”Imma Tataranni è un sostituto procuratore dalla memoria prodigiosa abituata a risolvere i casi che le vengono affidati con metodi poco ortodossi. Ad accompagnarla nelle sue indagini attraverso la Basilicata è il – da poco – maresciallo Ippazio Calogiuri, con cui si è instaurato un rapporto di grossa complicità. Ma Imma è anche moglie e mamma e a casa la aspettano suo marito Pietro, che è il suo esatto opposto, e sua figlia Valentina, alle prese con un’adolescenza ribelle.
Se vi piace correre dietro i personaggi iperattivi come Imma Tataranni, non riposate mai, vi suddividete fra cento cose come un equilibrista, le fate tutte bene, ma tornate spesso a fine giornata con un vischioso senso di fallimento (del tutto ingiustificato), allora dovete affrettarvi a procurarvi questo libro.
E naturalmente anche gli altri, se per caso vi sono sfuggiti. Vi identificherete parecchio con questo brillante sostituto procuratore che, al contrario di diversi stereotipi d’oltreoceano, non ha un fisico da modella, il gusto di uno stilista italiano nel vestirsi, e un ironico aplomb nel modo di fare. Tutt’altro.
Imma Tataranni è bassina di statura, abbondante di circonferenze, e assolutamente imbarazzante da guardare come accostamenti di colori e modelli nell’abbigliamento. Non sempre ascolta i suoi collaboratori, e se lo fa, sbuffa spazientita per farli arrivare al punto. Spesso il suo umore assomiglia a quello di un rottweiler tenuto a digiuno, per cui sono molti gli sforzi che deve fare per non prendere a schiaffi dall’esasperazione chi le sta davanti.
Una pazza isterica? Ma chi leggerebbe mai un libro con un simile personaggio.
No, non è né isterica, né pazza. È semplicemente, o straordinariamente, una donna brillante, decisa, magari caotica nell’esprimersi così direttamente, senza perifrasi o metafore consunte, è una donna poco convenzionale come rappresentante dello Stato, non disposta a compromessi, sotterfugi e maneggi vari, riesce a risolvere tre casi quasi nello stesso tempo. Una Wonder Woman, allora!
No, una creatura dotata di una determinazione tignosa e una capacità di stare in equilibrio anche in mezzo alle tempeste. Oltre a tutte le inadeguatezze, vere e presunte.
Quando entriamo nel libro, Imma Tataranni sta sbuffando esasperata perché i suoi parenti in visita la stanno riempiendo di chiacchiere inutili e di commenti stupidi sugli splendidi Sassi in cui stanno passeggiando. Con un pretesto si allontana, e nei pressi di uno degli antichi palazzi che hanno reso famosa Matera, sente uno sparo. In pratica, piomba in un caso, senza ancora esserne consapevole… Il mattino dopo saprà prenderselo quasi di rapina, approfittando del fatto che il collega in via di assegnazione al caso stesso conosceva la vittima, Antonio (Antonello) Ribba, un faccendiere forse un po’ troppo intraprendente. La dottoressa Tataranni stava appena uscendo da un altro caso di corruzione e di speculazione immobiliare, che si era rivelato una disfatta quasi completa.
Con il piccolo ritratto che vi ho fatto prima, potete immaginare la sua tranquillità d’animo. A questo aggiungiamo una sua crociata personale contro i colleghi che usano gli orari di ufficio per farsi gli affari propri e percepire, tuttavia, il lauto stipendio senza un corrispettivo produttivo serio.
Questa è la fotografia d’inizio del romanzo. E vi ho parlato solo del suo lavoro.
E la sua adorabile famiglia com’è?
Pietro, il marito paziente forse pure troppo, e Valentina, la figlia sedicenne pericolosamente autonoma e ribelle? E la suocera di Imma, la signora De Ruggeri, e la sua spocchia, oltre ad un elevato senso del dispetto nei confronti di questo magistrato troppo ligio alle regole e al lavoro, e non abbastanza presente in famiglia? No, no, dovete godervi anche questi rapporti.
La dottoressa Tataranni non si fa mancare niente, e non fa mancare niente nemmeno a noi lettori, che la inseguiamo per i Sassi, non dimenticando di dare un’occhiata agli splendidi paesaggi, e che ridiamo di sottecchi (non facciamoci sentire) di fronte alle sue uscite ruvide con tutti, a partire dal proprio capo, alla sua semi-insensibilità nei confronti del giovane maresciallo Colagiuri che l’adora (forse troppo), e l’ammiriamo per la sua capacità di collegare eventi apparentemente estranei gli uni agli altri, e di afferrare le occasioni con facilità sbalorditiva.
Quando chiudiamo il libro e usciamo da Via del Riscatto, abbiamo il fiatone. Ma sorridiamo, perché abbiamo letto una storia complessa, avvincente e credibile, abbiamo scoperto altri lati di Imma, che lei tiene a non mostrare troppo, e non vediamo l’ora di incontrarla di nuovo.
La trama del romanzo.
