Vieni via con me mette sul tavolo tematiche toste come la perdita ed il coraggio che ci vuole per tornare a vivere, salutando chi abbiamo amato, comprendendo come possiamo vivere ed allo stesso tempo ricordare. La storia di Tess ed Ian è quindi una storia che parla di seconde opportunità, di coraggio e di amore vero

 

La nostra protagonista è Tess, una donna che oggi dimostra di sapere prendere il coraggio a due mani e cambiare vita. Tess ha subìto da pochi anni la dolorosa perdita del marito ed oggi si ritrova incapace di riprendere il filo della sua vita, per farlo avrà bisogno non solo di un cambio di location ma di un cambiamento ben più radicale.

La meta di Tess sarà Runaway Mountain, una piccola cittadina nel Tennessee che però, nonostante ciò che Tess poteva augurarsi, inizierà a guardarla con sospetto. Se erano calma e tranquillità le cose di cui Tess era in cerca non le troverà propriamente, perché e Runaway Mountain non sempre si guarda con benevolenza verso gli estranei. Una volta Tess era stata un’ostetrica, oggi invece si improvviserà commessa in un bar del paese ma, sebbene la sua idea fosse quella di tenere un basso profilo, perderà ben presto l’anonimato, divenendo un personaggio in vista nel piccolo paesino, riuscendo sin da subito a scatenare moltissime chiacchiere.

Protagonista maschile della storia è Ian, un personaggio molto intenso ed enigmatico. All’inizio non ho provato un moto immediato di simpatia nei suoi confronti, via via Ian ha però saputo abbassare la maschera. Tra Tess e Ian, come potrete immaginare, scatterà una scintilla ma non sarà scontato l’happy ending per tutta la durata della lettura, dovrete andare fino in fondo per scoprire come andrà la loro storia. Ian è un artista taciturno e misterioso, non è facile conoscerlo, si aprirà pian piano ma una cosa è da subito certa, ovvero tra lui e Tess arde un fuoco e certe scene di cui leggerete, beh, lo dimostreranno senza ombra di dubbio.

Una cosa che ho decisamente apprezzato durante la lettura è stata l’evoluzione emotiva dei due protagonisti. Se all’inizio Tess era una donna dilaniata dal dolore della perdita, pian piano troverà il coraggio di aprirsi nuovamente ai sentimenti, di contro anche Ian compirà uno speculare viaggio emotivo interiore. Sia Tess che Ian sono due personaggi che si evolvono, bruciati nell’anima ma ancora intenzionati a vivere dopotutto.

Sebbene la vicenda forse non spicchi per originalità a renderla estremamente coinvolgente è lo stile della sua autrice che sa come prendere alla gola i suoi lettori. Si nota chiaramente la maestria della Phillips, un’autrice che sa di certo il fatto suo e che, con fermezza ed una penna che non ha paura di scavare nella profondità dell’anima, dona ai suoi lettori una storia intensa il cui cuore pulsa tra le righe e respira autenticità.

 

La trama del romanzo

Corri! Scappa il più velocemente possibile! Quando la vita la mette a dura prova, l’ostetrica e giovane vedova Tess Hartsong scappa il più lontano possibile e si rifugia a Runaway Mountain. In questa piccola e sperduta città sulle montagne del Tennessee, circondata dalla natura, spera di superare il suo dolore e trovare il conforto di cui ha bisogno per guarire. Ma, invece di pace e tranquillità, incontrerà un artista enigmatico con una brama di solitudine; un folletto da fiaba con troppi segreti; una neonata indifesa; un mucchio di adolescenti curiosi e una città diffidente nei confronti degli estranei, e specialmente di uno di loro, testardo quanto Tess. Altrettanto caparbio e pervicacemente cocciuto, Ian North è un uomo difficile, intelligente e dotato ma con un’anima torturata, un uomo che mette in discussione nel profondo Tess e che farà crollare tutte le sue barriere. E, mentre si prepara a fuggire da questa nuova vita, Tess si chiede: si è persa? O ha finalmente trovato il suo futuro?

 

Come inizia

  • Agli amori ‘extra’ della mia vita:
  • prima di tutti è comparsa Nickie, la regina danzante.
  • Poi sono arrivati Leah, Andy e Anya.
  • Le famiglie nascono nei modi più sorprendenti.

 

Prologo

  

 

   Il ragazzo teneva la bomboletta perfettamente dritta. La teneva vicina all’acciaio inossidabile scanalato. Premette la bocchetta e osservò il flusso brillante di vernice rossa formare la lettera I.

Ce l’aveva fatta. Aveva beccato un treno. Chiunque avrebbe potuto taggare un muro o la saracinesca abbassata di uno stupidissimo banco dei pegni, ma solamente i fuorilegge, solamente i migliori graffitari potevano taggare un vagone della metropolitana di New York City. E lui aveva soltanto dieci anni.

   Rispetto all’Upper East Side, questo posto era pericoloso quanto la Bosnia, l’Iraq o altri Paesi assurdi. Passeggiare a Central Park al buio. Prendere la linea 1 in direzione nord con quattro bombolette spray Krylon nello zainetto. Aveva sollevato il cappuccio della felpa nera sopra la testa, cercando di rendersi invisibile agli ubriachi e ai tossici che viaggiavano insieme a lui verso il capolinea sulla Duecentosettima. Inwood, uno dei luoghi peggiori di Manhattan, dove tutti si fanno ammazzare e rapinare e cose così.

   Rimanere nell’ombra. Ecco com’era riuscito a superare la sicurezza al deposito dei treni, schivando e zigzagando nella giungla notturna fatta di rotaie e metallo per taggare il suo primo vagone.

   Spruzzò qualche filo d’erba arancione e viola sulla parte inferiore del vagone. A fare capolino aggiunse delle fichissime creature demoniache. E ora, prima che lo beccassero, mancava il resto della sua tag. IHN4.

   Non era una tag inventata come facevano tutti gli altri. Non ne voleva una così. Queste erano le vere iniziali del suo nome: le prime tre lettere identiche a quelle del suo vecchio, di suo nonno, del suo bisnonno. Soltanto il numero 4 finale era tutto suo.

   Scrivere le lettere della stessa dimensione era roba da principianti, così decise di fare il numero un po’ più grande. L’anno scorso, non aveva la stessa esperienza quando si era trovato a taggare il suo primo edificio, il condominio di Central Park in cui viveva. Aveva sollevato un bel casino al consiglio condominiale. Nessuno aveva sospettato si trattasse di lui.

   Quasi nessuno.

   Se non si muoveva ad andarsene da lì, l’avrebbero visto. Aggiunse poi qualche crepa nera sulle lettere, come se si stessero sgretolando. Ah, se solo avesse avuto un pennello e il tempo per farlo meglio. Ma non ce li aveva.

