Una donna misteriosa in maschera, uno sguardo e poi uno smarrirsi tra la folla di quel carnevale chiassoso, e poi un ritrovarsi e uno smarrirsi continuo. Ma chi era mai quella donna che lo aveva tanto appassionato e affascinato.

 

Romeo e Giulietta – Frank Bernard Dicksee – 1884

 

racconto

di

Liliana Righetti

Era un freddo mattino di febbraio, con un cielo azzurro pallido e l’aria limpida come accade spesso d’inverno. La città era in fermento per la sfilata di Carnevale. Mamme con i figli, ragazzi e ragazze in cerca di avventura, maschere e curiosi, attraversavano frettolosamente i ponti sull’Adige. La folla si stava assiepando ai lati delle strade, riempiendo ogni più piccolo spazio di chiassosa allegria.

Tra bande musicali e carri allegorici, le maschere attraversavano con difficoltà le strette vie del centro lanciando manciate di coriandoli. Cascate di stelle filanti cadevano sulla folla attutendo il suono di alcuni violini.

Francesco e Giovanni giunsero nel preciso momento in cui passava il carro di Porto San Pancrazio, raffigurante il mitico Buso del Gato. La loro attenzione venne calamitata più dalle ragazze che dal corteo mascherato. Si sa che il Carnevale spinge a trasgredire le normali consuetudini e su questo facevano affidamento. Dopo attenta ricerca, trovarono un luogo dal quale ammirare agevolmente il corteo. Stavano arrivando i pagliacci, quando un gruppo di ragazze si mise alle loro spalle bersagliandoli con nuvole di coriandoli e frasi audaci.

Francesco fu distratto dal rapido passaggio di una misteriosa ragazza mascherata. Si era girata più volte a guardarlo attirando la sua attenzione. Era sola, e si muoveva in fianco al corteo come se cercasse qualcosa o qualcuno. Vestiva come una dama del trecento, con gonna lunga fino ai piedi, corpetto attillato e una mascherina nera che le copriva il viso. Distratto da quanto avveniva intorno e dalle continue provocazioni delle ragazze, Francesco la perse di vista e, quando tornò a cercarla, era svanita tra la folla.

La festa impazzava, tra bande musicali e scatenate majorette, attraversando con ondate di gioia e colori la gente assiepata sui marciapiedi. Bande di ragazzini terribili, vanamente inseguiti dai vigili e armati di bombolette di schiuma, seminavano il panico tra i presenti.

Ecco riapparire la ragazza mascherata. Si avvicinò lentamente, fermandosi a pochi passi da Francesco. Il delicato profumo di violette che la circondava gli fece aumentare le pulsazioni cardiache. Avrebbe voluto dirle qualcosa ma, mentre cercava le parole adatte, la ragazza sparì nuovamente, lasciandolo solo con le sue incertezze. Si stava ancora chiedendo perché non fosse riuscito ad agganciarla, quando vide arrivare la cugina Loretta in compagnia di una ragazza.

   «Guarda chi c’è!» Esclamò Giovanni.

   «Che sorpresa trovarvi qui» disse Loretta, mettendo in mostra un sorriso a tutta bocca. «Questa è Luciana, una compagna di scuola.»

   «Non ho mai visto due studentesse tanto affascinanti» disse Giovanni presentandosi.

Francesco diede un bacio sulla guancia della cugina e strinse la mano a Luciana. Lei ne rimase colpita, anzi, folgorata.

Alto e prestante, capelli corvini tagliati corti, gli occhi nocciola e la carnagione scura lo rendevano inconfondibile. Quando sorrideva, e non lo faceva spesso, Francesco ricordava il crosciare di un ruscello alpino sulle pietre del greto. Si atteggiava a duro, anche se, sotto i modi bruschi usati per nascondersi, aveva un cuore d’oro. Molte ragazze lo corteggiavano ma la sua bella si chiamava Anarchia, anche se le sue idee in proposito erano abbastanza confuse. Frequentava il Centro Sociale della città e voleva cambiare il mondo. Non domani o dopodomani oppure tra qualche anno, lo voleva fare subito.