Ma cos’ha di eccezionale Imma Tataranni, croce e delizia della Procura di Matera? Semplice! È una donna normale. Questa volta, a far ticchettare il suo tacco dodici sono una femme fatale dal profumo conturbante, due fratelli coltelli e una simpatica vecchia canaglia. Tra le mura di palazzo Sinagra giace il cadavere di un agente immobiliare, Antonello Ribba. Chi l’ha ucciso? Difficile essere sicuri di qualcosa, in un luogo popolato di antichi fantasmi come i Sassi di Matera. Tutto sembra inafferrabile, da quelle parti perfino la speculazione edilizia assume contorni quasi kafkiani. Quel che è certo è che ci sono in ballo sentimenti estremi, nei quali la nostra Piemme si identifica pericolosamente. Ma se il suo tribunale interno la dichiara colpevole, e lei si sente per un attimo un’Anna Karenina in salsa materana… non ha nessuna intenzione di gettarsi sotto un treno! In un palazzo disabitato dalle parti di via del Riscatto, nell’inquietante stanza rossa decorata con i vizi capitali, viene trovato il cadavere di un agente immobiliare. L’indagine questa volta si snoda proprio nel cuore dei Sassi, fra antichi monasteri, madonne bizantine, grotte e mura seicentesche. Al quarto appuntamento, Imma Tataranni è più insofferente e peggio vestita che mai. Con lei ritroviamo la colorata tribù che sempre l’accompagna. La suocera, che giocherà un ruolo nell’indagine, sperando di conquistare terreno nella Matera bene. La cognata, che sente i fantasmi. E il marito Pietro, che ha tanta pazienza, ma prima o poi la potrebbe perdere. Come in una partita a poker, la Piemme materana in tacco dodici dovrà capire, fra i tanti sospettati, chi è che bluffa. Ma anche tenere a bada il bel maresciallo Calogiuri, che sentendosi trattato come un toy boy le fa imbarazzanti scenate di gelosia. Per non parlare di sua figlia Valentina, che abbraccia ideologie estreme, e potrebbe mettere nei guai anche lei. In una Matera sospesa fra riscatto e speculazione edilizia, c’è chi si abbandona all’autocelebrazione, e chi sviluppa per la stessa un’antipatia tale da poter indurre all’omicidio…
Come inizia.
Via del Riscatto
Come la Procura di Matera, in questo romanzo, non è dove dovrebbe essere, cosí alcuni riferimenti a persone, fatti, luoghi e date rispondono alle libere leggi della fantasia. I prefetti, i sostituti procuratori, gli appuntati e le casalinghe micidiali che popolano queste pagine sono creature fantastiche: ogni eventuale riferimento alla realtà è casuale.
Capitolo primo
“Sembra proprio un presepe, con tutte quelle lucine!”
La prossima o il prossimo che se ne usciva così, quante-veriddio, gli sparava. A costo di andarsene in galera, a meno che un giudice di buon senso non le concedesse la legittima difesa.
Era dalla mattina che se li sorbiva. La cognata, il fratello di Pietro, la brunetta e un’altra coppia di amici loro, che non la smettevano di sguittire a ogni angolo, di estasiarsi a ogni pernacchia, di ripetere che non avevano mai visto niente del genere, ma pazzesco, ma che peccato che non erano riusciti a venire per Natale, mi hanno detto che fanno pure il presepe vivente, è vero? E come si chiamano le grotte per l’esattezza? Cioè un Sasso… uno ci può abitare dentro? Ma pensa tu, ma che bello, eh?
Anche un bastone andrebbe di lusso, rimuginava Imma, al riparo della capigliatura color ruggine tutta elettrizzata a furia di togliersi e mettersi il cappellino con le renne di quand’era piccola Valentina, l’unico che aveva trovato prima di uscire di casa in quel freddo pomeriggio di febbraio.
Tante botte, tante mazzate, e vai! Omicidio colposo, preterintenzionale, doloso, assaporava mentalmente, mentre il povero Pietro spiegava per l’ennesima volta che per Sassi si intendevano, sì, quelle abitazioni scavate nella roccia, ma anche costruite, e che c’erano fior di palazzi, come si poteva notare dalla postazione privilegiata in cui si trovavano, sulla salita della Cattedrale, e il torrente in fondo si chiamava Gravina, e loro erano sulla Civita, la parte più alta, dove un tempo abitavano le famiglie nobili di Matera.
Valentina osservava il padre con un leggero senso di vergogna, per quella caratteristica che Pietro aveva di mettersi a tappetino davanti a chiunque mostrasse un minimo di prepotenza. A lei invece non la guardava proprio, sua figlia: si sarebbe sotterrata per come si era vestita quel giorno, così le aveva detto poco prima, ma si vergognava pure un po’ della zia, e della brunetta, che continuava a fare quelle osservazioni del cavolo. “Chissà lì dentro, nelle grotte, no scusate nei Sassi, giusto? Come si dorme, per non dire altro. Almeno i vicini non ti sentono… Eheheh”.