   Gli mancava solo di scattare la foto. La cavolo di MTA aveva questa nuova politica: ogni vettura taggata restava fuori servizio finché non fosse stata ripulita. L’unico modo in cui un artista poteva dimostrare di essere l’autore del graffito era attraverso una fotografia. Se non ti facevi la foto, la tag non esisteva.

   Frugò nello zaino e agguantò l’Olympus Stylus che la donna delle pulizie gli aveva regalato per il compleanno. Fece un passo indietro dal vagone e puntò l’obiettivo, cercando di inquadrare un’area il più grande possibile. Il flash avrebbe potuto tradirlo, ma doveva correre il rischio. Senza la foto, non avrebbe potuto rivendicare la tag.

   «Fermo lì!»

   Premette il tasto. Il flash esplose nello stesso istante in cui l’uomo della sicurezza lo afferrò per il braccio, rovinando lo scatto.

   Suo padre andò a prenderlo alla centrale di polizia. Era un pezzo grosso in città, il tipo tutto sorrisi da rivolgersi ai poliziotti con un ‘Possiamo parlarne in privato?’. Ma una volta usciti dalla centrale, mentre attraversavano il parcheggio fatiscente, suo padre lo schiacciò con tutto il proprio corpo contro il fianco della sua nuova Porsche 911.

   «Sfigato del cazzo!» Ritrasse il braccio per sferrare un colpo potente. Sul lato destro della sua testa. Sul sinistro, un pugno.

   All’interno dell’auto, i diamanti incastonati nei lobi della madre brillarono mentre si voltava per guardare altrove.

   Il padre lo sbatté sul minuscolo sedile posteriore. Ma mentre si levava il sangue dal naso con la manica della felpa, Ian non pensava ad altro che al fatto di non essere riuscito a fare la foto. Era abituato alla violenza del padre. L’avrebbe superata come faceva sempre. Ma la foto…

   La foto lo avrebbe reso un dio.

1

  

   Tess ballava sotto la pioggia. Ballava con indosso soltanto gli slip e una vecchia canottiera, con i piedi infilati in un triste paio di ballerine un tempo argentate. Batteva i piedi sul lastricato scivoloso e coperto di muschio sotto il gocciolante albero di noce che riparava la baita di montagna. Oggi ballava l’hip-hop, ieri il reggae, il giorno prima… forse il grunge, o forse no; bastava che fosse a tutto volume, così alto da assecondare la sua rabbia, da santificare il dolore che non se ne sarebbe mai andato via. Un frastuono che a Milwaukee non era tollerabile, ma qui, a Runaway Mountain, con i cervi e i procioni come vicini di casa, poteva far esplodere la musica al volume che preferiva.

   Il freddo e umido vento di un tipico febbraio del Tennessee orientale trasportava il profumo di foglie morte. Non era il clima ideale per starsene all’aperto in mutande e canottiera, ma, contrariamente alla vedovanza, essere fradicia e infreddolita era una situazione che Tess poteva sistemare.

   Una pietra scheggiata le colpì la punta di una ballerina, e subito la scaraventò nell’erba. Una scarpa sì e una scarpa no. Tutte le sue emozioni confluirono ai piedi. Un sasso appuntito le morse il tallone, ma se si fosse fermata, la rabbia l’avrebbe incenerita. Continuò a muovere i fianchi, ad agitare la testa lasciando volteggiare i capelli bagnati e annodati. Sempre più forte. Non fermarti. Non fermarti mai. Se ti fermi

   «Ma sei sorda

   Si immobilizzò quando vide un uomo attraversare di gran carriera il ponte pericolante di legno che sovrastava il Poorhouse Creek. Un montanaro dagli scuri capelli arruffati, il naso importante e la mascella squadrata. Un uomo con l’aspetto di un orso, alto come un platano e incurante della pioggia, con addosso una camicia di flanella a scacchi rossi e neri sbottonata, stivali macchiati di vernice e un paio di jeans da lavoro. Aveva letto di questi uomini di montagna, eremiti che si rintanavano nelle terre selvagge con un branco di cani feroci e un arsenale di armi da guerra. Evitavano i contatti umani per mesi, per anni, fino a dimenticare le proprie origini.

   Restò immobile nei suoi slip di un vecchio bikini e la canottiera bianca bagnata che aderiva al seno. Senza reggiseno, furiosa, mezza selvaggia, e decisamente sola.

   L’uomo si diresse verso di lei, incurante della pioggia, il traballante ponte di legno che oscillava alle sue spalle. «Ho sopportato questo casino ieri pomeriggio e ieri sera, e anche alle due di questa notte, ma non ho intenzione di sopportarlo oltre!»

   Tess accolse il visitatore con una serie di impressioni repentine. Onde ribelli in quei capelli ricci e troppo lunghi che si arrotolavano fradici sul collo. Gli abiti da lavoro erano sgualciti e una dozzina di colori diversi di vernice macchiavano i logori stivali di pelle. La sua barba non era abbastanza lunga da definirlo un folle eremita, ma l’aspetto era comunque quello di un pazzo.

   Non voleva scusarsi. Ne aveva abbastanza ormai di scusarsi per il peso del suo dolore che aveva riversato su amici e colleghi, e qui non lo avrebbe fatto. Aveva scelto Runaway Mountain non solo per il nome, ma anche per l’isolamento: era un luogo in cui avrebbe potuto essere maleducata, sconsolata e arrabbiata con l’universo. «Smettila di urlarmi addosso!»

   «E come pensi di sentirmi?» Afferrò il suo speaker Bluetooth dall’angolino asciutto sotto i resti scheggiati di un tavolo da picnic.

   «Mettilo giù!»

   Affondò rapidamente la sua zampa sul pulsante fermando la musica. «Hai forse dimenticato le buone maniere?»

   «Le buone maniere?» Assaporò la gioia di avere uno sfogo per l’ingiustizia che la vita le aveva lanciato addosso. «E rientrerebbe nelle buone maniere precipitarti qui come un selvaggio?»

   «Se avessi un po’ di rispetto per tutto questo…» Fece un gesto tagliente in direzione degli alberi e del Poorhouse Creek, i duri lineamenti del viso così squadrati da sembrare scolpiti con una motosega. «Se avessi mostrato un po’ di rispetto, non sarei dovuto venire fin qui!»

   E poi lo vide. Il momento in cui si rese conto dell’abbigliamento di lei, cioè della sua quasi nudità. Quegli occhi color dell’ardesia la squadrarono irrispettosi. Irrispettosi per cosa? Per i capelli bagnati e annodati? Il corpo più pesante del dovuto per aver cercato di soffocarsi con il cibo? Per le gambe? L’abbigliamento decrepito? O forse l’audacia di essersi presa il proprio spazio su questo pianeta?