La cugina Loretta gli voleva un bene dell’anima anche perché, fino a qualche anno prima, si era pazzamente innamorata di lui. Amore peraltro ricambiato, come accade talvolta tra cugini che scelgono di esplorare le misteriose e affascinanti strade dell’amore in tutta sicurezza.

Lei era molto diversa da Francesco sia fisicamente sia come carattere. Mentre lui rifletteva le infuocate sabbie d’Arabia, Loretta ricordava la Norvegia. Come lui appariva oscuro e tenebroso, così lei sembrava figlia della luce. Si sa che gli opposti si attraggono e questo valeva anche per loro.

Solo Loretta aveva il potere di tranquillizzare Francesco e di fargli dimenticare le sue ansie esistenziali. L’affetto per il cugino la spingeva a proteggerlo in ogni circostanza, arrivando persino ad aiutarlo nella ricerca di una ragazza che lo potesse rendere felice. Quando lesse l’ammirazione e lo stupore negli occhi di Luciana, decise di invitarlo ad accompagnarle.

   «Stiamo cercando un’amica, venite anche voi?» Disse Loretta sprizzando gioia dagli occhi. «Vedrete che ci divertiremo.»

In quel preciso momento riapparve la misteriosa damina del trecento che sembrava avere l’intenzione di avvicinarsi. Come la vide, Francesco respinse l’invito.

   «Andate pure, io resto qui» disse e, non trovando scusa migliore, aggiunse: «Devo incontrare un tizio che… mi dovrebbe portare un DVD.»

Loretta aveva notato gli strani movimenti della ragazza mascherata e gli sguardi di Francesco. Valutò la situazione e decise di assecondarlo. Magari fosse la ragazza giusta, pensò, sarebbe ora che mettesse la testa a posto.

   «Ci vediamo stasera?» Disse proponendosi di interrogarlo al termine della sfilata.

   «Credo di sì» rispose lui, cercando di non perdere di vista la dama mascherata.

   «Non mancare, devo dirti una cosa importante» concluse lei.

Salutò il cugino, prese sottobraccio gli altri due e si allontanò.

Francesco rimase qualche istante a guardarli mentre si allontanavano ma, quando si volse, la dama era sparita.

Si sentì abbandonato, solo in mezzo a tanti che si divertivano.

Si portò nei pressi di una bancarella, dove la gente era meno fitta e si poteva vedere meglio la sfilata dei carri. Stava passando una formazione di majorette dalle lunghe gambe affusolate. Indossavano un costume azzurro in stile militare, gonne cortissime e un buffo cappello sulla testa che completava l’abbigliamento.

Notò che molte avevano le gambe arrossate per il freddo. E mentre si chiedeva come potessero sopportare la temperatura rigida, che il corto gonnellino non poteva certo mitigare, ecco riapparire la ragazza mascherata.

Era dall’altra parte della strada e sembrava guardarlo. Non poteva esserne certo, ma questa fu la sua impressione. Gli occhi, che la mascherina permetteva solo di intravedere, sembravano brillare. Imbarazzato, distolse lo sguardo tornando a guardare le majorette, o meglio, l’ultima fila di queste che si allontana marciando verso il fondo della piazza.

Osservò per qualche minuto l’abile piroettare dei lunghi bastoni colorati, quindi tornò a cercare la ragazza mascherata. Non c’era più. Svanita nuovamente tra la folla.

Provò una sorta di delusione come se qualcosa gli fosse stata tolta.

Il caratteristico aroma dei bomboloni caldi, ricoperti di zucchero, attraversò l’aria.

Ed ecco giungere il Duca della Pignatta, gran dignitario del rione di Santo Stefano, seguito dai cortigiani del Dio dell’Oro nei loro sgargianti costumi. Lanciavano sulla folla luccicanti monete di cioccolata e nuvole di coriandoli.

Francesco dimenticò la misteriosa apparizione e si immerse nei colori chiassosi, nei canti e suoni che lo circondavano.