Valentina si dondolava sulle gambe guardando per aria, ma come si era sfinata, ora che stava per compiere sedici anni, e Imma pensava allo strangolamento, o perché no alla garrota.
Le mani al collo, alla cognata che si stava lanciando in un panegirico per il panorama mozzafiato, con tutti quei lumicini che si erano appena accesi. Indescrivibile, non so trovare altra definizione. E statti zitta allora…
A un tratto, come evaso dai suoi pensieri, si sentì un colpo di pistola. Vero. Imma ci avrebbe giurato. Sembrava provenire dall’altra parte della Civita, sotto via del Riscatto, da quel versante dello sperone dove l’abitato si diradava e nel costone roccioso si aprivano le grotte. Lo sentirono pure gli altri, che si guardarono sorpresi, allora lei si decise ad aprire la bocca, che fin lì l’aveva tenuta inchiavardata per non uscirsene a male parole.
“È un colpo di pistola, questo”. “Ma no! – la strinse Pietro, attirandola a sé. – Mia moglie ha la deformazione professionale. È Carnevale, sono botti che sparano i ragazzi”.
“Sì sì i petardi”, fecero gli altri, ripetendo entusiasti la parola che aveva tirato fuori il fratello di Pietro, autorevole in qualsiasi dominio essendo primario di una clinica: per niente al mondo si volevano rovinare il weekend di carnevale che avevano sfruttato per portare a Matera gli amici. Non c’erano mai stati, poverini! E no, ormai non si poteva più vivere se non si vedevano i Sassi.
Imma li lasciò andare avanti, quando si decisero a muoversi, così evitava di rispondere alla brunetta che stava lanciando l’idea di mettersi tutti insieme per comprare uno di quegli sfiziosi appartamentini, una caverna attrezzata insomma, ma quanto costavano? Come?! Davvero?, faceva quell’altra. Mica poco però. Hai capito, i Sassi! Ma statevene alle case vostre, avrebbe voluto suggerire Imma, a cominciare dalla cognata, che fino a ieri a Matera non ci veniva nemmeno in catene, e per le feste comandate il marito si riduceva a fare un salto da solo, tornandosene di corsa entro le ventiquattr’ore. Che poi non tutti i mali vengono per nuocere. Meglio concentrarsi sul colpo di pistola, va’! Vero o immaginario che fosse.
Imma tese l’orecchio per capire se da qualche parte si sentissero delle voci, un litigio, dei passi. Macché. Silenzio. Si stava alzando anche la nebbia. Forse Pietro non aveva torto. Da un po’ di tempo il lavoro era la sua lima per evadere da quel carcere di massima sicurezza dove era entrata volontaria, firmando il registro dei matrimoni al municipio di Matera. E lì, in Procura, era tornato il maresciallo Calogiuri, che mesi prima era stato allontanato provvisoriamente perché era successo quello che era successo e lui aveva reagito come aveva reagito. E allora? Lo poteva licenziare?
Faceva freddo. Più andavano avanti più non c’era un’anima, anche perché su quel versante della Civita il vento era tagliente e bisognava essere bacati per mettere il naso fuori casa senza ragioni valide. Va a finire che davvero avevano sentito solo un botto di quelli che ormai i ragazzi sparavano senza nemmeno aspettare capodanno. Diede ancora un’occhiata alle case di tufo dai cornicioni decorati che la sovrastavano, agli archi, ai portoni antichi rigorosamente sbarrati, lungo la stradina che stava percorrendo a testa bassa, un po’ per ripararsi dal freddo, un po’ per guardare dove metteva i piedi, che su quelle chianche non ci voleva niente a rompersi un femore. Si infilò in una corte col pavimento a spina di pesce che digradava verso il pozzo per la raccolta delle acque pluviali. Cosa si stava consumando, in quegli antichi comprensori?
Adesso non arrivavano più neanche gli starnazzi della cognata con annessa brunetta e amica di Milano o di dove cavolo. Imma uscì fuori, guardò da una parte e dall’altra, quindi dopo aver percorso alcuni metri imboccò le scale che portavano giù. Le era sembrato di sentire dei passi, in basso. La stavano cercando? Scese alcuni gradini, con cautela, fino allo slargo sottostante. Da quel gomitolo smatassato di stradine e scalette qualcuno le piombò addosso.
Un paio di stivali di vernice dai tacchi a stiletto, con una punta che nemmeno nei suoi sogni più efferati, le attraversò il campo visivo. Voltandosi, nell’oscurità incombente, Imma intravide una pelliccia, lunghi capelli corvini e catenelle dorate che oscillavano già in cima alle scale. L’incongrua apparizione stava imboccando la strada dalla quale veniva lei. Ma chi era? Una turista solitaria, una squillo?
In quel momento, da sotto, attaccarono a chiamarla.
“Imma, Imma dove sei?” “Franca e le altre sono con te?”
“Che fine avete fatto?”
Guardò l’ora di malavoglia. Le sei e venticinque. Si avviò, facendosi coraggio, per consegnarsi alla congrega.