   Ma chi voleva prendere in giro? Con il seno teso contro una canottiera bagnata, doveva avere l’aspetto di un grottesco cliché della ragazza ubriaca del college in vacanza a Cancun. Sentì la testa cavalcare l’ondata di rabbia. «Dovevi soltanto chiedermelo gentilmente!»

   Il suo sguardo la perforò, la voce un ringhio basso e profondo. «Già, sono certo che avrebbe funzionato.»

   Era ovviamente dalla parte del torto, ma non le importava. «Tu chi sei?»

   «Qualcuno che gradirebbe un po’ di pace e tranquillità. Due parole che tu sembri non comprendere.»

   Nessuno le faceva una ramanzina dalla morte del marito. Anzi, tutti si comportavano come se si trovassero ancora nella stanza delle pompe funebri, inzeppata di mobili e con quell’odore nauseante di gigli. Avere un bersaglio per la rabbia era a dir poco inebriante. «Sei così maleducato con tutti?» gli chiese. «Perché se così fosse…»

   In quell’istante, un folletto dei boschi attraversò in volo lo stretto ponte, evitando senza il minimo sforzo le assi mancanti, i passi talmente leggeri che la struttura pericolante quasi non si mosse. «Ian!» La bionda chioma della creatura fatata fluttuò all’indietro da sotto un grande ombrello rosso. Un abito leggero alla caviglia, più adatto al mese di luglio anziché a un freddo febbraio, le svolazzava intorno ai polpacci. Era alta e flessuosa, a eccezione del ventre gonfio per la gravidanza.

   «Ian, smettila di urlare» disse la creatura eterea. «Ti si sente fino alla scuola.»

   Ecco da dove era venuto, dall’edificio scolastico di legno bianco ristrutturato sul crinale a monte della baita. A gennaio, quando Tess si era appena trasferita, aveva percorso il sentiero per vedere cosa ci fosse. Quando aveva guardato attraverso le finestre, aveva capito che quel posto era stato trasformato in un residence, ma non sembrava abitato. Finora.

   «Non prestargli attenzione.» Il folletto assomigliava a una fatina della Disney dagli occhi azzurri, poteva essere sulla trentina come Tess. Appena superata la prima età adulta. Attraversò leggiadra la bassa vegetazione attorno alla baita, incurante dell’erba bagnata che le accarezzava i polpacci. «Fa sempre così quando ha qualche problema con un dipinto.»

   Un dipinto. Non la pittura in generale. Il montanaro dev’essere un artista. E alquanto instabile.

   La fatina rise, di una risata che però non riuscì a raggiungere quegli occhi azzurri da libro delle fiabe. C’era qualcosa di familiare in lei, ma Tess sapeva di non averla mai incontrata prima. «Can che abbaia non morde,» disse la fatina «anche se è risaputo che sappia fare anche quello.» Allungò una mano calda e sottile da sotto l’ombrello rosso. «Sono Bianca.»

   «Tess Hartsong.»

   «Hai le mani gelate» disse la donna. «Ed è una sensazione davvero piacevole. Ho sempre così caldo.»

   Gli occhi esperti da ostetrica di Tess entrarono in azione. Bianca aveva il fiato corto, come molte donne vicine al terzo trimestre di gravidanza. Forse era intorno al settimo mese. Il pancione era alto e sporgeva in avanti. Aveva un colorito pallido, ma non così slavato da essere preoccupante.

   «Ian, hai già fatto abbastanza danni» disse il folletto. «Vai a casa.»

   Aveva ancora in mano lo speaker Bluetooth di Tess, come se intendesse portarlo via con sé. Invece, con un ringhio lo posò violentemente sulla panca da picnic. «Vedi di non farmi tornare qui.»

   «Ian!»

   Ignorando il folletto, attraversò il ponticello sbattendo i piedi sulle assi di legno bagnate con una tale veemenza che Tess si aspettava di vedere crollare tutto nel Poorhouse Creek.

   «Non badare a lui» disse Bianca. «Sta facendo il coglione.»

   Accanto al montanaro turbolento, il folletto al riparo dell’ombrello rosso sembrava un arcobaleno bagnato di rugiada, e Tess girò la serratura del suo vaso di Pandora interiore, il luogo in cui rinchiudeva le proprie emozioni quando aveva bisogno di superare la giornata. «È stata colpa mia» confessò. «Non sapevo che lassù abitasse qualcuno.»

   «Ci siamo trasferiti tre giorni fa. Non per mia scelta, ma mio marito pensava che l’aria di montagna mi avrebbe fatto bene. Perlomeno è quello che ha detto.» Bianca porse l’ombrello a Tess e si sfilò l’abito di cotone dalla testa. Era nuda, fatta eccezione per un minuscolo perizoma color champagne. «Oddio, era tutta la mattina che volevo farlo. Mi sembra di avere un forno acceso, dentro.»

   La pioggia era diventata una leggera acquerugiola, e Bianca lanciò uno sguardo agli alberi gocciolanti. Era magra, aveva cosce sottili e vene azzurrine che le attraversavano i piccoli seni di porcellana. A proprio agio con la sua nudità, si stiracchiò, sollevandosi sulle punte dei sandali e lasciando i lunghi capelli ricadere sulla schiena in una cascata di seta. «È molto tranquillo, qui. Ma noioso.» Guardò in direzione della baita. «Hai del caffè? Ian dà di matto se solo provo a guardare una tazza di caffè, e ho ancora due mesi davanti a me.»

   Tess era venuta qui, tra le montagne del Tennessee, per allontanarsi dalle persone, ma la novità di parlare con qualcuno che non la vedesse come una vedova disperata la attirava. Inoltre, non aveva niente di meglio da fare che sbattere i piedi per terra o guardare fuori dalla finestra. «Certo.» Raccolse la ballerina che aveva scalciato via. «Ma ti avverto, dentro è ancora un gran casino.»

   Bianca scrollò le spalle e chiuse l’ombrello. «La gente ordinata mi manda fuori di testa.»

   Tess esibì uno di quei sorrisi che era solita simulare per convincere tutti quanti del fatto che stesse bene. «Non c’è pericolo.»

   Un tempo era tutto diverso. Era una persona ordinata. Credeva nell’organizzazione, nella logica, nella prevedibilità. Un tempo credeva nelle regole. Se si svolgevano i propri compiti, se ci si fermava al segnale di stop, se si pagavano le tasse, tutto sarebbe andato per il verso giusto.

   La grossolana copertura esterna della baita era solida ma brutta. Sul tetto cresceva il muschio, e due tronchi sottili, ormai spogliati da tempo della corteccia, sostenevano l’aggetto sopra la porta del retro. I rami ancora spogli del noce, dell’acero e del noce nero erano sospesi sulla vecchia casa, graffiando il tetto come unghie di streghe.