Fu in quel momento che percepì nuovamente un profumo lieve di viole e sentì, fu proprio il caso di dire, che qualcuno lo stava guardando. Si volse e la vide accanto a sé.

Era una maschera affascinante. Aveva lunghi capelli castani raccolti dietro la nuca da un fermaglio argentato, un vestito di raso blu e un modo aggraziato di muoversi che richiamava il passo della pantera.

Francesco la guardò negli occhi o, per meglio dire, nelle fessure della mascherina.

   «Ciao, sei rimasto solo?» Disse la ragazza.

Lui non si aspettava quella domanda e rimase qualche istante senza parole.

    «Sì, il mio amico se n’è andato» rispose quando si fu ripreso.

   «Come mai?» Chiese lei mettendo in mostra un delizioso sorriso che si intuiva dalle pieghe della bocca.

   «Ha incontrato delle ragazze» rispose imbarazzato.

   «Perché non li hai seguiti?» Disse lei, con un accento che faceva pensare venisse da qualche paese della provincia o, forse, da più lontano.

   «Non mi andava.»

   «Non ti piacciono le ragazze?» Chiese ancora la maschera.

Il suono di un’orchestra avanzante coprì le loro voci e Francesco fece cenno alla damina di spostarsi dietro la folla in festa. Lei sollevò con grazia la lunga gonna con le mani e lo seguì.

   «Ti ho chiesto se ti piacciono le ragazze» ripeté lei, alzando la voce nel tentativo di farsi sentire.

   «Certo che mi piacciono, ma oggi non sono dell’umore giusto.»

   «Hai la malinconia?» Chiese lei sistemando la veste.

   «Certo che no, ma non mi andava.»

   «Mi offri da bere? Ho una voglia matta di caffè.»

   «Spostiamoci più in là, qui non si sente niente» rispose Francesco.

   «Ti ho chiesto se mi porti al bar; ho voglia di un caffè.»

   «Certo, laggiù ci sono dei tavoli all’aperto ma… non ho capito il tuo nome.»

   «Non te l’ho ancora detto» rispose la maschera, senza aggiungere altro.

Francesco si fece largo tra la folla, evitò due ragazzini che si rincorrevano con le bombolette della schiuma in mano e, passando tra i banchi del mercato, raggiunse Caffè Filippini.

Alcuni avventori, approfittando dei raggi del sole che temperavano l’aria frizzante di febbraio, si erano arrischiati all’aperto.

   «C’è troppo freddo per sederci qui?» Chiese lui scostando una sedia.

   «Va benissimo» rispose la ragazza «così possiamo seguire la sfilata.»

   «Ti piace il carnevale?» Disse Francesco quando si furono seduti.

   «Un sacco, è una festa entusiasmante.»

Giunse il cameriere, impeccabile nella sua divisa: pantaloni neri e un gilet di raso, altrettanto nero, su di una candida camicia.

   «Desiderano?» Chiese tenendo in mano il blocco delle ordinazioni.

   «Per me un caffè» disse Francesco.

   «Anche per me» aggiunse lei, incantata dal vestito del cameriere.

I due rimasero a guardarsi finché giunsero le ordinazioni. Francesco si chiese più volte di che colore fossero gli occhi che brillavano tra le fessure della mascherina. Non voleva illudersi, ma sentiva che erano bellissimi.

Il cameriere posò le tazze sul tavolo, aggiunse il contenitore delle bustine con lo zucchero e sotto vi infilò lo scontrino. La ragazza prese una bustina, mise lo zucchero nella tazza e mescolò.

   «Buono» disse leccando avidamente il cucchiaino. «Così fragrante e cremoso; ne berrei a litri.»

   «Come mai questa passione?» Chiese Francesco.

   «Credo sia per il gusto dolce-amaro e… il profumo esotico.»

Mentre Francesco ammirava la sua figura aggraziata, la maschera disse:

   «Come ti chiami?»

   «Francesco, e tu?»

   «Non lo so, me ne sono dimenticata.»