Capitolo secondo
“Full! E questa è una scala reale, giusto? Ma allora è facile”.
“Facile? Così sembra”.
Quel mercoledì mattina, dopo le mangiate del martedì grasso, in Procura si stentava a riprendere il ritmo ordinario, come si poteva dedurre osservando la situazione piuttosto rilassata nell’ufficio della Piemme Tataranni, che se ne stava insieme al collega Tonino Sasso, anche lui sostituto procuratore, davanti a una schermata di poker online, sbocconcellando un pezzo di torta di ricotta avanzata dal pranzo del giorno prima coi cognati.
Eppure di tutta l’istituzione la dottoressa era senza ombra di dubbio uno degli elementi più ligi. Insieme alla sua assistente, la cancelliera Diana De Santis, la quale stava entrando proprio in quel momento col pretesto di qualche scartoffia da firmare e l’intento nemmeno così segreto di capire cosa frullava nella testa di quella che al liceo era stata sua compagna di banco per un breve lasso di tempo.
Arrivando, poco prima, l’aveva trovata al computer, che giocava a poker, e poiché non era da lei, aveva dedotto che doveva esserci sotto qualcosa. Con la dottoressa, bisognava stare sempre in campana. E adesso non era neanche più da sola. Infatti Imma la mandò a pascere con un gesto discreto della mano. Diana se ne tornò di là, non senza indugiare sulla porta per un ultimo sguardo.
“I giocatori veri fanno il calcolo delle probabilità, si ricordano le carte per regolarsi sulla strategia dell’avversario, e soprattutto bleffano. Ma bisogna saperlo fare. Per il professionista, non c’è miglior bugia della verità…”
Tonino Sasso si prestava di buon grado. La Tataranni sotto sotto lo divertiva, con tutte quelle idee sui generis che non si sa da dove le andava a pescare.
Così, quando Imma gli aveva chiesto di spiegarle le regole del poker, si era prodigato senza indagare sul motivo dell’interessamento, perché ormai ci aveva rinunciato: cosa le verminava in testa, lo sapeva solo lei.
Sul conto della Piemme se ne dicevano di tutti i colori, soprattutto da quando, prima che lui arrivasse a Matera, aveva perseguitato la moglie del Prefetto, impiegata al Re.Ge., la signora Moliterni, che si faceva timbrare il cartellino da una commessa. A lui, comunque, la discussa collega non aveva mai fatto niente di male. Al contrario, l’aveva sostituito in udienza, e non una sola volta. Quel genere di favore che uno lo tiene da conto.
Di tutta la Procura, forse, Sasso era l’unico che della Tataranni non diceva peste e corna. Certo, come tipo andava d’accordo con chiunque, e questo alla diretta interessata faceva pure venire i nervi. Ma insomma, quella mattina Imma ascoltava le sue spiegazioni, quando al collega squillò il cellulare di servizio.
A sentire le notizie, il buon Tonino ci rimase.
“Sotto la Cattedrale”, lo sentì ripetere Imma, e quando lui mise giù gli puntò in faccia gli occhi gialli: “Hanno trovato un cadavere”, tirò a indovinare.
Poiché l’altro annuiva in silenzio, completò lei l’informazione: “Gli hanno sparato”.
Tonino Sasso la osservò, dai capelli crespi al maglioncino mélange verde e arancio, con le frange che ballavano sul petto matronale. Benché abituato a tante peculiarità della collega, non aveva messo in conto la preveggenza.
Fu lei a informarlo dello sparo che aveva sentito il giorno prima. Tonino fece sì con la testa, che aveva tonda, come disegnata col compasso, e solo allora biascicò qualcosa.
“Maschio, bianco, sulla quarantina”. Si trattava di un certo Antonio Ribba, detto Antonello, specificò sovrappensiero.
“Ebbè?”
“Niente”, si riscosse lui. Lo aveva incrociato non più di qualche giorno prima, le raccontò, per una faccenda di barche a vela. Il cognato cercava un posto per la sua due alberi dalle parti di Pisticci e gli aveva chiesto di informarsi.
“Tutto qui? Nient’altro?”
“Solo che il tipo sembrava di buon umore”. A un certo punto, anzi, aveva detto che si reputava una persona fortunata. Più di quanto tutti credessero. L’avevano trovato in un’antica residenza dei Sassi, palazzo Sinagra. Disabitata, naturalmente.
“Lo conosci, insomma!”, se ne uscì Imma dopo qualche istante.
“Conosci, parola grossa, – ribatté il brav’uomo, – gli avrò stretto la mano un paio di volte”.
“Se non ti era sconosciuto, lo conoscevi! È una regola aristotelica”.
La dottoressa insinuò che la relazione col morto avrebbe potuto impedirgli di farsi carico delle indagini. Tonino la guardò strabuzzando gli occhi. Per quanto persona pacifica, poco incline al giudizio e possibilista fino al midollo, cominciava a essere troppo. Cosa voleva dire?