   La stanza principale ospitava la cucina e il soggiorno, e una scala in legno portava alle due camere da letto del piano superiore. Le pareti erano di pino sbiancato, ma ormai ingiallite dal tempo. Le tende polverose si erano strappate quando Tess aveva provato a tirarle giù per lavarle, e fu costretta a sostituirle con altre semplici tende bianche. Una grande finestra offriva uno scorcio sulla vallata sottostante e sulla cittadina di Tempest, in Tennessee. Le finestre posteriori davano invece sul Poorhouse Creek.

   Bianca sistemò il vestito di lino sulla poltrona e sfruttò lo schienale per mantenere l’equilibrio mentre si toglieva i sandali che le pizzicavano i piedi. Raddrizzandosi, spostò lo sguardo dal camino in pietra nero di fuliggine disposto a un’estremità della baita alla vecchia cucina sul lato opposto.

   Il lavandino in ghisa era originale, come la cucina a gas anni Cinquanta. La scaffalatura a giorno, ora libera dalla carta fatiscente che l’aveva rivestita, ospitava la scarna collezione di piatti e scatolame che Tess aveva portato con sé da Milwaukee. «Sarebbe un amore una volta ristrutturata» disse Bianca.

   Solamente quando iniziò a battere i denti, Tess si rese conto di quanto avesse freddo. Infilò le gambe ancora umide nei jeans che aveva abbandonato accanto alla porta sul retro e indossò la vecchia felpa dell’Università del Wisconsin di Trav sopra la canottiera bagnata. «Non sono il tipo da fai-da-te.»

   Nemmeno Trav lo era. Era quello che reggeva la torcia elettrica mentre lei si rannicchiava sotto il lavandino per sistemare una tubatura che perdeva.

   «Ti ho mai detto quanto sei sexy mentre usi la chiave inglese?» le aveva detto.

   «Dimmelo ancora

   Tess accarezzò il dito un tempo avvolto dalla fede nuziale. Toglierla le aveva spezzato il cuore, ma se avesse continuato a indossarla in questo posto, avrebbe dovuto sopportare fin troppe domande. E ancora peggio, avrebbe dovuto ascoltare le storie dei lutti altrui.

«So come ti senti. Ho perso mia nonna l’anno scorso

   «…mio zio

   «…il mio gatto

   No, non sapete come mi sento!, voleva urlare Tess in faccia a tutti i suoi amici e colleghi benintenzionati. Sapete solo come state voi!

   Distese le dita. «Posso almeno assicurarti che è tutto pulito.»

   Aveva strofinato la cucina da cima a fondo, usando la paglietta d’acciaio sui fornelli e la polvere abrasiva per il lavandino in ghisa. Aveva lavato i vecchi pavimenti di pino, trascinato fuori il logoro tappeto turco per eliminare la polvere a forza di colpi, ed era stata preda di una serie di interminabili starnuti quando aveva fatto lo stesso con i cuscini del divano, le cui fodere illustravano una scena di caccia alla volpe tipicamente inglese e del tutto inadeguata. L’unico acquisto significativo era un materasso nuovo per il letto matrimoniale del piano di sopra.

   Guardandosi alle spalle, Bianca arricciò il suo piccolo naso perfetto. «E hai il bagno all’esterno?»

   «Dio è stato clemente. Hanno fatto arrivare le tubature al piano di sopra.» Chiuse la zip della felpa di Trav. L’aveva indossata per mesi dopo la sua morte, finché non era diventata così lercia da necessitare una bella lavata. Ora non aveva più il suo profumo tanto familiare, quel misto di calore della pelle, sapone e deodorante.

   Ma che cavolo, Trav… Quanti trentacinquenni muoiono di polmonite pneumococcica al giorno d’oggi?

   Strattonò i lunghi capelli annodati per tirarli fuori dal collo della felpa. «Ho comprato la casa senza vederla. Il prezzo era buono, ma le foto erano fuorvianti.»

   Bianca raggiunse il tavolo della cucina camminando a papera. «Sarebbe davvero carina con una mano di vernice e mobili nuovi.»

   Un tempo Tess avrebbe raccolto la sfida, non adesso. Non solo non poteva permettersi dei mobili nuovi, ma non le importava nemmeno. «Un giorno.»

   Mentre Tess preparava il caffè, Bianca prese a chiacchierare sulla biografia che aveva appena letto di una delle amanti di Picasso, e di quanto le mancasse il cibo tailandese. Tess venne a sapere che Bianca e suo marito vivevano a Manhattan, dove lei lavorava come visual merchandiser per l’industria della moda. «Progetto vetrine e pop-up store» spiegò. «È molto più divertente che fare la modella, ma molto meno remunerativo.»

   «Facevi la modella?» Tess si voltò dai fornelli per guardarla mentre finalmente metteva insieme i pezzi. «Ecco perché hai un volto così familiare. Bianca Jensen! Tutte volevamo essere te.» Non era riuscita a collegare il nome di Bianca con i giorni del college, quando quel viso era sulle copertine di tutte le riviste di moda.

   «Ho avuto una bella carriera» disse Bianca con modestia.

   «Più che bella. Eri dappertutto.» Mentre Tess versava il caffè in due tazze, ricordò quanto quelle copertine la facessero sentire insoddisfatta del proprio seno abbondante, dei capelli ribelli e della carnagione olivastra.

   Bianca prese un sorso di caffè dalla tazza e si lasciò andare in un lungo e portentoso sospiro. «Quant’è buono. Penserai che Ian faccia uso di eroina per il modo in cui si comporta.»

    Essendo un’ostetrica, per Tess non era la prima volta che stava seduta a un tavolo da cucina davanti a una donna quasi del tutto nuda, ma al contrario di Bianca le altre donne stavano partorendo. Bianca posò la mano libera sull’addome nel tipico gesto protettivo e soddisfatto delle gestanti. «Da quanto vivi a Tempest?»

   «Ventiquattro giorni esatti.» Essere troppo evasivi rendeva la gente curiosa, quindi era meglio far trapelare qualche piccola informazione di propria volontà per dare l’idea di non avere nulla da nascondere; poiché quando le persone venivano a sapere che era vedova, tutto cambiava. Appoggiò i talloni sul piolo della sedia. «Mi sono stancata di Milwaukee.»

   «Come mai sei venuta proprio qui?»

   Perché aveva letto il nome Runaway Mountain su una cartina. «Sono diventata irrequieta.»

