Fiabe corrette, principi cancellati, nani scomparsi: nella Disney postmoderna, la magia lascia il posto all’ideologia, e i sogni a una lista di prescrizioni.

WOKE E CONTENTI? COME DISNEY STA UCCIDENDO LE FIABE

Redazione Inchiostronero

Nel tentativo di dimostrarsi sempre allineata ai dettami del politicamente corretto, la Disney ha intrapreso una crociata contro il proprio stesso patrimonio narrativo, riscrivendo le fiabe più amate non per renderle attuali, ma per ripulirle da ogni possibile “peccato simbolico”. Il risultato? Biancaneve non sogna più l’amore, Ariel non canta per un principe, Peter Pan è privato della sua spensieratezza infantile. Ogni archetipo viene revisionato o cancellato in nome di un’inclusività che spesso diventa solo estetica, superficiale e imposta. Ma questa riscrittura continua non produce nuove visioni: produce storie senz’anima, personaggi spenti e narrazioni inerti. In questo articolo, una riflessione a fondo sulla deriva ideologica che sta svuotando le fiabe del loro significato profondo, sacrificando la magia sull’altare della correttezza. Perché educare non vuol dire censurare, e modernizzare non significa amputare. E la vera domanda resta: chi ci guadagna davvero?


Le fiabe non si correggono: si raccontano. Ma Disney sembra averlo dimenticato.

 La nuova Biancaneve non è ancora uscita, ma ha già fatto più rumore di qualunque incantesimo. E non per meriti artistici.

Annunciato come un aggiornamento “moderno” della storica fiaba dei fratelli Grimm, il live-action prodotto da Disney e atteso per il 2025 sembra in realtà l’ennesima vittima sacrificale sull’altare del politicamente corretto. Un remake che, invece di rinnovare con intelligenza, riscrive con imbarazzo. Il risultato? Un ibrido confuso, ideologico e privo di magia.

Rachel Zegler Biancaneve

Già la scelta dell’attrice Rachel Zegler per il ruolo della principessa “bianca come la neve” aveva acceso le polemiche. Ma il colore della pelle è il dettaglio minore. Il vero scossone arriva quando è la stessa protagonista a dichiarare che nella fiaba originale “c’è un grande focus sulla sua storia d’amore con un tipo che chiaramente le fa stalking”. Una lettura degna di un thread arrabbiato su Twitter, più che di una protagonista di un film destinato a milioni di spettatori.

Questa dichiarazione rivela l’intera natura del progetto: non un omaggio, ma una presa di distanza. Non un aggiornamento, ma una rettifica morale. La nuova Biancaneve non sogna più l’amore, non canta più “Someday My Prince Will Come”, non aspetta nessuno. Si emancipa, certo, ma disprezzando le fondamenta stesse della fiaba che dovrebbe incarnare. Una protagonista in guerra con la sua stessa storia.

E non finisce qui. I celebri sette nani sono stati sostituiti da creature “magiche e inclusive”, perché – afferma Disney – era necessario evitare “stereotipi dannosi”. Peccato che nella cancellazione ci sia anche la scomparsa di una delle rare rappresentazioni positive di persone affette da nanismo nella cultura popolare. Una decisione che non rispetta nessuno, né chi c’era prima né chi dovrebbe essere “incluso” adesso. Il messaggio che passa è semplice e inquietante: se qualcosa può far discutere, meglio cancellarla.

Quello che dovrebbe essere un racconto universale e senza tempo viene così trasformato in una lezione morale su come “dovremmo” pensare oggi. Ma una fiaba non è un editoriale: è mito, simbolo, archetipo. E gli archetipi non si correggono, si interpretano. Stravolgerli senza capirli produce mostri senz’anima: storie che non incantano più nessuno, personaggi senza radici, parole vuote di senso.

Il problema non è rendere Biancaneve moderna. Il problema è farlo partendo dal presupposto che l’originale fosse sbagliato, tossico, da correggere. È un’operazione che puzza di senso di colpa, non di creatività.

E allora, davvero, viene da chiedersi: siamo ancora capaci di raccontare fiabe? Oppure, come Biancaneve, stiamo dormendo in una teca di vetro ideologico, in attesa di un bacio che, questa volta, nessuno avrà il coraggio di dare?

