incastrano, quando senti che c’è qualcosa che ti sfugge.»
Luca sorrise appena. «Alla fine lo trova sempre, maresciallo. Come quel caso del contrabbandiere a Cernobbio: sembrava irrisolvibile, eppure…»
«Sì, ma non siamo ancora a quel punto», lo interruppe lei, mantenendo il tono fermo ma senza durezza. «E adesso andiamo a sentire il dottor Bonafè. Ho bisogno di risposte.»
L’Alfa 155 svoltò in una strada stretta e costeggiata da alti cipressi, fino a raggiungere l’obitorio dell’ospedale di Como. L’edificio era austero, con pareti grigie e finestre strette che sembravano trattenere più che lasciar uscire la luce.
Bonafè li accolse con la consueta indifferenza, emergendo da una porta secondaria. Era un uomo alto e magro, con il viso scavato e occhi incavati che parevano non dormire mai. Il suo camice bianco, troppo grande per la sua figura, era macchiato qua e là di sangue ormai secco, un dettaglio che sembrava non preoccuparlo affatto.
«Maresciallo Pugliese», salutò con un accenno di sorriso, mentre con una mano scostava un ciuffo di capelli grigi dalla fronte. «Non mi aspettavo la sua visita così presto.»
«Dottore, immagino che abbia concluso l’autopsia della signora Ferrante. Sono qui per sentire le sue conclusioni», rispose Delma, andando dritta al punto come sempre.
Bonafè annuì e li guidò attraverso un corridoio stretto e illuminato da una luce fredda e artificiale, fino alla sala dove si trovava il suo rapporto preliminare. Sul tavolo metallico c’era ancora il corpo di Simonetta Ferrante, coperto da un telo bianco. L’odore di formalina era pungente, ma né Delma né Cigolani mostrarono segni di disagio.
«La causa della morte è, come sospettavamo, una ferita profonda alla base del cranio», iniziò Bonafè, posando un paio di guanti di lattice accanto al fascicolo. «Un colpo netto e preciso, probabilmente inferto con un oggetto appuntito e pesante. Un’arma che potrebbe essere un antico pugnale o qualcosa di simile.»
«Avete trovato qualcosa che possa confermare questa ipotesi?» chiese Delma, appuntandosi le informazioni sul suo inseparabile taccuino.
Bonafè si avvicinò a un vassoio metallico su cui erano posati diversi frammenti di materiali raccolti durante l’autopsia. Prese una piccola scheggia brillante e la porse a Delma con delle pinzette.
«Questo frammento era incastrato nella ferita. Non è acciaio moderno, è una lega antica, forse del XVIII secolo. Ho avvisato un esperto di metallurgia per avere una conferma, ma è molto probabile che sia un’arma d’epoca.»
Delma osservò la scheggia con attenzione. «Questo si collega al medaglione e alla storia dei Balbi. È possibile che l’arma usata sia un cimelio di famiglia.»
Bonafè annuì. «È una possibilità. Ma c’è un dettaglio che potrebbe interessarle ancora di più.» Fece una pausa, come per aumentare la suspense, prima di proseguire. «La vittima aveva tracce di un sedativo nel sangue. Non letale, ma sufficiente a stordirla.»
Cigolani, che fino a quel momento era rimasto in disparte, intervenne. «Quindi è stata prima drogata e poi uccisa? Non si è nemmeno potuta difendere?»
«Esattamente», confermò Bonafè. «La quantità era minima, probabilmente sciolta in una bevanda. Il vino, forse? Potreste verificare il bicchiere trovato accanto al corpo.»
Delma fece un cenno di assenso. «Grazie, dottore. Questo cambia le cose. Ora sappiamo che l’assassino voleva assicurarsi che non ci fosse alcuna resistenza. Ma mi dica, ha trovato altro?»
Bonafè esitò per un attimo, come se fosse incerto se condividere un’ulteriore osservazione. Poi parlò.
«La vittima aveva segni di lividi sui polsi. Vecchi, non recenti. Non hanno nulla a che vedere con il delitto, ma potrebbero indicare un passato di violenza o sottomissione.»