   Non era vero. Trav era il membro irrequieto della coppia. Nel corso degli undici anni del loro matrimonio, avevano vissuto in California, in Colorado e in Arizona prima di tornare a Milwaukee dove entrambi erano cresciuti. Ed era di nuovo pronto a spostarsi poco prima di morire. Fece scorrere il pollice sul manico della tazza. «Voi, invece? Come siete finiti su queste montagne?»

   «Non per mia scelta. Non ci saranno più di ottocento persone in questo posto dimenticato da dio.»

   Novecentosessantotto, secondo il cartello sulla statale.

   «È tutta colpa di Ian» aggiunse. «Troppe persone lo infastidivano a New York, tra committenti, stampa, aspiranti artisti, così decise che dovevamo trasferirci quassù.»

   «Committenti? Stampa?»

   «L’uomo che ti ha gridato contro è Ian Hamilton North IV. L’artista.»

   Nonostante Tess non amasse i musei, aveva riconosciuto il nome. Ian Hamilton North IV era uno degli artisti di strada più famosi, secondo solo al misterioso Banksy. Era anche, così le pareva di ricordare, la pecora nera della dinastia finanziaria della nobile famiglia North. E nonostante non sapesse molto sugli artisti di strada – o ‘merdisti graffitari’ come li chiamava Trav – era affascinata dall’opera di North.

   «Dammi una bomboletta di vernice spray e vedrai che posso farlo anch’io» diceva Trav. Ma i critici non erano della stessa opinione.

   Ricordava cosa aveva letto su North. La sua reputazione era cresciuta da piccole tag agli angoli delle strade cittadine agli stencil poster che applicava alle fermate degli autobus e alle cassette delle lettere. Da quel momento aveva iniziato a produrre opere più grandi, che cominciarono a comparire sulle facciate degli edifici in tutto il mondo, inizialmente come lavori illegali e alla fine come murales commissionati. E adesso gallerie e mostre, come quella che aveva visto con i suoi poster e i dipinti che riportavano la tag usata da quando era solo un ragazzino: IHN4, Ian Hamilton North IV.

   Gli artisti di strada, per natura, avevano poco rispetto per la legge e l’ordine, quindi non avrebbe dovuto sorprenderla che anche lui, per quanto brillante, fosse sprovvisto del gene dell’altruismo. Testimoniato dal fatto di aver trascinato la moglie incinta lontano da casa e nel bel mezzo del nulla a soli due mesi dal parto.

   «Ho visto la mostra al MoMa.» Lei e Trav erano stati a Manhattan poco prima che lui si ammalasse. A quel tempo, aveva amato le immagini esplosive che aveva visto sulle pareti del museo, ma ora che aveva incontrato l’artista si era ridimensionato tutto.

   «Sono la sua musa.» Bianca portò una mano alla clavicola. «Lo faccio impazzire, ma lui ha bisogno di me. Due anni fa ci eravamo lasciati. Rimase paralizzato per quasi tre mesi. Non riusciva a dipingere un bel niente.» Sorrise, senza nascondere un pizzico di soddisfazione.

   Tess non era sicura di quanto una creatura eterea come Bianca potesse ispirare un’opera tanto leggendaria. Nella mostra che aveva visto, le creature da videogiochi che occupavano i primi lavori di North si erano trasformate in creature grottesche e mitologiche che lui disponeva in situazioni quotidiane, come la famiglia riunita attorno a un tavolo durante la colazione, un barbecue in giardino, nel box di un ufficio. Nei dipinti, la calligrafia si era anche fatta più contorta e intricata, finché le lettere non avevano iniziato a perdersi in linee astratte.

   Il sorriso di Bianca si fece sognante mentre con le mani a coppa si toccava il pancione. «Ho un medico a Knoxville adesso, e ci trasferiremo in un albergo vicino all’ospedale un paio di settimane prima del termine. Non vedo l’ora che sia tutto finito.»

   Non aveva un’aria scalpitante. Sembrava piuttosto gongolare di ogni momento della gravidanza. Una morsa di dolore strinse il cuore di Tess. Avresti dovuto lasciarmi con un bambino, Trav. Era il minimo che potessi fare.

   «Era da tanto che volevo un bambino, ma Ian…» Fece leva con entrambe le mani sul tavolo per alzarsi dalla sedia. «È meglio che vada prima che venga a cercarmi. È iperprotettivo.» Attraversò la stanza per recuperare il vestito e i sandali. «Il passato da modella mi ha fatto diventare una nudista. Spero non ti abbia sconvolto più di tanto.» Lottò brevemente con i sandali. «Non avrei dovuto toglierli. Ora non riuscirò più a rimetterli.»

   Il gonfiore non era allarmante, ma dava l’idea di essere fastidioso. «Cerca di bere più acqua» suggerì Tess. «Sembra contro intuitivo, ma aiuterà il tuo corpo a trattenere meno liquidi. E tieni sollevati i piedi più spesso che puoi.»

   «Sembra che parli per esperienza. Quanti figli hai avuto?»

   «Niente figli. Facevo semplicemente l’ostetrica.» Ma questa era solo parte della verità. Era un’ostetrica qualificata la cui gioia nel far nascere i bambini le era stata risucchiata via, insieme a tutto il resto.

   «Ma è fantastico!» esclamò Bianca. «Ho sentito quanto sia difficile accedere a una buona assistenza sanitaria in queste zone.»

   «Mi sto prendendo un po’ di tempo, in realtà.» Se avesse fatto attenzione al denaro ricavato dalla vendita del loro appartamento, sarebbe riuscita a tirare avanti ancora qualche mese prima di doversi rimettere abbastanza in sesto per cercare uno studio e tornare a lavorare.

   «Vieni da noi domani» propose Bianca. «Ian sarà fuori a camminare o rinchiuso nel suo studio… sta passando un’altra delle sue crisi artistiche… così posso farti vedere la casa. Ho bisogno di compagnia, di qualcuno che non si limiti a ringhiarmi contro.»

   Tess aveva bisogno di stare con qualcuno che non sapesse della morte di Trav che non la vedesse come la donna sconsolata che era.

   Quando Bianca se ne andò, Tess portò le due tazze al lavandino, con il suo antico scolapiatti, il rivestimento di porcellana sbeccato e le macchie di ruggine che si rifiutavano di arrendersi a tutti gli sfregamenti. Mentre si asciugava le mani, notò le cuticole sfilacciate e le unghie spezzate. Al contrario di Bianca, Tess non sarebbe mai stata la musa di qualcuno, se non di un artista con la passione per le more sciatte dagli occhi scuri, dai capelli ricci e crespi e di dieci chili in sovrappeso.