“Che se anche i vostri rapporti non fossero stati tali da creare impedimenti – trillò la collega – non sarà certo il Ribba a poterti smentire, e men che meno il procuratore Vitali, che non è di Matera. Laonde per quindi dell’indagine me ne occupo io se non ti dispiace”.
Imma gli fece l’occhiolino. Sasso la fissò serio, quasi grave. Da dove li prendeva tutti quei grilli che le saltellavano sotto la calotta cranica, benedetta donna? Lui alle insinuazioni sul suo conto non aveva mai dato troppo peso, d’accordo, ma ogni tanto esagerava. Il caso se lo sarebbe tenuto volentieri, perché la vita certe volte giocava sporco. Quel tipo gioviale, che qualche giorno prima sembrava contento come una pasqua, a chi poteva aver pestato i piedi?
“Come glielo diciamo al capo?”, cercò di temporeggiare.
Capitolo terzo
Avesse potuto farla bollita, come un pezzo di manzo da acconciare a insalata con olive capperi e cipolline, secondo la tradizionale ricetta napoletana, Vitali ci avrebbe messo la firma. Da quando si era affacciato per la prima volta nella Procura di Matera, la dottoressa Tataranni gli stava come un sassolino nella scarpa, che altro non si può se non scansare alla bell’e meglio, cosa che si rassegnò a fare quando se la vide davanti, appena arrivato in ufficio.
Il procuratore sfoggiò un sorriso del genere che l’aveva portato dritto fin lì, a quella posizione ambita, nonostante Matera restasse sempre per lui terra di esilio.
“Posso farvi assaggiare una specialità che viene fresca fresca da Napoli?”, li accolse.
Imma fece segno di no con la testa, senza nemmeno dargli il tempo di aggiungere: le zeppoline di carnevale… mentre Sasso ringraziò calorosamente, rammaricandosi di non poter accettare perché la moglie l’aveva messo a dieta. Allora Vitali offrì un caffè. Napoletano eh, si sentì in dovere di specificare: il caffè fatto come dio comanda, secondo i criteri del procuratore, era un nettare al quale nessun essere sano di mente avrebbe mai potuto rinunciare. Imma dovette sorbirselo, a rischio di farsi forare lo stomaco.
Mentre Vitali decantava l’aroma della bevanda, e le accortezze che usavano nella capitale partenopea, perché in tutto il resto del mondo non lo sapevano fare, Sasso gli espose il motivo per cui si trovavano lì. Un tale Antonio Ribba, detto Antonello, era stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco all’interno di palazzo Sinagra, un edificio disabitato, attualmente in vendita, dove si trovava verosimilmente in veste di agente immobiliare, perché se non ricordava male era quella la sua occupazione. Non sapeva altro, avevano appena appreso dell’omicidio.
“E allora?” Vitali guardò alternativamente da uno all’altro. Fossero stati tutti come il Piemme venuto dall’Abruzzo, il procuratore avrebbe acceso un cero a San Gennaro, ma essendoci la Tataranni si aspettava la grana. Infatti fu lei a prendere la parola.
“Il collega, qui, conosceva il morto, – se ne uscì. – In ottemperanza al codice è obbligato ad astenersi essendoci legami con le parti in causa che ne mettono in pericolo l’imparzialità. Faccio presente che sono disponibile a subentrare”.
Vitali la percorse un paio di volte dai capelli color ruggine, sparati, alle incredibili frange verdi sul davanzale extra size. Ma come l’avevano fatto, quel maglione, con un tappeto?
“Se capisco bene, volete assumervi il caso al posto di Sasso?”
“Esatto”.
Dov’era la fregatura? Perché ci doveva essere. Quella, quando le veniva lo sghiribizzo, filava dritta pestando i piedi a sinistra e a destra, prendendoci un gusto maligno a mettere in crisi assetti che avevano richiesto anni di equilibrismi.
“Fatemi indovinare… avete individuato uno dei vostri complotti? Cos’è questa volta? Petrolio, scorie nucleari, infiltrazioni di extraterrestri?”
Vitali guardò sorridendo bonariamente il sostituto Sasso, in attesa di una battutina di rinforzo. Ma il poveretto doveva essere soggiogato da quell’arpia, perché non si pronunciò. La Tataranni lo guardava con la solita faccia da schiaffi.
“Di cosa vi state occupando dottoressa?”
Il procuratore cercava di prendere tempo, lo scontro diretto non era nelle sue corde, ma non voleva nemmeno fare passi falsi. Aveva un unico intento, o se si vuole filosofia di vita, religione. Parrocchia. Non dar fastidio a nessuno, mettersi in buona luce con chiunque contasse qualcosa e ottenere il trasferimento a Napoli. Che per quanto di Matera ormai tutti cominciavano a parlare come l’ottava meraviglia, vuoi mettere. A parte la famiglia, che quella alla fine un po’ di vacanza ogni tanto… senza niente togliere all’amore che lo legava alla moglie e ai ragazzi, per carità.
