”Nascita e morte, aurora e tramonto, sono i momenti del processo vitale più carichi di promesse
ZAMBRANO – LA DISTRUZIONE DELLA FILOSOFIA IN NIETZSCHE
Il tempo che è trascorso ci si mostra ricco oltre misura di forme di pensiero inquietanti, ambigue: sono forme che oscillano entro i limiti delineati con estrema precisione in tappe anteriori della cultura occidentale. Sono ambigue in ogni loro
aspetto e danno l’impressione di un’aurora, ma anche di un’agonia. Se durante i periodi di maturità la luce sembra essersi focalizzata illuminando un punto fisso e producendo le stesse ombre, in questo tempo che ancora palpita, la luce sembra soffrire un’agonia che è nascita e insieme esaurimento.
Nascita e morte, aurora e tramonto, sono i momenti del processo vitale più carichi di promesse. L’illimitatezza della nascita e la liberazione che si produce nell’istante anteriore a ogni morte si somigliano molto: sono gli istanti di massima libertà in cui si manifesta in una pura presenza la realtà che, finché dura la vita vera e propria, rimane chiusa in una forma. Nascita e morte sono distruzione di una forma, passaggi.
Libertà e ricchezza, possibilità di formazione di nuove combinazioni prima inaspettate o semplicemente impossibili, sono ciò che appare in questi tempi ambigui, che ospitano nel corso della loro durata una spiccata vena avventuriera che non dipende sempre dall’eroismo di chi l’affronta e che va dal più ascetico eroismo al farsi trascinare da qualunque tentazione.
Uno dei protagonisti di questo momento ambiguo fu Friedrich Nietzsche. (1)Una sua caratteristica peculiare è quella di rivelare una specie di estremismo implacabile, di rigore ascetico in tutto ciò che intraprende o crede di avere intrapreso. Nietzsche è, anzitutto, un eroe dell’estremismo che, essendosi reso conto di essersi fatto trascinare da una qualche tentazione, può rimanere ancorato a se stesso solo nella tenacia e nell’audacia.
Tale estremismo gli fece portare fino in fondo il processo di distruzione della Filosofia stessa. Fu forse il primo di quei distruttori geniali, dei lavoratori più infaticabili del suo tempo, almeno dei più esasperati. Ciò che gli toccò distruggere fu la Filosofia. Tale proposito emerge nella sua opera abbastanza chiaramente, ma ciò che lo consuma non è soltanto l’esistenza di tale proposito, ma qualcosa di assolutamente filosofico, che accomuna tutti i filosofi e specialmente i filosofi attuali: il desiderio di cercare le origini.
La Filosofia non accetta i princìpi individuati da altre Scienze. È un sapere autonomo che si fonda su se stesso, dice Aristotele, rivelando chiaramente la convinzione di tutti i filosofi che l’avevano preceduto. L’esigenza di autonomia implicava quella di attribuirsi i princìpi di tutti quanti gli altri saperi. Quindi il fatto che la Filosofia cerchi incessantemente i propri fondamenti appartiene all’essenza stessa della sua condizione. Da qui lo stupore fino all’irritazione di tanti uomini di scienza per quel suo cominciare e ricominciare senza tregua. Ma la Filosofia segue il proprio corso come la vita, con una continuità fatta di rinnovate rinascite, non di mere aggregazioni.
L’esigenza di scoprire le origini della Filosofia si unisce a un altro desiderio, che ha dominato l’uomo occidentale fin quasi a divorarlo: ritrovare il proprio Io originario. Una preghiera della setta buddhista giapponese chiamata Zen dice: «Signore, fa’ che io veda il mio volto così com’era prima che io nascessi» ed esprime così, poeticamente, uno dei desideri più profondi e irrefrenabili dell’essere umano. L’europeo ha sentito però tale desiderio in modo diverso da quello espresso dalla preghiera buddhista: parte dal proprio Io presente e attuale, poiché crede nell’immediato più dell’orientale. Contemplarsi allo stato originario, di assoluta purezza, scoprire quell’Io puro, vivo, invulnerabile, è stato senza dubbio il motivo ispiratore della Filosofia di più largo respiro del mondo moderno, ovvero dell’idealismo tedesco.
Nietzsche visse nella Filosofia un duplice slancio: quello per l’origine, che è proprio della Filosofia stessa, e quello dell’uomo che sogna di vedersi oltre il proprio essere. Nell’idealismo tedesco, con rigore squisitamente filosofico, l’ansia di un sapere originario sfociò nel «Sapere assoluto» proclamato da Hegel: il sapere originario di un Soggetto puro e assoluto.
