Cinquecento anni fa il tempo cambiò direzione: l’Asia cadde, l’Europa si rialzò, e l’Italia dimenticò il suo futuro.

UN OROLOGIO INDIETRO DI 500 ANNI

Il Simplicissimus

E se l’orologio della storia fosse rimasto fermo al 1500? In un mondo dove il baricentro economico e culturale era saldamente ancorato all’Asia, l’Europa cominciava appena a muovere i primi passi verso una supremazia globale. Ma fu una rivoluzione lenta, caotica, piena di occasioni perse e scelte fatali. L’Italia, un tempo regina dei commerci tra Oriente e Occidente, affondò nel provincialismo; la Francia, guidata da un Re Sole accecato dai propri riflessi, perse la partita coloniale. Intanto potenze periferiche come Spagna, Portogallo e soprattutto Inghilterra si affrancarono dal gioco europeo per costruire imperi oceanici. La Russia, ancora in fasce, iniziava la lunga marcia verso la propria identità imperiale, mentre la Germania rimaneva un’idea lontana, frammentata nei suoi staterelli. Sullo sfondo, l’Asia — cuore pulsante del mondo — crollava, marginalizzata da un’onda coloniale che avrebbe ridefinito per sempre il destino globale. Questo saggio narra l’inversione di un orologio che ha cambiato il mondo, e lo fa ponendo una domanda scomoda: e se il tempo avesse seguito un altro ritmo? (f.d.b.)


Non so se a Pasqua occorra essere più buoni come a Natale, ma nel dubbio eviterò le polemiche da strapaese sulla Meloni e del suo atto di omaggio a Washington peraltro obbligatorio, eviterò persino di infierire sulla pseudo sinistra massonica per la clamorosa sconfitta che le loro tesi post ideologiche hanno subito a Monfalcone e cercherò invece di mettere il grandangolo temporale, di inquadrare ciò che stiamo vivendo in una visione di lungo, di lunghissimo periodo che ci permette di evitare la focalizzazione  su singoli personaggi o eventi per privilegiare un racconto più aderente alla realtà complessiva.  Bene ciò che stiamo vivendo è la fine di una lunga ondata della storia iniziata 500 anni fa con la scoperta dell’America: le risorse disponibili in quel continente praticamente vergine e i cui abitanti furono brutalmente assoggettati se non sterminati hanno dato vita a quattro secoli di dominio e di imperialismo europeo, cambiando radicalmente il terreno di gioco, per così dire.

L’Italia che gestiva il traffico commerciale dall’Asia all’Europa ne fu rovinata, piccole potenze marginali come Spagna e Portogallo vissero invece un “siglo de oro”, ma soprattutto l’Inghilterra riuscì ad emergere dalla logica dello scontro europeo per fondare un impero mondiale che poi pian piano venne assorbito dalla sua ex colonia statunitense. La Francia fu rovinata proprio dal Re Sole che invece di focalizzare le forze del Paese per contendere le ricche colonie americane e quelle asiatiche dove cominciava lo sfruttamento intensivo, si fece invischiare in conflitti europei di scarsa importanza, mentre la Germania non esisteva, era un caos di staterelli e avrebbe dovuto attendere due secoli prima che un certo Fichte scrivesse i Reden an die deutsche Nation. La Russia dal canto suo, ancora in formazione, era sostanzialmente impegnata nella conquista delle terre rimaste in mano ai khanati mongoli e tartari anche se si preparava a sconfiggere gli imperi polacco e svedese e alla fine è stato l’unico Paese dell’Europa che si è sottratto al dominio americano. L’Asia che nel ‘500 aveva il 65 % della produzione di beni planetari e grosso modo il 55% della popolazione mondiale, subì un crollo, drammatico scendendo sotto il 20%. Si tratta ovviamente di stime fatte dagli storici, ma che disegnano abbastanza bene la situazione.

Però dopo secoli di sfruttamento intensivo il continente americano ha cominciato a dare segni di stanchezza produttiva e se proprio vogliamo mettere delle date possiamo riferirci al 1970 quando gli Stati Uniti, allora il maggior produttore di oro nero al mondo, superarono il picco di produzione di petrolio convenzionale e furono costretti ad importarlo, cosa che portò poi a recidere il legame tra dollaro statunitense e oro. Qualcosa che ebbe effetti epocali perché è proprio in quegli anni, con il petrodollaro che cominciò ad affacciarsi un tipo di economia basata non sulla produzione, ma sul consumo: sfruttando la posizione dominante del biglietto verde negli scambi internazionali Washington poté stampare quanti dollari voleva senza conseguenze sui corsi dei cambi e diventare così una nazione vorace di beni e sempre meno disposta a produrli in proprio. Il terreno di coltura per il neoliberismo globalista era pronto e concimato: come conseguenza diretta e immediata ha dovuto sempre più fare affidamento sul suo apparato militare per mantenere lo status quo ed evitare defezioni. Anche se poi questo gigantesco apparato ha avuto bisogno di guerre continue per essere sfamato.

Tutto questo ha fatto sì che l’Asia recuperasse il suo posto nell’economia globale. Il Giappone ha guidato la crescita con una rapida espansione della propria industria negli anni ’50 e ’60, seguito dalle quattro “tigri asiatiche” (Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea) a partire dagli anni ’60 e ’70. E infine dalla Cina a partire dal 1980 e dall’India a partire dal 1990. Oggi, l’Asia costituisce circa il 50% dell’economia mondiale, secondo le stime del Fmi e si tratta di economia reale non finanziaria e non basata sui servizi come accade in Occidente e particolarmente in Usa. Ciò che sta accadendo nella sostanza è che il peso economico dell’Asia, dell’America Latina e in parte dell’Africa stanno determinando una ristrutturazione del potere planetario che di certo non potrà essere mantenuto dell’Occidente e dagli Usa come si è sperato dopo il crollo dell’Unione Sovietica e come si è tentato di fare con lo scasso delle democrazie e l’inaugurazione della politica di emergenza sistemica nell’ultimo decennio. Che questo stato di cose non potesse funzionare indefinitamente era chiaro, dopo le numerose crisi che il sistema neoliberista occidentale ha subito negli ultimi decenni e in particolare quella del 2008 che ha mostrato la crisi strutturale della finanziarizzazione economica.

Oggi gli Usa, superato il picco della produzione di petrolio e gas di scisto che ha animato la stagione obamiana  e quindi con la prospettiva di dover di nuovo importare oro nero, gravati da un gigantesco debito pubblico e privato, con un ancor più  grande deficit del commercio estero, sono sull’orlo del baratro e devono ricorrere da una parte a un drastico taglio delle spese dall’altro a una continua pantomima come per scuotere e disorientare gli ambienti finanziari in un estremo tentativo di ricatto planetario. Dopo la sconfitta della Nato in Ucraina, gli Stati Uniti stanno cercando di esplorare i propri limiti e le proprie possibilità. E in questo senso la Nato e la Ue che è la garanzia, cominciano a diventare, superflue. E i rapporti in certo senso privilegiati con la Russia ne sono una testimonianza.

Ma il fatto storico complessivo è che la scoperta dell’America è stata alla fine assorbita e comincia una nuova era. Quindi cosa volete che ne pensi della Meloni, ma di qualunque altro dei possibili presidenti del consiglio di questa colonia a forma di stivale, volata a Washington per asseverare il proprio servaggio? Che ha l’orologio indietro di 500 anni, come del resto è quello adottato a Bruxelles.

Redazione

 

 

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