“Di atti di vandalismo, – rispose Imma. – Di un cane avvelenato. Di una frode fiscale che coinvolge una quarantina di imprese, quasi tutte del settore edile. Di una donna aggredita…”
“Ho capito, ho capito. A sentire voi il mondo sembra un inferno. Siete sempre troppo zelante, dottoressa. Quel troppo concedetemelo senza fare polemica, per una volta. Un po’ di leggerezza, diamine. Un sorriso. È vero che siamo in quaresima, oggi è anche il mercoledì delle ceneri, ma ieri era martedì grasso, qualche bella risata con la vostra famiglia ve la sarete fatta, spero. Piemme Sasso, che ne dite? Queste donne quando si mettono ci fanno impazzire. Ora però ascoltatemi bene”.
Imma guardò il collega con la coda dell’occhio. Il verdetto stava per essere emesso. E lei quel caso doveva averlo. Lo sparo lo aveva sentito, altro che botti! E aveva visto anche quella donna che andava così di fretta. Ma Tonino Sasso sembrava assorto in un suo pensiero. Vitali si schiarì la voce.
“Le zeppoline… voi lo sapete come vengono preparate?”
Capitolo quarto
Toy boy, toy boy, toy boy no! Così le sembrava che facessero le scarpe, battendo col tacco e col plateau sui lastroni del Corso, mentre avanzava alla testa della formazione verso via delle Beccherie, che ormai non si riconosceva più. Locali e localetti, negozi di cretinate e case vacanza avevano cancellato persino il ricordo degli artigiani che un tempo avevano lì le loro botteghe. Dietro di lei veniva Calogiuri, e subito dopo, tampinandolo, Jessica Matarazzo, i capelli corvini acconciati all’ultima moda, gli occhioni azzurri col rimmel al quale non aveva rinunciato nemmeno dopo ripetuti richiami, e le labbra polpose semidischiuse, che facevano sbavare mezza Procura. Tranne il suddetto maresciallo, a quanto pareva. Toy boy, toy boy, toy boy no no no!
Dopo una breve e tumultuosa relazione, Calogiuri aveva cercato in tutti i modi di far capire a Jessica che per qualche motivo insondabile non provava per lei i sentimenti di cui sarebbe stata meritevole, quindi preferiva evitare situazioni intime che non gli avrebbero fatto onore. Seh, si era data per vinta, quella? Sicula, era la poliziotta.
“Le corna… a me!!!”, esplodeva durante una perquisizione, un inseguimento, un arresto, dando della puttana all’agente Bartolini con la quale in effetti l’anno prima lui l’aveva tradita, e tacciandolo subito dopo di essere un pederasta, senza preoccuparsi dell’incongruenza. Ma quello era il minimo. Perché con Calogiuri la frittata l’aveva fatta anche lei.
Imma sospirò, oltrepassando il Banco di Napoli, che con la sua mole fascista ora trovava quasi di suo gradimento, dignitoso perlomeno, in mezzo a tutte quelle ruote di traino, alle finte botti, alle serte di peperoni cruschi e altra paccottiglia pittoresca che invadeva ogni angolo o. L’aveva baciato, il maresciallo. Con tutti i crismi.
Prima c’era stato l’abbraccio durante un’operazione nella grotta dei pipistrelli, che le sembrava di essere in trance, e se avesse voluto avrebbe potuto far finta che fosse tutto un sogno. Bellissimo, piacevole, gratificante, un sogno proibito da cancellare all’alba prima di raggiungere il lavoro. Macché, non si era fermata! L’aveva baciato a brutto muso, in sala agenti, nella pigrizia di un primo pomeriggio, con qualcuno che avrebbe potuto arrivare da un momento all’altro e il cuore che batteva a tamburo. Aveva preso e gli aveva messo la lingua in bocca, senza scuse e senza attenuanti. Lasciandolo senza fiato. Lui. E lei? Stecchita.
“Dottoressa, mando avanti l’agente Matarazzo? Così inizia a dare un’occhiata sul luogo del delitto…”
“Non c’è bisogno Calogiuri. Quello che devono fare lo staranno facendo”.
Quando si guardavano, Imma e il maresciallo, prendevano ancora la scossa. Lei però poi si era ripresa. Non era matta, non era stupida. Non era stronza. Solo una minorata poteva pensare che una cosa del genere potesse avere un seguito. Lei, Immacolata Tataranni, coniugata, anni quarantacinque, con prole. Altezza un metro e mezzo, circonferenza più o meno uguale, colore dei capelli non pervenuto. A detta di molti, un cesso. Lui, Ippazio Calogiuri, celibe, anni ventisette, altezza uno e ottantotto, spalle ben messe, capelli biondi occhi azzurri, bello da impazzire. Lei, pubblico ministero. Lui, appuntato dei carabinieri, da un annetto o poco più promosso maresciallo. Missione: toglierselo dalla testa. Risultato: compiuta.