Entrambi i desideri si uniscono intimamente, e forse fanno tutt’uno. Il desiderio di trovare se stesso, di scoprire ciò che si era quando ancora non si era qualcosa, affonda le sue radici nella Religione. Il desiderio di un «Sapere assoluto» che basti a se stesso è ciò che la Filosofia ha conservato della Religione, dalla quale si è separata. Il «Sapere assoluto» porta con sé l’essere assoluto, l’essere allo stato puro.
Nietzsche portò all’estremo, e senza pietà, questo desiderio che è anche ansia di creare, di fare partendo dal nulla, per far affiorare su di esso, come per la prima volta, le parole, la parola. Se il Filosofo esige che il pensiero inizi con lui la sua storia, il poeta sogna di pronunciare la parola originaria, quella che fissa l’ordine e l’esistenza delle cose stesse. Filosofia e Poesia hanno cercato da sempre la parola che crea l’essere, ma è l’Idealismo tedesco a dichiarare apertamente tale desiderio e a perseguirlo come nessun altro. Nietzsche, polemizzando con la Filosofia tedesca, non si rende conto di essere mosso dallo stesso desiderio, di collocarsi esattamente in quell’estremizzazione di Filosofia e poesia che è l’Idealismo.
È il suo «idealismo» radicale che lo porta a inquisire implacabilmente ogni dottrina. Come Hegel egli non accetta che la Filosofia sia «edificante». È noto il cammino che percorre: si rivolge a Socrate senza titubanze, come Lutero si rivolge ad Aristotele. E nell’idea del «bene e male» trova il pretesto dell’intera Filosofia. Perciò Socrate è il grande ingannatore, colui che sottilmente corrompe i valori introducendo il valore del bene e rendendo così irrimediabilmente la Filosofia
«ancella» [della Morale]. L’idea dell’essere è il fondamento; basta quindi procedere alla demolizione di questi valori per far riapparire i «veri» valori della vita. Al posto dell’idea dell’essere non ci sarà alcun’altra idea, ma la vita, realtà suprema.
La Filosofia sarà in Nietzsche un’«ispirazione», perché la vita non permette ad alcun’idea di sostituirla; può farsi presente solo «ispirando». Appare pertanto il primo di quei conflitti che tutta la filosofia vitalista presenterà. Se la vita non tollera alcuna idea radicale, alcun’idea di «essere» senza sentirsene soppiantata, vuol dire che l’uomo non deve prendere sul serio alcuna idea, che deve vivere come una potenza assoluta, imperscrutabile. La vita torna a essere ciò che era prima che nascesse la Filosofia occidentale e la sua equivalente orientale: Religione, sapienza. Nell’epoca anteriore alla filosofia, l’epoca degli Dèi stranieri, inaccessibili all’uomo, non era necessario che la vita fosse la propria per rimanere inaccessibile. L’uomo è così singolare nella sua condizione che ha bisogno che gli si riveli ciò che ha dentro di sé: la propria vita.
La Filosofia cominciò in un momento preciso, quando la vita ebbe bisogno di un sapere trasparente: all’uomo, infatti, non basta vivere e quando vive soltanto, non vive neppure. Potrà mai distruggere il fondamento ultimo dell’idea di essere, potrà prescindere nella propria «vita» da ciò che essa contiene: immutabilità, trasparenza, identità?
Ma non è questo il problema fondamentale che anima la contro-filosofia nietzschiana. La morale fu la sua Circe, il centro magico che ammaliò il suo pensiero e che, come ogni incantesimo, si ripresentava dietro ogni azione del processo distruttore. Nietzsche volle andare «al di là del bene e del male», ma riuscì soltanto a trasformarlo in un’esigenza più fiera: l’ascetismo socratico si tramutò in un’altra forma di ascetismo più implacabile, in cui la vita deve rinunciare ancor più all’immediato, alla bella spontaneità. La morale che egli volle distruggere per far scaturire liberamente la vita, si convertì in un labirinto pieno d’incantesimi. Distruggendo la Filosofia regredì al mondo magico, in cui gli oggetti sono sortilegi pericolosi, centri di alienazione, perché non hanno orizzonte né oggettività.
Nietzsche si addentrò nel mondo magico, che la Filosofia greca – essere e identità, bene e male – aveva ridotto a misura d’uomo. Fu il poeta che lo abitava ad avere i momenti migliori in tali confini, nei quali la parola non era più in grado di dire nulla. Il «logos» della Filosofia traccia i propri limiti all’interno della luce; quello della poesia invece riacquista forza sui pericolosi confini in cui la luce si dissolve nelle tenebre, oltre l’intelligibile. Ma la poesia nacque come slancio dell’oscurità verso la chiarezza e per questo precede la Filosofia, linguaggio meramente intelligibile, e l’aiuta a nascere. Senza la poesia la ragione non avrebbe potuto articolare il suo chiaro linguaggio. La prima coscienza che l’uomo acquisisce la potremmo chiamare «coscienza poetica», dove l’alienazione sfiora quasi l’identità. L’ebbrezza poetica originaria è – probabilmente come ogni ebbrezza – impeto, aspirazione a un’identità superiore.