   Trav diceva che i suoi occhi scuri viola-bluastri, la carnagione olivastra e i capelli quasi neri la facevano sembrare semplice ed esotica, come se fosse uscita da un film italiano degli anni Sessanta che lui adorava. E lei gli ripeteva che quei capelli quasi neri li aveva ereditati da una qualche antenata greca che non aveva mai sculettato per le strade di Napoli indossando un abitino attillato di cotone come Sophia Loren mentre Marcello Mastroianni la tallonava; ma questo non lo aveva dissuaso dal prenderla in giro inventandosi parole italiane.

   Anche Tess era una donna simpatica. Riusciva a far ridere anche la più nervosa delle gestanti. Ma adesso non ricordava nemmeno come ci si sentisse a ridere.

   Raggiunse le finestre della parte frontale della baita, cercando di decidere come riempire il resto della giornata. Un tracciato di ghiaia a tornanti costeggiava serpeggiando Runaway Mountain dalla città, passava per la baita, poi per la scuola e finiva in ciò che era rimasto di una vecchia chiesa pentecostale. Accanto a lei, su un tavolo logoro, c’era una copia tascabile di La morte e il morire di Elisabeth Kübler-Ross. Mentre Tess la fissava, venne travolta da una rabbia feroce. Afferrò il libro e lo scagliò dall’altra parte della stanza. Vaffanculo, Liz, tu e le tue cinque fasi del dolore! E se fossero centocinque? Millecinque?

   Ma Elisabeth Kübler-Ross non aveva mai conosciuto Travis Hartsong con i suoi lisci capelli ramati e gli occhi ridenti, le sue bellissime mani e il suo ottimismo infinito. Elisabeth Kübler-Ross non aveva mai mangiato la pizza a letto con lui, né si era mai fatta rincorrere da lui per tutta casa travestito da Chewbecca. E adesso Tess viveva in una baita fatiscente su una montagna dal nome appropriato nel bel mezzo del nulla. Ma anziché premere il tasto Reset sulla propria vita, provava soltanto rabbia, disperazione e vergogna per la propria debolezza. Erano passati quasi due anni. Le altre persone si riprendevano dalle tragedie. Perché lei non ci riusciva?

  

   Ian Hamilton North IV stava passando una brutta giornata. Una giornata particolarmente brutta incastonata in una serie di brutte giornate. Brutte settimane. Chi diamine voleva prendere in giro? Niente andava per il verso giusto da mesi.

   Aveva acquistato una casa a Tempest, nel Tennessee, per la sua estrema tranquillità. La via principale si trovava su una pericolosa strada statale a due corsie con una stazione di servizio, un bar chiamato The Rooster, un drive-in con annesso barbecue, un Dollar General, e un edificio di mattoni rossi che ospitava il municipio, la centrale di polizia e l’ufficio postale. C’erano tre chiese, uno stabilimento sospetto che si spacciava per una caffetteria, e ancora altre chiese nascoste sulle colline.

   Alla fine della statale, un edificio più recente a un piano autonominato Centro ricreativo Brad Winchester. Ian aveva già scoperto che il senatore di Stato Brad Winchester era il cittadino più ricco e potente del luogo. In passato, Ian avrebbe taggato quell’edificio alla prima occasione: IHN4 con una vernice Krylon gialla e uno dei suoi gargoyle che si intrecciavano fra le lettere. Probabilmente sarebbe anche stato arrestato per questo. Il pubblico aveva dei gusti limitati in fatto di arte pubblica, soprattutto nelle piccole cittadine. Tutti volevano i suoi murales, ma odiavano le tag, senza capire che uno non poteva escludere l’altra. Ma la linea che separava il vandalismo dalla genialità era aperta a ogni interpretazione, e lui aveva abbandonato ormai da tempo il ruolo di artista incompreso.

   La città era troppo piccola per turbare la bellezza naturale della regione: le colline e le montagne che sembravano essere state spruzzate con gli acquarelli, la vaporosa rugiada mattutina, i tramonti stravaganti, e l’aria pulita. Purtroppo, però, c’erano anche le persone. Alcune provenivano da famiglie vissute qui per generazioni, ma anche i pensionati, gli artigiani, i coloni e i survivalisti si erano stabiliti fra le montagne. Lui intendeva avere il minimo contatto con loro, e si recava in città con la vana speranza che il Dollar General vendesse i muffin che Bianca desiderava con tanto ardore. Aveva speso una fortuna per farsi consegnare quei muffin ogni settimana dal più vicino e dignitoso alimentari che aveva trovato a trenta chilometri di distanza. E i muffin non erano arrivati. Quei muffin erano troppo esotici per un negozio come il Dollar General, ma lui non era dell’umore adatto per mettersi alla guida e andarli a cercare altrove.

   Quando raggiunse l’auto, si fermò.

   La ballerina dervisci.

   Aveva lo sguardo fisso sulla vetrina del Broken Chimney, la cosiddetta caffetteria della città, un luogo che vendeva anche gelati, libri, sigarette e chissà cos’altro. Era strano. Nonostante la rabbia, aveva notato la totale assenza di gioia in quel ballo. I suoi movimenti fieri e nervosi erano quasi tribali, più simili a un combattimento che a un’arte. Ma adesso lei era ferma, sospesa in una chiazza di luce, e così, d’un tratto, desiderò dipingerla.

   Riusciva a visualizzarla. Un’esplosione di colore in ogni pennellata, in ogni pressione della bocchetta. Blu cobalto in quei capelli gitani, con un tocco di verde veronese vicino alle tempie. Rosso carminio a spennellare la pelle olivastra sugli zigomi, un velo di giallo cromo nel punto più alto. Una sfumatura ocra a ombreggiare il lungo naso. Tutto in una palette completa di colori. E i suoi occhi. Il colore di mature prugne d’agosto. Come poteva catturarne l’oscurità?

   Come poteva catturare qualsiasi altra cosa in quei giorni? Era in trappola. Imprigionato nella sua reputazione giovanile, come se fosse stato fossilizzato nell’ambra. Suo padre aveva fallito nel ‘tirare fuori l’artista che c’era in lui a forza di botte’, e ora Ian stava facendo quel lavoro per conto proprio. Gli artisti di strada come Banksy saprebbero trascinare le rispettive carriere fino alla mezza età, ma non Ian. La street art era l’arte della ribellione, e con la morte del padre e più soldi sul conto in banca di quanti ne sapesse spendere, contro cosa doveva ribellarsi? Certo, poteva ritagliare altri stencil, creare più poster, dipingere più tele, ma sarebbe stato tutto finto. Perché era così.

   Come poteva essere altrimenti?

