Alla vigilia dell’Immacolata, come da bambino, faremo a casa il presepe

UNO, MILLE, UN MILIONE DI PRESEPI

Alla vigilia dell’Immacolata, come da bambino, faremo a casa il presepe. Invito tutti a farlo a casa, e se è possibile anche a scuola e in altri spazi pubblici. Un presepe in ogni casa, per amore e per ricordo, per civiltà e per umanità, anche se non si è credenti o praticanti. Per mille ragioni nobili più una, solo una, polemica: per rispondere ai natalofobi. Non sanno cosa si perdono e cosa fanno perdere ai bambini.

Il presepe celebra la nascita di un bambino, di una famiglia, di una comunità. È la rappresentazione di un’antica alleanza tra grandi e piccini nel dolce incanto della natività. È il calore in pieno inverno, è il cielo stellato nel gelo di dicembre, è la luce nel buio della notte. Il presepe consacra la famiglia, composta da padre, madre e figlio, e celebra la casa, anche se è una nuda grotta. Il presepe rinnova una tradizione, è un esempio magico di edilizia sacra, tramite un lavoro collettivo di fondazione. A scuola bambini di ceto diverso e capacità diversa costruivano insieme una miniatura di universo e umanità, una città pacificata di anime e corpi, umili e gloriosi. E in quella famiglia vedevano la loro, anche se quella era una famiglia speciale, povera ma altolocata con una Madre ragazzina che partoriva quasi all’aperto, senza ostetrica. In quel paese che si chiamava città del pane (Betlemme) riconoscevano il loro paese; in quelle facce di pastori, venditori, pellegrini ritrovavano quelle dei loro conoscenti. Di ognuno di loro mia madre mi raccontava la storia, e loro prendevano vita; il cuore si apriva, con la fantasia, alla vita degli altri, ai travagli altrui e alla povertà; anche il più umile aveva la sua dignità, la sua storia, la sua attenzione. Il povero che offre doni è una lezione di umanità.

Il presepe è il modo concreto e favoloso per rappresentare l’alleanza tra il cielo e la terra, tra uomini e animali, tra popoli e sovrani, tra oriente e occidente. Nel presepe vedemmo per la prima volta insieme bianchi e neri, uno dei re magi era moro e non suscitava razzismo. Nel presepe imparavamo a riconoscere ed amare la natura, la bellezza dei monti riprodotti in carta da imballaggio travestita e maculata, dei fiumi e dei laghetti, anche se erano specchietti rubati alla vanità femminile; il muschio vero e la neve finta, poi le palme, il cielo stellato e il prodigio di una stella cometa posata sopra una grotta, spesso in modo precario. Ma faceva sognare quel navigatore celeste che aiutava a trovare la strada. Nel presepe acquistavano dignità gli animali più umili, a cominciare dall’asino e dal bue, primi caloriferi animati per un Divino Utente e i suoi santi congiunti. Veniva rivalutato il ciuccio, modello negativo proverbiale, a scuola e nella vita. Poi c’erano le papere, le pecore e le oche, ondeggiavano tra le dune serafici cammelli.

Il presepe apre i cuori all’aspettativa, allo stupore. È un esempio di fiducia nell’avvenire, una comunità fondata non sull’interesse ma sul comune amore per un Bambino che nasce e una fede che unisce. Chi offende una rappresentazione così dolce e innocua di vita, religione e comunità? Del presepe si possono sentire leggermente offesi solo gli eredi di Erode o quelli che al Bambino preferiscono l’abortino. Da cosa dovrebbero sentirsi offesi gli islamici o gli ebrei, se perfino la location del presepe è loro famigliare e non c’è nulla ma proprio nulla contro le loro religioni? E i bambini figli di atei o non credenti, in cosa dovrebbero sentirsi offesi, da un bambino che nasce, da un popolo raccolto intorno a lui in un tributo d’amore, dallo sfarfallio di angeli con la chitarra? Dell’angelo sospeso sulla grotta magari a loro colpirà il filo a cui sono appesi, ma perché dovrebbe irritarsi per lui? L’angelo è necessario, spiega un non credente come Massimo Cacciari in un libro che prendeva spunto da una lirica di Wallace Stevens. L’angelo spiega il filosofo, educa, custodisce, testimonia il mistero, è l’opposto del dáimōn, ci conduce dal visibile all’invisibile, porta messaggi di salvezza o almeno di elevazione.

Il presepe, per i non credenti, può essere l’esempio di una società fondata sul dono, direbbero Marcel Mauss e la scuola antiutilitarista sorta in suo nome; è la generosità oltre l’utile e il profitto, lo scambio e lo sfruttamento: dedizione gratuita, cura per l’altro a partire dal più debole, il neonato.

Per chi crede, il presepe è il sacro ad altezza d’uomo, è santità a domicilio, spiritualità che si fa carne, popolo e paesaggio; una divinità che prende in braccio il mondo e lo accarezza. È anche aspra la religione, è anche tosta, esige sacrifici, è martirio e sopraffazione, a volte è l’alibi per esercitare violenza e dominio; ma nel presepe no, è l’esempio mite di comunità armoniosa, di beatitudine casereccia, perfino musicale, di gratuità nel darsi, di bellezza del cammino per ritrovarsi uniti davanti all’Uno, l’Inizio, l’Evento eccezionale.

Chi preferisce l’Albero ha una visione più laica del Natale e della vita, più nordica e iconoclasta, protestante e calvinista, denatalizzata e consumista anche se si traveste di ecologico; è tendenzialmente più individualista e più incline al regno delle merci in forma di regali. Il Presepe dona una visione più religiosa del Natale e della vita, più italo-mediterranea, più cattolica, personalista e comunitaria, più incline al regno degli affetti, dei figli e delle figure umane. L’Albero viene dal Nord, ricorda i lapponi e Babbo Natale, anzi Santa Claus, evoca la neve e le montagne; invece, il presepe viene da Greccio, in Umbria, made in San Francesco, il più italiano dei santi e il più santo degli italiani disse Nonricordochi; evoca i Sud e l’Oriente, le dune e i datteri, l’umanità e la natività. Anche l’Albero è bello, ma sta bene al fianco del presepe.

Da bambino ero assistente alla regia del presepe, che era di mia madre; anche per lei faccio ancora il presepe, e mentre lo faccio, sento che mi sta dando una mano.

 

 

 

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