Anche perché Pietro, croce e delizia, àncora, zavorra e porto sicuro, aveva pensato bene di farsi una scorpacciata di cozze crude che un altro po’ ci lasciava la pelle, e di fronte a quell’eventualità lei aveva capito cosa contava davvero. Ma per forza. L’aveva capito mentre gli reggeva la fronte sul gabinetto, e stirava le magliette di sua figlia, e gli faceva gli impacchi caldi sulla pancia, e gli teneva la mano in ospedale e si sentiva dire mamma se non ci fossi tu. Imma se non ci fossi tu. Chi non aveva capito tanto bene era stato il maresciallo. Toy boy, toy boy, toy boy no.
Calogiuri e Jessica la oltrepassarono, mentre lei si attardava per via di un chiodino nella scarpa, che le si stava conficcando nel tallone. In piazza Sedile svoltò meccanicamente verso il Conservatorio, cercando con gli occhi il calzolaio affianco al portale barocco e alzandoli immediatamente al cielo per non dare in escandescenze. Al suo posto da qualche mese vendevano souvenir artistici, tutti in tufo, ben fatti per l’amor del cielo. Ma ancora non si abituava.
“Tuttapposto dottoressa?”
“Sí Calogiuri, andate che arrivo”.
Il maresciallo non ci stava, a giocare il ruolo del sedotto e abbandonato. All’indomani dell’avventata iniziativa in sala agenti avevano finto entrambi che niente fosse successo, studiandosi di nascosto. Calogiuri, ci scommetteva, aveva persino preparato un discorsetto in cui esprimeva tutta la stima e la riconoscenza che provava per lei, i sentimenti quasi filiali e sempre di immenso rispetto, il piacere che provava a condividere indagini e azioni sul campo e bla bla bla ma insomma quello che era successo, per il bene di entrambi, e bla bla bla.
Povero Ippazio, quante volte sarebbe diventato rosso nel dirglielo! Come avrebbe balbettato e come gli sarebbero mancate le parole… Ma lei gli aveva risparmiato la prova facendo come se niente fosse. Il maresciallo era rimasto spiazzato. Forse all’inizio aveva provato pure un senso di sollievo, poi però qualcosa doveva essere scattato in lui. Ma figurati, Calogiuri, che non ti capisco? Mica l’ho fatto a cuor leggero. È stato un sacrificio, che ti credi? E non dico perché sei un gran pezzo di ragazzo, certo non guasta, sarei bugiarda. Il problema è che mi batteva il cuore. Non mi era mai successo. Nemmeno a tredici anni, nemmeno a sedici, quando le altre si facevano le prime tresche e io studiavo come una forsennata, ma una donna si deve sempre un po’ sacrificare, no? Specie se ha famiglia, ce l’hanno insegnato fin dall’asilo… E mica hanno torto. O sbaglio?
Cercando di raggiungere Calogiuri e Jessica, che ormai l’avevano distanziata, lui che andava più veloce, la poliziotta appiccicata dietro, Imma si arrampicò su via Duomo, la salita della Cattedrale, lasciandosi sulla destra il bellissimo palazzo Potito, tutto in rovina, e affacciandosi dall’altra parte sul Sasso Barisano. Una vista mozzafiato. Sí, ok, mozzafiato. Il tempo si era rimesso, ora che le feste erano finite. In un menzognero anticipo di primavera, il sole brillava nell’aria gelida, cancellando le nebbie, i fumi e i sospetti del giorno prima. Ripensò al momento in cui aveva sentito lo sparo. Giusto qualche istante dopo l’accensione delle luci.
“A sinistra dottoressa?”
La chiamavano da sopra.
“Sì, andiamo verso le Monacelle. Oddio, si può passare anche dall’altra parte, ma è lo stesso”.
Imboccarono insieme via del Riscatto, che portava all’antico orfanotrofio delle Monacelle, ora trasformato in albergo, e di lí scendeva verso la parte piú scoscesa della Civita, dove le grotte si ammucchiavano una sull’altra, sotto palazzo Sinagra.
Superarono il cortile nel quale si era infilata il giorno prima. In fondo, oltre il portone aperto, si intravedeva qualcuno dietro il vetro di una finestra. Rallentò, e cosí il maresciallo. Calogiuri caro, gli disse nel loro linguaggio muto, mentre lui le si affiancava e procedevano in silenzio, con Jessica che si voltava a guardarli. Non posso, non posso proprio, come te lo devo spiegare? Tu non l’hai vista Anna Karenina in televisione, ma io sì. Sai come finiva? Che si buttava sotto un treno. Oltretutto qui non c’è manco il treno. Solo la Calabrolucana, con tutta la buona volontà nella migliore delle ipotesi ci resto storpia… Senti, siamo colleghi e basta, dottoressa e maresciallo! Ci stimiamo, al massimo ci vogliamo bene. È normale, quando si passa tanto tempo insieme. Se ho sbagliato ti chiedo scusa, mi è venuto così, alla grotta dei pipistrelli. Non l’ho fatto apposta, giuro. E in Procura, quel pomeriggio, non so che mi è preso. Ero stressata. Non succederà più, promesso. Te lo metto per iscritto, se vuoi…
Il corso di quei pensieri fu interrotto da qualcuno che sopraggiungeva camminando in maniera strana, sembrava stesse per cadere. Solo quando si incrociarono, Imma realizzò che era una giovane donna. Mingherlina, i capelli castani tagliati corti, all’inizio l’aveva presa per un ragazzino che faceva lo stupido. A guardarla in faccia, si sentì gelare.