   «Vuoi fare la misteriosa?»

   «Non siamo a carnevale?» Rispose lei sorridendo. «È il giorno in cui ci si maschera per sembrare diversi da ciò che si è; per guardare gli altri e farsi ammirare in incognito.»

   «Certo, ma visto che siamo insieme, pensavo…»

   «Come corri, non è ancora il momento di svelare il mio segreto.»

   «Si può almeno sapere da dove vieni?»

   «Sono di Verona, come te» rispose lei sorridendo.

   «Centro o periferia?»

   «Abito qui vicino, se così si può dire.»

   «In che senso?»

   «È difficile da spiegare, abito qui ma… vengo da lontano, molto lontano.»

   «Da Vicenza?» Chiese lui tirando a indovinare.

La ragazza sorrise, mettendo in mostra una bocca così bella e sensuale quale non ricordava di aver mai visto. Era la sola cosa visibile della donna e non smetteva di osservarla.

  «Ti ho già detto che sono di Verona» disse lei.

A Francesco non piaceva quel gioco e si volse a guardare in direzione della sfilata. Il corteo procedeva allegramente, con il carro di Mastro Sogar che sparava a tutto volume una scatenata canzone latina.

L’umore di Francesco cambiava spesso. Bastava un niente per innalzarlo nell’alto dei cieli o sprofondarlo nella disperazione. Il rifiuto della ragazza di rivelare il suo nome e quel giocare a nascondino sul luogo di provenienza gli fecero vedere le cose come si trovasse in un mondo di nebbia spessa e grigia.

Il silenzio di Francesco colpì la ragazza.

   «Sei arrabbiato?» Chiese sfiorandogli la mano.

Lui non rispose.

   «Eppure, sono sicura che mi conosci» disse lei.

La mano era fresca e piacevole al tatto. Francesco la strinse, stupito per l’emozione che provava. La tristezza svanì immediatamente nel nulla dal quale sembrava essere giunta.

La ragazza, approfittando del suo turbamento, appoggiò la mano di Francesco sul suo seno.

   «Sei un bel ragazzo» disse, mandandolo letteralmente in cortocircuito.

Francesco, sorpreso per la piega che stava prendendo l’incontro e incapace di replicare in modo adeguato al complimento, rispose:

   «Come tanti.»

   «Mi ricordi qualcuno che conoscevo» disse lei, con voce fattasi improvvisamente malinconica.

   «E… chi sarebbe?» Chiese guardingo.

   «Un uomo che ho amato.»

   «Si è trattato di… un grande amore?» Chiese lui, sempre più interessato.

   «Certo Francesco, un amore molto grande» rispose lei, scandendo le ultime parole.

   «Lo ami ancora?»

   «Sicuro, non lo sai che l’amore è eterno?»

Deluso, Francesco cercò di togliere la mano dal seno della ragazza.

   «Che ti prende?» Disse lei.

   «Non mi piace fare il tappabuchi» rispose seccato.

   «Che vuol dire?»

   «Vuol dire che… se ami un altro, non è il caso di fare confusione.»

   «Guarda che l’amore non è esclusivo, e non vuole padroni.»

   «Per me sì, sono all’antica» rispose tenendosi sulle sue.

   «Ti sei accorto che ti seguivo?» Disse lei cercando di rabbonirlo.

   «Sì, credo di sì» rispose Francesco, tentando di indovinare le intenzioni della

sconosciuta.

   «Quando ti ho visto, l’ho capito subito» aggiunse lei.

   «Capito che cosa?»

   «Che sei come lui; il medesimo sguardo e…»

   «Non capisco che cosa intendi dire.»

   «Non importa» disse lei cambiando discorso. «Vuoi che mi tolga la maschera?»

   «Se credi sia il momento giusto, ma non voglio forzarti» rispose, stufo di quel tira e molla. La ragazza dava l’impressione di non essere del tutto a posto con la testa e temeva sorprese.

   «Però mi devi promettere una cosa» disse lei.

   «Quale?»

   «Che poi andiamo a passeggiare.»