Delma lo fissò, colpita da quella rivelazione. «Non erano stati segnalati nella sua storia medica?»
«Nessuna traccia. Ma non è detto che fosse un fatto noto. Potrebbe essere un elemento utile, se non altro per comprendere meglio la personalità della vittima e le sue relazioni.»
Delma rimase in silenzio per qualche istante, assimilando tutte quelle informazioni. Poi si rivolse a Cigolani. «Torniamo in centrale. Dobbiamo verificare quel bicchiere e scavare più a fondo nel passato della Ferrante.»
Cigolani annuì e si avviò verso l’uscita, ma non prima di aver lanciato un’occhiata a Delma, come se volesse accertarsi che stesse bene. Lei lo notò ma, come sempre, non diede a vedere nulla.
Quando salirono di nuovo sull’Alfa 155, Cigolani osò rompere il silenzio. «Quei lividi… Lei pensa che siano collegati al marito? Ferrante non sembra esattamente un tipo docile.»
«Non possiamo escluderlo», rispose Delma, guardando fuori dal finestrino mentre la macchina attraversava le strade strette della città. «Ma potrebbe anche essere qualcos’altro. Qualcosa che non abbiamo ancora considerato.»
E mentre l’Alfa sfrecciava verso la centrale, con il lago sullo sfondo che sembrava nascondere anch’esso segreti irrisolti, Delma sapeva che ogni risposta avrebbe aperto nuove domande.
Il giorno seguente, Delma Pugliese era seduta alla sua scrivania, circondata da documenti, fotografie della scena del crimine e appunti che aveva raccolto nei giorni precedenti. La stanchezza era evidente sul suo volto, ma i suoi occhi neri erano fissi su un dettaglio che aveva trascurato fino a quel momento.
Aveva passato gran parte della notte a ripensare a ogni parola detta dal dottor Bonafè e dai testimoni. Il medaglione, il bicchiere di vino, i lividi sui polsi della vittima: ogni pezzo sembrava appartenere a un quadro più grande, ma ancora incompleto
Delma aveva chiesto a Cigolani di controllare ogni possibile informazione sulla famiglia Balbi. Le era arrivata una relazione preliminare quella mattina: Andrea Balbi, l’uomo che si era opposto alla vendita del medaglione, aveva avuto conflitti legali con Simonetta Ferrante riguardo alla proprietà di alcuni beni storici. C’era stato un processo anni prima, ma la causa era stata archiviata. Tuttavia, una nota a margine dell’indagine indicava che Andrea non aveva mai accettato la sconfitta
Il rapporto tossicologico confermava che il sedativo trovato nel sangue della vittima era presente anche nei residui del vino rimasto nel bicchiere. Ma c’era un altro dettaglio interessante: sulle impronte rilevate sul bicchiere c’erano tracce parziali di due diverse persone. Una apparteneva quasi certamente alla vittima. L’altra, invece, non era ancora identificata.
Delma fissò la foto del bicchiere. «Chiunque abbia aggiunto il sedativo, lo ha fatto con grande calma», pensò. Questo indicava una familiarità con la vittima o con l’ambiente.
I segni sui polsi della vittima continuavano a tormentarla. Se non erano recenti, perché Simonetta non li aveva segnalati? Erano il frutto di una relazione abusiva o di qualcos’altro? La Ferrante non sembrava una donna che subisse passivamente, ma tutti i rapporti raccolti indicavano che la sua vita era piena di tensioni nascoste.
Fu in quel momento che Delma ricordò le parole di Sofia Seregni, l’amica intima della vittima: «Simonetta non era così innocente come sembrava.»
Decise di riascoltare l’interrogatorio registrato di Sofia. C’era qualcosa nel suo tono, un’incrinatura nella voce che Delma non aveva notato subito.
Mentre il nastro registrato scorreva, Delma si rese conto che Sofia aveva usato un’espressione particolare quando aveva parlato della relazione tra Simonetta e suo marito Mariano: «Era una relazione complicata, certo. Ma Simonetta sapeva come proteggersi… in tutti i sensi.»