In Nietzsche però la poesia ha dovuto attendere che il linguaggio razionale, nella sua secolare architettura, venisse distrutto. Non sarà stato il poeta, soffocato dal filosofo, quello che, nel complesso cuore di Nietzsche, obbligò la ragione a distruggere senza tregua se stessa? In lui, infatti, la poesia si sente libera e vive i suoi momenti migliori quando ormai la ragione perde il suo mandato. Così quest’ambigua personalità ci si mostra con i tratti di un certo misticismo, peraltro non inconsueto in molti suoi contemporanei. L’esigenza implacabile che gli ordinava di andare sempre oltre è simile alla brama di una realtà suprema, capace di trasformare una realtà composta che si mostra solo a coloro che hanno distrutto tutto, che hanno consumato tutto, «ogni scienza trascendendo».
Si ricordi il cammino che san Giovanni della Croce traccia con una lucidità geometrica, metodo per distruggere la potenza e le facoltà dell’anima, come risulta nei suoi commenti alla «Notte oscura». Tutte le facoltà soccombono; l’anima intera si dissolve e si scompone in quell’abbandono totale. Nel suo caso, come in tutti quelli dei mistici ortodossi – di qualunque Religione –, la dissoluzione dell’intelletto è accompagnata dalla dissoluzione dell’essere (per quanto sia possibile rimanendo in vita); non solo la scienza, ma l’essere stesso si trascende per dis-farsi, per dis-nascere in quella realtà ultima e suprema che l’intelligenza pura situò «al di là dell’essere e dell’essenza». Realtà suprema che trascende ogni bene e ogni idea, spazio infinito in cui inabissarsi e rinascere.
Nietzsche, come i mistici ortodossi, divora ogni scienza e si appresta a divorare perfino se stesso nel tormento senza fine che s’infligge. Ma come tanti uomini «moderni» presenta il volto dell’autou-timousemeno [«compiaciuto di se stesso»] della passione che si rivolta contro se stessa; mentre la brama del mistico è amore legittimo privo di narcisismo. La mistica moderna sembra nascere da una sorgente torbida in cui un Narciso tenta di contemplare la sua immagine infranta; è brama che può distruggere tutto, tutto meno quel sottile velo di amor proprio, fragile membrana ingannevole, che non oppone alcun ostacolo pur frapponendosi sempre, al confine, tra l’amore e l’intelletto in quanto tali, facendoli rivoltare
contro se stessi. La distruzione non raggiunge la trascendenza, anzi, torna alla sua origine come se fosse stata stregata e lì divora il proprio oggetto. L’amore riprende il dominio di sé e diviene passione, fame viziata che non accetta altro alimento se non quello che ha a portata di mano. Il volo ascensionale cade, si converte in «eterno ritorno», simbolo chiarissimo di una brama e di un amore ribelli di fronte all’oggetto.
Il risultato fatale del dramma, che Nietzsche ci presenta come limpido specchio dell’uomo moderno, è il mondo di fantasmi che oggi ci circonda: un mondo prerazionale dopo che la ragione lo ha abbandonato, un mondo prelogico che segue a un lungo periodo di esercizio di tutte le forme del logos; un mondo del «prima» nel «dopo». Non è questa l’immagine più veritiera dell’orrore?
L’orrore è sempre istantaneo perché sorge da una coincidenza di esseri o di situazioni discordanti. Adesso è orrore dell’anacronismo di un mondo magico nel quale siamo ricaduti dopo essere giunti alla pienezza di un mondo forgiato dal logos. Il mondo che precede la scoperta del pensare – dell’essere e dell’identità – aspira a questa scoperta e l’annuncia. La situazione odierna è più intricata poiché la riapparizione di quel mondo magico si verifica come ricaduta, come ritorno in mezzo alle rovine di un pensiero senza brio creatore.
L’«eterno ritorno» è, più che un’idea, un’illusione creata dall’orrore; come altre idee della Filosofia moderna è, più che un’idea vera e propria, uno stato d’animo. Nietzsche fu sopraffatto dal proprio orrore per non essersi addentrato più a fondo nella distruzione. La vita, abbandonata a se stessa, torna infatti ben presto a scoprire il pensiero. L’intelligenza nacque come richiesta della vita, che se fosse potuta sopravvivere senza, non l’avrebbe perseguita con tanto accanimento. La Filosofia, in realtà, è sempre stata vitale, compimento e realizzazione, nei suoi momenti migliori, di quella necessità che la vita subisce, di quell’aspirazione alla trasparenza che, se trovò la sua espressione più pura nella Filosofia e in certe Filosofie, è riconoscibile in tutte le tormente della storia.