   «Se è per questo, credo si possa fare.»

La damina sciolse la cordicella che la teneva e tolse la maschera.

Aveva due splendidi occhi verdi con riflessi grigio perla. Brillavano di luce propria come stelle del cielo, o così sembrò a Francesco.

Vedendolo sorpreso, lei sorrise, più con gli occhi che con la bocca.

   «Sei deluso?» Chiese sfiorandogli ancora la mano.

Francesco non rispose, ma la sua contentezza era evidente.

   «Su, andiamo a fare quattro passi» disse lei alzandosi.

   «Fatti guardare» rispose Francesco tornando a sorridere. «Ho cercato di immaginare il tuo viso e ora…»

   «Soddisfatto?»

   «Certo, certo…» disse imbarazzato.

Poi si alzo, lesse il prezzo sullo scontrino e lasciò i soldi sul tavolo.

   «Vieni,» disse lei afferrandogli la mano «voglio vedere Madonna Verona.»

 

La statua osservava, dall’alto, l’intera piazza, incurante della confusione che la circondava.

   «Non è meravigliosa?» Esclamò lei ammirando la fontana.

   «Sì, è molto bella» disse Francesco, anche se pensava non fosse paragonabile al fascino della misteriosa sconosciuta.

   «Dove hai messo la mascherina?» Chiese Francesco.

La ragazza frugò nel borsello. «Eccola, l’avevo riposta. La vuoi?»

   «Mi farebbe piacere» rispose lui prendendola in mano. Era di velluto nero e morbida al tatto. Un impulso improvviso lo indusse a tenerla. La piegò e la mise in tasca.

   «Allontaniamoci» disse trascinando la ragazza verso la Costa. «Non ne posso più di questa confusione.»

Lei lo seguì, osservando persone, case e palazzi. Passarono sotto la volta, che univa tra loro i caseggiati, ed entrarono in Piazza dei Signori. Si fermarono in silenzio, sotto la statua di Dante, ad ammirare l’incredibile bellezza di quel luogo senza tempo.

La ragazza si guardò intorno.

   «È molto cambiata» disse.

   «Che cosa vuoi dire?»

   «Ci sono tanti palazzi nuovi.»

   «Beh, anche il più recente ha qualche secolo, non credi?»

   «Chi è questo?» Chiese lei, indicando il monumento al Sommo Poeta.

   «Non vedi che rappresenta l’autore della Divina Commedia?»

La ragazza non parve interessata e si volse dall’altra parte.

   «Vieni, Francesco, che ne dici di una bella corsa? Facciamo a chi arriva per primo laggiù.»

   «Dove?» Chiese lui.

   «Fino a quel porticato.» E, prendendolo in contropiede, si lanciò di corsa tenendo sollevata la gonna con le mani.

Francesco la rincorse, raggiungendola dopo pochi passi.

   «Non vale,» disse lei ansante «con la gonna non è facile muoversi.»

   «Sei tu che mi hai sfidato» rispose lui prendendole la mano.

Lei si lasciò condurre e Francesco si trovò a camminare immerso nella gioia che s’infittiva ogni volta che lei si voltava a guardarlo.

Usciti dalla piazza, si trovarono davanti alle Arche Scaligere e l’attigua chiesa di Santa Maria Antica. La ragazza si fermò a guardare a bocca aperta l’incredibile distesa di statue, guglie, elmi e tempietti.

   «Fanno sempre un certo effetto» disse Francesco perdendosi nel loro splendore.

Le tombe dei Signori di Verona svettavano alte, ricamando l’azzurro del cielo con i ghirigori in marmo rosso dei Lessini.

   «Che meraviglia!» Esclamò la ragazza. «Ogni volta che le vedo, mi vengono i brividi. Ne è passato di tempo.»

   «In che senso?» Chiese Francesco.

   «Da quando… le hanno costruite» rispose lei.

Francesco la guardò negli occhi, chiedendosi quale fosse di preciso il loro colore. Cambiava con la luce, e ora aveva assunto una sfumatura azzurra su di un mare verde scuro.