Proteggersi. Quella parola rimbombava nella testa di Delma. Forse non si trattava di proteggersi da Mariano, ma da qualcun altro.
In quel momento Cigolani entrò nella stanza, portando con sé una cartella. «Maresciallo, ho trovato qualcosa di interessante sui Balbi.»
Delma lo invitò a continuare, mentre prendeva un sorso di caffè.
«Andrea Balbi non solo aveva intentato causa contro Simonetta per il medaglione, ma c’era un altro motivo di tensione. Sembra che Simonetta fosse in possesso di alcune lettere che appartenevano alla famiglia Balbi, documenti che Andrea rivoleva a tutti i costi. Ma quelle lettere non sono mai state trovate.»
Delma alzò lo sguardo, il pensiero che già le balenava in mente ora più chiaro. «Lettere. Un medaglione. E una leggenda su un tesoro nascosto. Tutto questo non può essere una coincidenza.»
Riunendo i pezzi, Delma cominciò a tracciare una nuova ipotesi. Simonetta Ferrante aveva in mano qualcosa di molto prezioso, non solo dal punto di vista storico, ma forse anche economico. Quelle lettere, insieme al medaglione, potevano essere la chiave per accedere a un segreto che qualcuno era disposto a uccidere pur di ottenere.
Ma chi? Andrea Balbi, con il suo legame diretto alla storia della villa? O qualcun altro, più vicino a Simonetta?
Mentre rifletteva, la sua attenzione si fermò su un dettaglio ancora più inquietante. Durante l’autopsia, Bonafè aveva detto che Simonetta non si era difesa. Era stata drogata e poi colpita. Questo richiedeva una preparazione accurata, quasi come se il delitto fosse stato pianificato nei minimi dettagli.
Delma prese il telefono e chiamò il sostituto procuratore Canepa. «Dottore, penso di avere un’ipotesi. Ma ho bisogno di verificare una cosa sul luogo del delitto. Devo tornare alla villa del Balbianello.»
Dopo aver riagganciato, Delma si voltò verso Cigolani. «Prepara l’Alfa. Ci aspetta un’altra visita alla villa. C’è qualcosa lì che abbiamo trascurato. E potrebbe essere la chiave di tutto.»
E mentre uscivano dalla centrale, con il cielo che minacciava un temporale, Delma non poteva fare a meno di pensare che il vero segreto si trovasse proprio nel cuore di quella villa, nascosto tra le sue antiche mura.
Alla fine, le tessere del puzzle si incastrarono, rivelando un’immagine più cupa di quanto Delma Pugliese avrebbe mai immaginato. Era stato Andrea Balbi, lo storico lontano parente della famiglia, a confessare, spezzato dalla pressione degli interrogatori e dalla prova schiacciante che Delma aveva saputo costruire con pazienza e intuizione.
Seduto nell’angusto ufficio della caserma, con il volto segnato dalla stanchezza e dalla vergogna, Andrea spiegò tutto. Il suo legame con la villa del Balbianello e il medaglione non era solo sentimentale, ma radicato in un’ossessione per la storia e il lignaggio della sua famiglia. Per lui, Simonetta Ferrante rappresentava una minaccia concreta. La donna, indifferente al valore storico degli oggetti che aveva ereditato, stava per vendere all’asta il medaglione e altre reliquie dei Balbi.
«Non potevo permetterlo», disse Andrea, la voce spezzata. «Non capiva… non capiva che quelle cose non erano solo oggetti. Erano la nostra storia, la nostra identità.»
Ma Andrea non era stato solo. Il suo complice, il dottor Pietro Altieri, un noto esperto d’arte e antiquario, era stato il vero artefice del piano. Altieri, che condivideva la passione di Andrea per l’arte e la storia, aveva un motivo ancora più concreto per collaborare: un debito economico crescente. Vendendo sottobanco il medaglione o utilizzandolo per localizzare il leggendario tesoro nascosto della famiglia Balbi, avrebbe potuto risolvere i suoi problemi.
