Autunno, 1976. Tra lavagne e sigarette, nasce un’idea: la scienza può essere anche disobbedienza.
UN PO’ DI SCIENZA, QUELLA VERA
Il Simplicissimus
Ripercorre un momento cruciale della storia della scienza e dell’editoria: nel 1976, quando l’editoria ancora godeva di un certo rispetto e di una certa qualità, uscì un saggio destinato a scatenare un dibattito acceso sul mondo scientifico. L’ape e l’architetto, scritto da quattro fisici teorici dell’Istituto Enrico Fermi dell’Università La Sapienza di Roma, si proponeva di esplorare la relazione tra scienza, natura e creatività. In un contesto internazionale di grande fermento, con gli investimenti privati che cominciavano a superare quelli pubblici, questo libro divenne simbolo di un’epoca in cui la scienza si stava trasformando e aprendo a nuove prospettive, sia teoriche che pratiche.
Nel 1976, quando ancora esisteva un’editoria degna di questo nome e quando era possibile leggere libri interessanti, uscì un saggio destinato ad accendere un appassionato dibattito sulla scienza. Era L’ape e l’architetto, (1)scritto da quattro fisici teorici dell’istituto Enrico Fermi dell’Università La Sapienza di Roma: Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio. Il tema era quello del rapporto tra l’evoluzione della conoscenza scientifica e il tessuto sociale circostante: infatti il sottotitolo del libro era Paradigmi scientifici e materialismo storico, secondo quelle che erano le griglie culturali del tempo. Ma, in fondo, L’ape e l’architetto mirava soprattutto a smitizzare un dogma allora largamente accettato: la presunta neutralità della scienza rispetto alla società. All’epoca era una tesi provocatoria, capace di scuotere accademie e laboratori. Oggi, quell’interdipendenza tra scienza e potere economico è diventata quasi un’ovvietà. La ricerca ha bisogno di fondi — e chi li fornisce, orienta. Soprattutto nei campi più promettenti dal punto di vista commerciale, dove è il mercato a dettare le domande, e la scienza, spesso, si limita a rispondere.
Del resto, proprio in quegli anni avvenne il superamento di una barriera decisiva: in Usa gli investimenti privati nella ricerca superarono quelli pubblici, consolidando l’orientamento verso un profitto che via via è diventato sempre più vicino nel tempo e dunque più ossessivo e tale da introdurre tentazioni manipolatorie. Tutto ciò era divenuto sempre più chiaro, ma circa cinque anni fa c’è stata subito un’inversione improvvisa e intellettualmente ingiustificata verso una sorta di beatificazione incondizionata della scienza che diventa perciò stesso non più discutibile e dove, alla ripetibilità dell’esperimento, si sostituisce un ambiguo concetto di “consenso” che può essere facilmente manipolato e mediaticamente asserito come accade – per esempio col clima – dove appunto si parla di un consenso massiccio verso il catastrofismo che assolutamente non esiste e semmai propende più per ritenere l’apporto antropico, molto lieve se non trascurabile.(2) Del resto, l’intreccio inestricabile fra università, editoria scientifica, finanziamenti, scuole accademiche e burocrazie rende il criterio del consenso non soltanto elusivo e discutibile, ma un evidente scivolamento verso forme di primitivo fideismo verso il basso e di controllo politico dall’alto.
Infatti, è proprio questo che è accaduto in maniera evidente a partire dalla pandemia, dove tutto è stato grossolanamente manipolato. in ragione di interessi immediatamente economici e, in prospettiva, di trasformazione autoritaria della società, facendo leva sulla paura biologica. E dire che negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso regnava il pensiero di Karl Popper secondo cui il controllo empirico delle ipotesi non serviva a verificarle.
Perché chi cerca conferme le trova sempre, ma esse vanno messe alla prova spietata della critica e della sperimentazione. E invece siamo sommersi da forme di proto-religiosità che odiano qualsiasi discussione, anche perché spesso il dibattito sarebbe imbarazzante. Spesso questi ingenui si credono progressisti ed emancipati, mentre lavorano per la regressione intellettuale. Per non parlare di coloro i quali pensano che la scienza possa dare la risposta ad ogni cosa, mentre è scientifico solo ciò che può essere contestato o, nel linguaggio popperiano, falsificato. Voglio proseguire questo piccolo, minimo excursus, così astratto dalla realtà di questi giorni eppure così terribilmente attuale, citando le parole della prefazione che Feyerabend, l’ultimo filosofo della scienza di cui ha senso parlare, scrisse per Contro il metodo,(3) la sua opera centrale: “La scienza va protetta dalle ideologie; e le società, specie le società democratiche, vanno protette dalla scienza. Ciò non significa che gli scienziati non possano trarre vantaggio da una formazione filosofica e che l’umanità non abbia mai tratto e mai trarrà vantaggio dalle scienze. Tuttavia, questi vantaggi non vanno imposti; vanno esaminati e accettati liberamente dalle parti coinvolte nello scambio. In democrazia le istituzioni, le proposte e i programmi di ricerca scientifici vanno perciò assoggettati al controllo pubblico. Deve esserci una separazione fra Stato e scienza esattamente come c’è una separazione fra Stato e istituzioni religiose”.

Invece abbiamo un controllo privato sia della scienza che dello Stato come portato della società neoliberista. Ed è così che la prima diventa ancella del secondo che a sua volta viene scippato al controllo dei cittadini. E così i fatti da verificare diventano cornice di una teoria sociale. Secondo un altro filosofo della scienza, quello che prediligo, ovvero Thomas Kuhn, l’evoluzione della scienza è un percorso discontinuo, non cumulativo, in cui fasi di “scienza normale”, regolata da un “paradigma” – per esempio l’aristotelismo nel pensiero medioevale o la dinamica newtoniana dal Settecento al primo Novecento – che, in un determinato momento, può essere rotto da una rivoluzione di pensiero. Ma nel nostro caso una simile rottura del paradigma, che ci sta portando a una guerra infinita, non può che essere allo stesso tempo sociale e intellettuale.

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