Ritenendo il momento propizio, disse:

   «Insomma, mi vuoi dire il tuo nome?»

   «Indovinalo!» Lo sfidò lei, con un’espressione divertita sul viso.

   «Dimmi almeno quanti anni hai» insistette Francesco.

   «Quattordici» rispose seria la ragazza.

Francesco sussultò. Non pensava fosse tanto giovane. Aveva il corpo di una diciottenne, ma guardandola bene in viso poteva aver detto la verità.

   «Sei troppo giovane per me… non vorrei…»

   «L’amore non conosce ostacoli di pietra» disse la ragazza, sfiorandogli la guancia con la mano.

Quelle parole richiamarono nella sua mente qualcosa di conosciuto, come se le avesse già sentite.

   «Hai detto che ti conosco, ma sono certo di non averti mai vista.»

   «Chi ti piacerebbe fossi?» Disse lei guardandolo con dolcezza. «Un’amica, una sconosciuta oppure una dolce sorellina?»

Francesco non riusciva a capire che cosa intendesse dire.

   «Non mi piace questo gioco. Se vuoi dirmi il nome bene, altrimenti è lo stesso.»

   «Su, non arrabbiarti» disse lei prendendogli entrambe le mani «te lo dirò più tardi; ora voglio stare con te, come una sconosciuta, una donna che hai incontrato per caso e… ti piace.»

   «Su questo non ci sono dubbi» rispose Francesco tirandola a sé fino a percepirne il contatto. «Mi piaci un sacco Violetta. Sì, ti chiamerò così, come il profumo della tua pelle.»

   «Anche tu mi piaci, Francesco. Sei l’uomo che volevo incontrare» disse lei posandogli il capo sul petto. «Ti ho visto tra tanti e non ho avuto alcun dubbio. Stringimi forte, ti prego, voglio sentire i battiti del tuo cuore.»

I pensieri di Francesco si fermarono improvvisamente sulla soglia della felicità. Le parole della ragazza avevano schiuso la porta di un luogo che non credeva esistesse. Incredulo della fortuna capitatagli, la strinse a sé accarezzandole la schiena.

Un tremito lo percorse salendo dai piedi, su, su, fino alla nuca. Voleva dire qualcosa, ma non vi riuscì.

   «Tienimi stretta, Francesco, era da un sacco di tempo che non provavo un’emozione così bella. Non senti i nostri corpi che vibrano?»

Certo che vibrano, pensò lui non riuscendo a fermare lo strano tremore alle gambe che non ricordava di aver mai provato. Percepì il calore del suo corpo e il profumo della sua pelle gli entrò nei polmoni stordendolo.

Cercò di scuotersi e disse:

   «Il cielo sta scurendo e non conosco ancora il tuo nome.»

   «Non hai detto che sono Violetta? Il fiore più bello del tuo giardino?»

   «Sì, sei il mio fiore, la luce del mio cuore» rispose lui, con la testa in confusione.

Rimasero abbracciati per qualche minuto, persi nella magica luce che li aveva avvolti. Erano soli, tra la gente che passava, come si trovassero lontano, nel più alto dei cieli.

Un refolo di vento gelido fece emergere Francesco dall’incanto in cui era caduto, e si accorse che si era fatto tardi.

   «Vieni che ti accompagno a casa» disse.

   «Ma come? È presto! La notte non ha ancora disteso le sue ali sulla città.»

   «Come vuoi tu, Violetta, pensavo dovessi rincasare.»

   «Ora che ti ho trovato? Sei tu la mia casa!»

   «Non pensi di esagerare? Ci siamo appena conosciuti e…»

   «Ti sbagli, Francesco, ti conosco da sempre.»

Lui non rispose, si stava abituando a quello strano modo di esprimersi. Percepiva un fondo di verità in quelle parole, anche se non riusciva a capirne la ragione.

   «Andiamo a salutare l’Adige prima che faccia buio» disse lei. «È passato tanto tempo dall’ultima volta che… nemmeno lo ricordo.»