Era stato Altieri a drogare Simonetta, mescolando il sedativo al suo vino, e Andrea a infliggerle il colpo fatale, sopraffatto dalla sua stessa furia. Nonostante la pianificazione, i due avevano commesso errori fatali: le impronte sul bicchiere, la libreria spostata maldestramente e, soprattutto, la rabbia che traspariva in ogni parola di Andrea durante gli interrogatori.
Mentre Andrea terminava la sua confessione, nella stanza calò un silenzio opprimente. Delma lo osservava con uno sguardo che non era né di condanna né di pietà. Era un misto di stanchezza e delusione.
«Tutto questo per un medaglione? Per delle lettere?», chiese, più a sé stessa che a lui.
Andrea sollevò lo sguardo, cercando una giustificazione. «Non era solo un medaglione. Era ciò che rappresentava. Era la nostra eredità.»
Delma si alzò dalla sedia, passando una mano tra i capelli raccolti. «La vostra eredità, signor Balbi, non è mai stata nel medaglione. È nelle vite che avete distrutto per proteggerlo. Simonetta Ferrante, vostra cugina, era una vita. E ora è persa per sempre.»
Fu un finale amaro, come spesso accadeva nelle indagini di Delma. Chiudere un caso non portava mai soddisfazione, soprattutto quando la verità che emergeva era così dolorosa.
Mentre tornava a casa, con Cigolani al volante dell’Alfa, Delma si lasciò andare sul sedile del passeggero, fissando il lago che scorreva accanto a loro. Non disse nulla per tutto il viaggio, ma Cigolani la conosceva abbastanza bene da non forzarla a parlare.
Quella sera, Delma uscì con Bacco, il suo Jack Russell, lungo la riva del lago. Il freddo pungente le arrossava le guance, ma lei quasi non lo sentiva. Pensava a Simonetta, ad Andrea e a tutti i segreti che quella villa avrebbe continuato a custodire, nonostante tutto.
Accarezzò la testa di Bacco e sospirò. «Chissà perché gli uomini sono così legati al passato, come se potesse salvarli dal presente.»
Il cagnolino le rispose con un piccolo guaito, come se potesse davvero capire il peso delle sue parole.
Poco dopo, il telefono squillò. Era Lorenzo, il cardiologo.
«Delma, ho sentito del caso. Come stai?»
Lei esitò un attimo prima di rispondere. «Sto bene. È stato un caso difficile, ma abbiamo chiuso.»
«Sai che c’è? Stasera passo a prenderti. Ho trovato un ristorante nuovo a Bellano. Ti prometto che non parleremo di omicidi.»
Delma sorrise debolmente. «Va bene, ma non prometto nulla. Sai che la mia mente non si spegne mai.»
«Lo so. Ma ci proveremo comunque.»
E così, mentre la notte calava sul lago e sulle sue acque cariche di mistero, Delma accettò, per una volta, di concedersi una tregua. La verità era stata rivelata, ma come sempre, non c’era alcuna vittoria in un omicidio risolto. Solo la consapevolezza che, almeno per un po’, la giustizia aveva avuto il suo corso.

Protagonisti Principali
Delma Pugliese: Maresciallo dei Carabinieri
Luca Cigolani: Appuntato dei Carabinieri, assistente di Delma
Bruno Canepa: Sostituto Procuratore
Lorenzo Visconti: Cardiologo, interesse sentimentale di Delma
Personaggi Coinvolti nel Caso
Simonetta Lucrezia Ferrante: Vittima dell’omicidio.
Andrea Balbi: Lontano parente della famiglia Balbi
Pietro Altieri: Esperto d’arte
Filippo Orsini: Maggiordomo della villa del Balbianello
Sofia Seregni: Amica intima della vittima
Personaggi di Supporto
Dottor Bonafè: Patologo
Mariano Ferrante: Marito della vittima
Tutti i racconti di Delma Pugliese