   Una domanda a cui non sapeva rispondere; così rivolse di nuovo la propria attenzione alla donna dervisci. Indossava un comune paio di jeans e una grossa felpa di colore rosso granata, ma lui aveva un’eccellente memoria visiva. Per il poco che aveva intravisto mentre lei ballava quella danza primitiva, il suo corpo era troppo sottile, ma con qualche chilo in più sarebbe stata magnifica. Gli vennero in mente la sensuale Betsabea con la lettera di David di Rembrandt, La maja desnuda di Goya, la Venere di Urbino di Tiziano. La dervisci avrebbe dovuto mangiare un bel po’ per raggiungere quelle figure immortali, tuttavia voleva ancora dipingerla. Era il primo impulso creativo che sentiva da mesi.

   Allontanò quell’idea dalla testa. Doveva liberarsi di lei. E in fretta. Prima che potesse attirare l’attenzione di Bianca più di quanto avesse già fatto.

   Poi si diresse verso la caffetteria.

2

  

   Tess sapeva che le era vicino ancora prima di vederlo. Un fremito nell’aria. Un profumo. Una vibrazione. E poi quel ringhio burbero che riconobbe. «Bianca ha detto che sono stato incredibilmente maleducato stamattina.»

   «Doveva dirtelo lei?»

   Tess stava fissando il cartello sulla vetrina del Broken Chimney quando lui si avvicinò. Da così vicino, era ancora più imponente, l’esatto opposto dell’allampanato ed eremitico stereotipo di un artista con il pizzetto incolto, le dita macchiate di nicotina e gli occhi cerchiati. Lui aveva ampie spalle e la mascella dura come la roccia. Una lunga cicatrice correva lungo il lato del collo e i piccoli fori ai lobi indicavano la vecchia presenza di orecchini. Probabilmente a forma di teschio con le ossa incrociate. Era un fuorilegge, la versione adulta di un teppista adolescente che brandiva una bomboletta spray anziché una pistola, il giovane delinquente che aveva passato anni fuori e dentro la prigione per violazione di domicilio e vandalismo. Nonostante i jeans consumati e la camicia di flanella, era un uomo che faceva del proprio meglio, abituato a ricevere inchini da chiunque. Sì, lei si sentiva intimidita, sia da quell’uomo sia dalla sua fama. E no, non glielo avrebbe fatto capire.

   «Tendo a essere egocentrico…» disse, dichiarando l’ovvio «tranne quando si tratta di Bianca.» Pronunciò quelle parole lentamente per dar loro un peso maggiore.

   «Davvero?» Questi non erano affari suoi, ma lui aveva rizzato i peli del collo dall’istante in cui aveva fatto irruzione nel suo cortile. O forse lei stava semplicemente godendo della libertà dello sguardo di qualcuno che non le si rivolgesse con pietà. «Trascinando una donna incinta lontano da casa in una città priva di medici?»

   Il suo ego era troppo ingombrante per metterlo sulla difensiva, e quel commento parve non sfiorarlo minimamente. «Non partorirà prima di due mesi, e comunque avrà l’assistenza migliore. Ciò di cui ha più bisogno ora è pace e tranquillità.» I suoi occhi, del grigio ostile di un cielo invernale appena prima di una tormenta di neve, incontrarono quelli di Tess. «So che ti ha invitato a casa, ma io ho intenzione di ritirare l’invito.»

   Anziché ritrarsi come qualsiasi persona normale avrebbe fatto, lei insistette. «E perché mai?»

   «Te l’ho detto. Ha bisogno di riposo.»

   «Oggi come oggi alle gestanti in salute viene consigliato di tenersi attive. Non è quello che le ha suggerito il suo medico?»

   La sua leggera esitazione poteva sembrare impercettibile a qualcuno che non fosse un attento e acuto osservatore, ma non a lei. «Il medico di Bianca vuole il meglio per lei, e io mi assicurerò che lo ottenga.» Con un breve cenno del capo, Ian si allontanò, la forte muscolatura e la falcata decisa a dargli l’aspetto di un uomo cui Dio aveva dato il compito di saldare travi o pompare petrolio anziché creare una fra le arti più memorabili del XXI secolo.

   Bianca lo aveva definito ‘iperprotettivo’, ma il suo atteggiamento sembrava più che altro asfissiante. C’era qualcosa di sbagliato fra questi due.

   Un pick-up sporco di fango le sfrecciò accanto in una nuvola di gas. Era venuta in città per prendere dei doughnut, non per invischiarsi nelle vite altrui, così riportò l’attenzione sul cartello in vetrina.

   CERCASI PERSONALE

   Era un’ostetrica. Un giorno o l’altro, la rabbia, la disperazione si sarebbero trasformate in rassegnazione. Doveva succedere. E quando fosse accaduto, lei sarebbe stata pronta per cercare lavoro nel suo campo. Un lavoro capace di darle soddisfazione nell’aiutare madri vulnerabili a partorire.

   CERCASI PERSONALE

   Non le serviva tornare subito al lavoro, ma allora perché continuava a fissare il cartello, come se tutto il suo mondo incasinato si fosse ridotto a questa caffetteria isolata?

   Perché aveva paura. La solitudine che credeva l’avrebbe guarita, qui a Runaway Mountain, non stava funzionando. Restare a letto era diventato qualcosa di troppo allettante. Come mangiare doughnut e ballare sotto la pioggia. La settimana precedente, erano passati quattro giorni prima che si ricordasse di fare una doccia.

   Quell’amaro crescendo di disgusto per sé stessa che si gonfiava dentro di lei la costrinse a varcare la porta. Poteva chiedere informazioni sul lavoro, oppure – ancora meglio – poteva prendere un doughnut e andarsene.

   Sul bancone alla sua destra c’erano biscotti e ciambelle, ma questa non era una stravagante caffetteria metropolitana. Dal vetro di un freezer compatto si intravedevano otto vaschette di gelato. Gli scaffali a giorno offrivano sigarette, barrette di cioccolato, pile, e altre stranezze che non si trovavano normalmente nei negozi di doughnut, nelle gelaterie o nelle caffetterie. Un paio di espositori girevoli per libri erano relegati in un angolo, mentre una canzone rock che ricordava vagamente ma a cui non riusciva a dare il nome faceva da sottofondo.

   Una macchina del caffè sibilò. Il suo riflesso la guardò di rimando da una parete specchiata alle spalle del bancone. Viso paffuto, ombre rossastre sotto gli occhi, una ciocca di capelli che non veniva spazzolata da… forse ieri, forse l’altro ieri, e la felpa rosso granata di Trav.

   L’uomo addetto alla preparazione del caffè passò un bicchiere a un uomo anziano che si reggeva su un bastone. L’anziano zoppicò a un tavolo, mentre l’uomo del caffè le rivolse l’attenzione. Una coda di cavallo sottile e brizzolata gli serpeggiava sulla schiena. La osservò con quei suoi occhietti ripiegati in quel volto che somigliava a una mappa stradale di pelle. «Doughnut o torta?»