Tenendosi per mano imboccarono la stradina che porta a Sottoriva. Ne percorsero i portici e, passando dietro la chiesa di Santa Anastasia, ecco apparire le rive del fiume.

L’Adige gorgogliava, acquistando velocità sotto gli archi di Ponte Pietra, e il rumore dell’acqua pareva un canto struggente.

Violetta si appoggiò al muretto affacciandosi.

   «Che luogo meraviglioso!» Esclamò.

Il Castello, immerso nel verde scuro dei cipressi, sembrava vigilare sui tetti rossi delle case. Le colline, il Teatro Romano, Santo Stefano e l’antico ponte in pietra si specchiavano nell’acqua limpida del fiume mandando riflessi dorati.

   «Come mai c’è così poca acqua?» Disse lei. «Lo ricordavo diverso.»

   «Non avevi detto che abiti qui vicino?»

   «Sì, ma non vengo spesso da queste parti» rispose lei tornando ad abbracciarlo. L’aria si oscurò e nel cielo spuntarono le prime stelle.

   «Vorrei che la luna si fermasse», disse lei sospirando «e rimanesse immobile sopra di noi inondandoci di luce.»

   «Non si può fermare il tempo, anche se talvolta farebbe comodo.»

   «Vedi le stelle lassù?» Disse lei indicando il cielo. «Brillano per noi.»

I visi si sfiorarono e la luce dei loro occhi divenne una sola. Francesco era confuso. Non capiva se stava guardando il cielo oppure il viso della ragazza. Senza che nessuno dei due se ne accorgesse, le labbra si cercarono, si toccarono, vibrarono nella delizia del contatto.

Dopo un tempo lunghissimo, che nessuno dei due avrebbe saputo quantificare, si staccarono.

   «Baciami ancora, ti prego!» Disse lei.

Francesco annaspò nella gioia.

   «Le tue labbra hanno il sapore delle more selvatiche,» disse «non mi stancherei mai di…» ma non finì la frase perché lei lo baciò ancora.

Persero entrambi contatto con la realtà e il tempo sembrò fermarsi davvero. Eppure i minuti scorrevano inesorabili.

   «Dio mio, s’è fatto tardi!» Esclamò lei guardando il cielo. «Devo scappare.»

   «Non so niente di te, nemmeno il tuo nome» disse Francesco. «Come faremo a rivederci.»

   «Mi chiamo Giulietta» disse lei abbandonandosi tra le sue braccia.

   «Giulietta come?» Chiese Francesco, deciso di andare fino in fondo.

   «Giulietta e basta. Ma ora devo andare.»

   «Lascia almeno che ti accompagni.»

   «È meglio di no, ti prego.»

Francesco non voleva rassegnarsi.

   «Quando possiamo rivederci?» Disse.

   «Non lo so! Tra qualche anno, chissà…» rispose lei. «Oppure il prossimo Carnevale.»

   «Non scherzare Giulietta, voglio vederti domani.»

   «Francesco, non rendere le cose più difficili, te ne prego» disse lei, mentre una lacrima le bagnava il viso.

   «Qual è il problema?»

   «Non hai ancora capito?» Disse lei asciugandosi gli occhi col fazzoletto.

   «Che cosa? Che cosa dovrei aver capito?»

   «Non ti ho detto che vengo da molto lontano?»

   «Sì, mi sembra di ricordarlo.»

   «Guarda che… è più lontano di quanto tu possa immaginare.»

   «Non vorrai dire che sei Giulietta Capuleti e…» ma non finì la frase perché ciò che stava pensando era semplicemente assurdo.

   «È così Francesco, ogni tanto torno a Verona per… ritrovare l’amore.»

   «Non scherzare Giulietta, dimmi che ti stai prendendo gioco di me.»

   «Non rovinare tutto, ti prego, è nei patti. Posso ritornare qualche volta e… basta.»

   «Quali patti? Non capisco!»

   «Lasciami andare!» Insistette Giulietta. «E se il tuo amore è grande, se mi ami come non hai mai amato in vita tua, tornerò.»