E Biancaneve non è sola

Biancaneve non è un’eccezione: è il sintomo di una tendenza che sta trasformando l’intera produzione Disney in un gigantesco laboratorio ideologico. Ogni fiaba viene sottoposta a un esame morale, e spesso condannata in blocco per non essere allineata ai valori attuali. Il problema è che, nel tentativo di correggere il passato, si stanno distruggendo le basi stesse del racconto.

Prendiamo La Sirenetta: Ariel, da creatura curiosa e innamorata della superficie, è diventata un simbolo di autodeterminazione spinta fino alla rinuncia dell’amore. La sua voce non è più ceduta per amore del principe, ma per sé stessa. Il mito si svuota, si tecnicizza, si sterilizza. La magia è sostituita da una spiegazione, la poesia da un monologo interiore. E chi osa sollevare dubbi sulla direzione, viene tacciato di razzismo o nostalgia tossica.(1)

In Peter Pan & Wendy, i Bimbi Sperduti non sono più bambini, e nemmeno tutti maschi. Ci sono ragazze, etnie miste e un linguaggio inclusivo che cancella ogni tensione fiabesca. Persino Campanellino, figura emblematica di gelosia e luce capricciosa, viene trasformata in un personaggio silenzioso e piatto. Il risultato è un mondo che non diverte più, ma fa attenzione a non offendere. E in questa cautela estrema, perde tutta la sua forza evocativa.

Lo stesso vale per Cenerentola, dove la Fata Madrina è ora una figura queer in abito da sera, e il sogno della protagonista non è più quello del ballo o del riscatto, ma della “realizzazione personale”. Va bene, ma perché allora continuare a chiamarla Cenerentola? Perché rifare fiabe se non si crede più nei loro significati?

È stato lo stesso Billy Porter a dichiarare il ruolo in un’intervista
“Stiamo immaginando questo personaggio come se fosse privo di genere, o almeno è così che io lo sto interpretando. Ed è davvero potente. una fiaba classica per una nuova generazione. I bambini sono davvero pronti. Sono gli adulti che rallentano l’evolversi delle cose.”

Una creatività in crisi

Il vero nodo è che queste operazioni non nascono da un impulso creativo, ma da una paura. Paura di non essere abbastanza inclusivi. Paura di essere criticati. Paura di non stare “dalla parte giusta della storia”. Così le case di produzione, invece di creare nuove storie capaci di parlare al presente, preferiscono prendere quelle del passato e riverniciarle con gli slogan del giorno.

Ma il rischio è enorme: svuotare l’immaginario collettivo, trasformando le fiabe in depliant ideologici. Le storie sopravvivono nei secoli proprio perché sono imperfette, aperte, interpretabili. Se le si appiattisce su un unico messaggio, diventano semplicemente noiose. O peggio: inascoltate.

Conclusione: e se invece provassimo a raccontare storie nuove?

Il mondo ha bisogno di rappresentazioni più inclusive, certo. Ma questo non significa cancellare tutto ciò che è venuto prima. Significa affiancarlo, reinterpretarlo, e – soprattutto – creare di nuovo. Le fiabe non devono diventare conferenze, e le principesse non devono chiedere scusa per essere sognatrici.

Disney ha sempre saputo mescolare mito e modernità. Ma ora sembra aver perso la fiducia nel proprio pubblico, e nella potenza delle sue storie. Biancaneve, Ariel, Peter Pan: sono nomi che un tempo accendevano l’immaginazione. Oggi rischiano di diventare simboli di una crisi narrativa travestita da progresso.

Perché l’inclusione non si ottiene distruggendo la bellezza, ma aggiungendone di nuova.

Alla fine, la vera domanda è: chi ci guadagna?

Il pubblico? No. I bambini? Neanche. Le minoranze? Forse, ma solo a livello cosmetico. A guadagnarci sono i reparti marketing e i social media manager che possono dire: “Ecco, vedete? Anche noi siamo dalla parte giusta della storia”. Ma una storia, per vivere, ha bisogno di essere raccontata, non corretta.

Perché le fiabe non sono il nemico. Sono specchi del tempo in cui sono nate. E invece di bruciarle sul rogo del politicamente corretto, potremmo semplicemente insegnare a leggerle con intelligenza. Per poi – magari – scriverne di nuove.

Ma questo richiederebbe creatività. E coraggio. Due cose che a Hollywood, oggi, sembrano davvero fuori moda.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

 

 

 

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