(María Zambrano, Verso un sapere dell’anima)
***
È vero, non si può leggere Nietzsche senza sentirsi costretti a essere pro o contro. Non c’è una via di mezzo: o con lui o contro di lui. O seguirlo nel suo «folle volo» al di là dello Stretto «del bene e del male», o tenersi alla larga, molto alla larga, dalla sua «poesia» (perché è là, nel «poetico», nel «creativo», che il suo «pensiero» si rivela tutt’altro che commestibile e pacifico).
Può darsi che Nietzsche non sia mai venuto a capo del suo narcisismo. E che per questo il suo «misticismo», come dice la Zambrano, sia rimasto torbido, sempre al di qua di una riconciliazione con quel Passato Puro a cui anelava. Può darsi che alla fine sia stato travolto dalle Potenze Contrarie che aveva osato scatenare, ma d’altra parte proprio questa era stata la sua «scoperta»: che ogni nostro Pensiero è nuovo e originale solo se nasce contro – se nasce per abbattere il «muro del linguaggio», per decostruire dice oggi qualcuno, mattone per mattone, la barriera dei Segni che la Cultura oppone al suo «Volere» e dare così «trasparenza» a questo Volere che, malgrado tutti i suoi Segni, la Cultura non può mettere a tacere una volta e per sempre.
Il Pensiero nasce per sfida al Problema che un Segno per caso gli oppone: un chi va là? una lonza lupa leone, uno spettacolo bello e terribile a un tempo, un non so che di fronte. E allora può darsi che il primo mattone (la prima questione «erotica») a divenire «origine immaginale» e forma non più vuota del Problema, sia proprio la faccia del suo dirimpettaio. E può darsi che Nietzsche, come Narciso, non sia giunto fino a disfarsi di questo velo di vanità, fino a squarciare il Segreto nudo e crudo del suo volto, come invece riesce al misticismo poetico di un ‘Attâr o di un Dante. Può darsi che si sia impigliato in una spina della sua «poetica» corona. Ma non è da questo che si giudica un «poeta»: non gli si può chiedere di scrivere poesie mentre si abbandona all’ultimo atto della decostruzione della sua propria mitologia.
Può darsi che a Nietzsche sia mancato il grande colpo di genio, il «motto di spirito» da apporre come Sigillo Ambiguo alle lettere sparse del suo «poema». Può darsi che sia stato troppo, o troppo poco, «spirituale» per non comprendere che l’avrebbe compreso solo chi fosse stato contro il Muro, anziché congiurare contro di lui a futura memoria.
Perciò si può scusare tutto alla Zambrano, ha le sue buone, ottime ragioni per pensarla così, ma in quanto all’Orrore dei Tempi Moderni, e ai Fantasmi che si aggiravano ai suoi tempi e si aggirano tuttora per la vecchia Europa, da secoli o forse da millenni, non è a Nietzsche l’Orribile che vanno imputati. Non è Nietzsche il Colpevole della Pazzia (della Significazione) Umana.
È contro il Muro, e non un «filosofo» contro l’altro, che Nietzsche ci manda a dire di mirare. Ce lo manda a dire dal fondo della sua «pazzia», con l’ultimo respiro della sua vita. Distruggere la Filosofia, distruggere la Mitologia, distruggere, perché no? anche la Poesia – che altro sono, se non mattoni che s’innalzano a difesa di Confini? Non il Filosofo, non il Musico o il Poeta, ma distruggere il Muro che li divide e, insieme, li «giustifica»: ciascuno a coltivare il suo giardino! Mi raccomando!
È il Muro che è impazzito. Brutte Figure popolano le Tavole della Legge scritta. La Macchina Simbolica produce follie e paranoie. Finiamola di prendercela tra di noi. Noi non siamo che i polli di don Abbondio!
DescrizioneIl libro può essere considerato come il manifesto del pensiero polivalente di Maria Zambrano. In esso si mostra infatti la genesi delle due forme di ragione, mediatrice e poetica, che ne hanno guidato tutta l’attività filosofica intrecciandosi con una costante riflessione sulla storia della filosofia e della cultura europea, la sua crisi e i suoi fallimenti dei quali l’Europa intera era arrivata ormai a soffrire mortalmente. La sfida vitale che il filosofare di Maria Zambrano assume è dettata dalla necessità, non solo teorica ma esistenziale e politica, del “rinnovamento di un’amicizia perduta” attraverso un sapere dell’anima.
Approfondimenti del Blog