Troppo dolore, negli occhi di una che aveva vissuto così poco. Veniva da lì, sicuramente. Dal palazzo dove era stato ritrovato il morto.
Capitolo quinto
Se avesse studiato storia dell’arte, o architettura, la Tataranni avrebbe riconosciuto in palazzo Sinagra un notevole esempio di costruzione a corte, tipico di molte residenze signorili della città. La sua sagoma armoniosa se ne stava appollaiata sulle casette e le grotte che scendevano alla spicciolata fino alla Gravina.
Se fosse stata anche solo un’estimatrice, la dottoressa, avrebbe notato le modifiche e gli ampliamenti cui era stato soggetto l’edificio a partire dal nucleo cinquecentesco, con le aggiunte effettuate nel Seicento, quando Matera diventò sede della Regia Udienza di Basilicata, e poi lo scalone di accesso ai piani superiori, edificato nel Settecento. Avrebbe apprezzato le bifore che ornavano la facciata, rabbrividendo di piacere alla vista delle decorazioni fitomorfe lungo i cornicioni. Si sarebbe estasiata osservando le statue ai quattro angoli dell’edificio, e sarebbe finita in brodo di giuggiole davanti ai bassorilievi che ornavano il portale. Ma Immacolata Tataranni aveva studiato legge. Per il resto non riteneva opportuno perdere tempo, così liquidò il complesso come uno stabile fatiscente. C’era ben altro che la preoccupava in quel momento.
“Venite dottoressa, da questa parte”, la stavano interpellando.
Da una delle finestre del piano nobile un bell’uomo con gli occhi cervoni, i capelli neri e l’aria scanzonata le faceva segno: era il luogotenente Parodi! Altro non ci mancava. Imma tirò un respiro e infilò il portone che immetteva all’atrio coperto, dal quale stavano uscendo gli agenti della Scientifica. Il procuratore Vitali si era talmente dilungato con la ricetta delle zeppole, prima di acconsentire ad affidarle l’incarico, che si era fatta ora di pranzo.
Dandosi coraggio, la dottoressa imboccò l’elegante scalone adorno di metope dal quale scendeva Parodi, venendole incontro. Calogiuri si era attardato in basso, per fortuna. Con tutti i guai che aveva, la gelosia ci mancava!
“La dottoressa Tataranni! Scommetto che non ci annoieremo neanche questa volta”. Parodi l’accolse così.
Era arrivato sul posto, le spiegò, in seguito alla chiamata del proprietario dell’agenzia, che aveva scoperto il cadavere insieme alla vedova del defunto. La signora era appena andata via.
Imma ripensò alla giovane donna che aveva scambiato per un ragazzino. Al suo sguardo. Alla faccia bianca come un lenzuolo…
Il morto aveva quarant’anni, la stava informando Parodi. Nato a Matera, ivi residente.
Parodi e Imma si erano conosciuti ai tempi caldi del metapontino, nel corso di un’azione delicata, ed erano rimasti in ottimi rapporti. Anche troppo, per Calogiuri.
Sul ballatoio sopraggiungeva un tipo di mezza età con un giubbotto marrone imbottito stile anni Settanta o forse proprio originale, che la puntò tendendole la mano. Dai modi, Imma capì quasi subito di chi si trattava.
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L’autrice

Mariolina Venezia vive a Roma. Ha pubblicato tre libri di poesie in Francia. Collabora con varie riviste letterarie e lavora come sceneggiatrice per il cinema e la televisione. Nel 1998 ha pubblicato, per la casa editrice Theoria, la raccolta di racconti Altri miracoli, riproposta da Einaudi nel 2009. Sempre per Einaudi ha pubblicato il romanzo Mille anni che sto qui (I coralli, 2006 e Super ET, 2008), vincitore del Premio Campiello 2007. Tra i suoi altri romanzi si ricordano Come piante tra i sassi (200), Da dove viene il vento (2011), Maltempo (2013) e Rione serra venerdì (2018, tutti editi da Einaudi.
- Via del Riscatto. Imma Tataranni e le incognite del futuro
- Mariolina Venezia
- Editore: Einaudi
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Dimensioni: 1,45 MB
- Pagine della versione a stampa: 256 p.
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Gli altri libri del sostituto Imma tataranni.
Miriam Ponziani
20 Gennaio 2020 a 15:46
Buongiorno trovo i libri di Imma Tataranni un capolavoro, nel senso che Imma incarna tante tantissime donne che hanno sacrificato tutto e tanto per arrivare ad inseguire un proprio sogno.
Vorrei che ci siano tante serie TV su questa storia e che l’amore di Imma e Calogiuri sbocci nonostante l’età e l’autorità lavorativa di Imma, grazie Mariolina continua a farci sognare