   «Come fa a sapere che voglia l’uno o l’altra?»

   Ficcò i pollici nella cinta del grembiule rosso che teneva annodato sul davanti. «Leggere la mente delle persone è il mio lavoro. Sei nuova di queste parti. Mi chiamo Phish. ‘Ph’ iniziali.»

   «Io sono Tess. È un fan sfegatato?»

   «Della band? Per la miseria, no. Io sono un Deadhead. I Grateful Dead sono la più grande band mai esistita. Ho messo su Ripple adesso… È l’unica canzone che conosce la maggior parte della gente.» La smorfia che gli attraversò il volto palesava il suo pensiero di una certa e incomprensibile ignoranza umana. «Faccio Phisher di cognome.»

   «E di nome?»

   «Elwood. Dimentica cosa ho detto.» Inclinò la testa in direzione della vetrinetta a tre ripiani sul bancone, accanto alla quale una piccola lavagna riportava la scritta TORTA DEL GIORNO. «Torta di mele olandese» disse. «Una delle più vendute.»

   «Mi piacciono di più i doughnut.» Non ce n’era una grande varietà. Glassati o spolverati, che lei non avrebbe mai definito veri doughnut, quanto torte mascherate da doughnut. Puntò la testa verso la porta. «Broken Chimney è un nome bizzarro.»

   «Avresti dovuto vedere com’era questo posto quando l’ho comprato. Rimetterlo a posto mi è costato ventimila dollari.»

   «Ho notato che non ha aggiustato il comignolo.»

   «Il camino è murato, quindi non aveva molto senso. Ed è un buon modo per farci trovare dalle persone.»

   Grattò con le unghie la cucitura laterale dei suoi jeans. «Ho visto il cartello in vetrina. Cercate personale, dunque?»

   «Vuoi il lavoro? È tuo.»

   Sbatté gli occhi. «Tutto qui? Potrei essere una fuggitiva, per quel che ne sa.»

   Phish gridò all’anziano avventore dall’altra parte del negozio. «Ehi, Orland! Tess, questa ragazza, ti sembra una fuggitiva?»

   L’anziano distolse lo sguardo dal giornale. «A me sembra italiana, quindi non si può mai dire. Però ha un po’ di carne intorno alle ossa. Questo mi piace. Non sarebbe male vederla quando entro.»

   «Ecco fatto.» Il ghigno di Phish rivelò una fila di denti storti. «Se piaci a Orland, per me è sufficiente.»

   «Non sono italiana.» Ignorò l’appunto sulla ‘carne intorno alle ossa’.

   «Se sei disposta a lavorare per uno stipendio minimo e accettare turni che nessun altro vuole coprire, oltre a sopportare mia nipote e mia cognata, poco m’importa della tua nazionalità.»

   «Sono entrata solo per prendere un paio di doughnut.»

   «Allora perché hai chiesto del lavoro?»

   «Perché…» Affondò le dita nei capelli e afferrò una ciocca. «Non lo so. Dimentichi tutto.»

   «Sai come si fa un espresso?»

   «No.»

   «Hai mai lavorato con un registratore di cassa?»

   «No.»

   «Hai niente di meglio da fare in questo momento?»

   «Meglio rispetto a…»

   «Prendere un grembiule.»

   Ci pensò un secondo. «Non proprio.»

   «Allora diamoci da fare.»

   Per la manciata di ore successive, Phish le mostrò come si svolgeva il lavoro mentre serviva i clienti. Lei non obiettò, incerta di come avesse lasciato che tutto questo accadesse. In un attimo era stata presentata a metà cittadina, compresi il gestore di un microbirrificio, alcuni pensionati del Nord, il direttore della comunità delle donne, e due membri del comitato scolastico. Tutti si mostrarono incuriositi da lei – esattamente ciò che la rendeva diffidente – ma era la normale curiosità delle persone quando incontravano gente nuova, e le risposte evasive che aveva dato anche a Bianca sembravano soddisfarli.

   Alle quattro servì il suo primo cliente. Due palline di gelato al burro d’arachidi e una copia del National Enquirer. Alle cinque, quando i Grateful Dead conclusero il ritornello di Bertha, Phish si sfilò il grembiule dalla testa e si diresse alla porta. «Savannah sarà qui alle sette per darti il cambio.»

   «Aspetti! Io non…»

   «Se hai delle domande, tienile fino a domani. O chiedi a uno dei clienti di darti una mano. Non si vedono molti stranieri da queste parti.»

   In un batter d’occhio, fu sola. Barista, gelataia, cameriera, venditrice di barrette di cioccolato e sigarette…

   Servì due fette di torta – una con gelato – una confezione di pile AA, una tazza di cioccolata calda e qualche mentina. Preparò il suo primo cappuccino, ma dovette rifarlo perché aveva calcolato male le proporzioni. Il negozio si era finalmente svuotato quando lui entrò, con un berretto da camionista che gli spuntava sulla testa e dei baffi color ruggine che gli ricadevano sul mento. Si prese tutto il tempo necessario per dare un’occhiata al rigonfiamento del seno sotto la pettorina del grembiule. «Un pacchetto di Marlboro.»

   Avrebbe dovuto aspettarselo, ma non era in grado di prevedere granché di questi tempi, così cercò di guadagnare qualche istante sistemando le banane nella ciotola sul bancone. «Sa cosa fa quella roba al suo corpo?»

Continua a leggere…. 

 

L’autrice

Susan Elizabeth Phillips

Susan Elizabeth Phillips è nata a Cincinnati (Ohio), l’11 dicembre 1948. È delle maestre della narrativa femminile internazionale. I suoi romanzi si sono posizionati ai vertici delle classifiche Usa, e hanno raggiunto i primi posti anche in Germania e Regno Unito. Il suo successo è legato alla capacità di cogliere con estrema delicatezza e con un tocco di ironia le sfumature dell’animo femminile, dando vita a scene di grande sensualità e intensità. Nel 1991 Sperling & Kupfer ha pubblicato il primo libro in traduzione italiana: Un fiore nella polvere. Tra i titoli usciti in Italia da Leggereditore: Il gioco della seduzione; Heaven, Texas, Un posto nel tuo cuore; E se fosse lui quello giusto?, tutti della serie Chicago Stars.

 

 

  • Vieni via con me
  • Susan Elizabeth Phillips
  • Editore: Leggereditore
  • Formato: EPUB con Light DRM
  • Testo in italiano
  • Cloud: Sì Scopri di più
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 749,7 KB
  • Pagine della versione a stampa: 356 p.
  • EAN: 9788833751290   [btn btnlink=”https://www.ibs.it/vieni-via-con-me-ebook-susan-elizabeth-phillips/e/9788833751290″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded02″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 2,99[/btn]

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