Lui rimase immobile, mentre Giulietta gli dava un ultimo bacio.

Le mani si strinsero e, lentamente, si sfilarono.

La guardò andarsene col cuore in agonia mentre l’Adige piangeva della sua stessa tristezza.

   «Quando tornerai, ti riconoscerò?» Gridò verso la ragazza.

Lei si fermò.

   «Ricorda la mascherina nera, la porterò ancora» disse, mettendosi a correre verso Sottoriva.

Era frastornato, incredulo, in balia di forze più grandi di lui. Guardò l’acqua del fiume e la collina con le ombre scure dei cipressi.

Alzò gli occhi al cielo chiedendo consiglio e decise di reagire.

Non può finire così, si disse mettendosi a correre nella direzione in cui lei era svanita.

Ma Giulietta era lontana e non riuscì a raggiungerla.

Ansante, Francesco si fermò in Piazza dei Signori. Non sapeva quale direzione prendere e, istintivamente, si diresse verso Piazza delle Erbe. Superato l’arco della Costa si guardò intorno e vide, alla sua sinistra, una ragazza che correva. Non era sicuro fosse lei, ma la rincorse col poco fiato che gli era rimasto.

Giunse in via Cappello, appena in tempo per vederla infilarsi nel volto di Casa Capuleti. Aumentò l’andatura e raggiunse il cancello di ferro che ne chiudeva l’ingresso. Era sicuro che vi fosse entrata, ma non riuscì a capire come avesse fatto a passare. Scosse le robuste sbarre per accertarsi fosse aperto ma… niente da fare.

Non voleva nemmeno pensare a ciò che sospettava. Eppure le parole di Giulietta, se questo era il suo nome, sembravano vere. Com’è possibile? Si chiese in preda al dubbio. Può l’amore attraversare il tempo e…

Non poteva crederci.

   «Giulietta, Giulietta!» Gridò; ma nessuno rispose.

Alcuni passanti frettolosi si voltarono, incuriositi dai suoi richiami.

Incurante della loro presenza, chiamò ancora:

   «Giulietta, Giulietta! Dove sei?»

Qualcuno si fermò a guardarlo, senza capire cosa stesse accadendo.

Francesco rimase per qualche minuto aggrappato alle sbarre. Le scosse con forza, le scosse ancora, ma alla fine si arrese. Staccò le mani dal cancello, rassegnato e deluso, anche se il cuore non voleva arrendersi.

Se il mio amore è sufficientemente grande, si disse, lei tornerà. E fu in quel momento che ricordò le parole di Shakespeare: “Sulle ali leggere dell’amore ho scavalcato questi muri. Amore non teme ostacoli di pietra. Amore, quando a una cosa intende, è ardimentoso e pronto…

La fronte gli scottava e un sudore freddo glielo imperlava. Aveva bisogno di calmarsi, schiarirsi le idee. Sì, una bella camminata lungo l’Adige mi rimetterà in sesto, si disse riprendendo la strada di casa.

Mentre camminava verso Porta Leoni, udì una voce che lo chiamava.

   «Francesco, dove vai? Aspettaci!» Era la cugina, che lo seguiva in compagnia di Luciana.

Stordito, si fermò ad aspettare Loretta con il cuore che naufragava in un mare di malinconia. Ciò che gli era accaduto sembrava solo un sogno.

   «Che ti è successo?» Chiese la cugina. «Hai un viso così strano che…»

   «Niente di particolare» disse lui, convinto di aver sognato. Mise la mano nella tasca per prendere le chiavi dell’auto e sentì qualcosa di morbido tra le dita. Era la maschera di Giulietta. La prese in mano e la guardò. L’avvicinò al viso, percependo un lieve profumo di viole.

   «Non me la racconti giusta, cugino» disse Loretta prendendolo sottobraccio. «Devi aver incontrato una donna speciale.»

   «Sì, era veramente speciale» disse Francesco.

E il cuore, che si era nascosto da qualche parte, riprese a battere forte.

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